Bologna è una città che sta perdendo la sua anima

Corteo per il diritto alla casa a Bologna, 24 ottobre 2015. Tutte le foto sono di Michele Lapini.

È il tardo pomeriggio del 24 ottobre 2015 e sto camminando in via Indipendenza, a Bologna. Al mio fianco sfilano migliaia di persone, che urlano al megafono slogan come “Ti dico fermati, qui non si sgombera” e “Mai più senza casa.” La fila iniziale del corteo regge un grosso striscione—”Basta sfratti / basta sgomberi”—e l’enorme orso di peluche che è diventato il simbolo della “Ex Telecom,” una maxi-occupazione abitativa brutalmente sgomberata dalla polizia solo qualche giorno prima.

I rumori della “Marcia delle periferie e della dignità” si confondono con quelli di una delle strade principali del centro storico, mentre i lampeggianti delle camionette della polizia illuminano i dehor gremiti dei locali. I passanti rimangono sotto i portici, ai lati del corteo, e vedo che c’è chi riprende la scena con gli smartphone, chi si unisce per un breve momento ai canti, chi accelera il passo per allontarsi dal frastuono, e chi semplicemente ignora quello che sta succedendo a pochi passi di distanza.

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Lo stacco non potrebbe essere più evidente: è come trovarsi di fronte a due parti diverse di città che si osservano e studiano, in un miscuglio difficilmente districabile di compartecipazione, curiosità, fastidio e aperta ostilità. Devo dire che la sensazione è un po’ straniante—e straniante, a ben vedere, è un termine che si può usare per definire l’attuale situazione politica e sociale a Bologna.

Era da un paio d’anni che non tornavo, nonostante sia una città a cui sono molto legato: è qui, infatti, che ho fatto l’università e vissuto da studente fuorisede fino alla laurea. Dopo di questa, a Bologna ci sono andato sporadicamente—principalmente per le ultime feste di laurea e per qualche serata con i compagni più stretti d’università.

Da un po’ di tempo a questa parte, leggendo le cronache locali e parlando con chi abita lì, ho avuto la netta percezione che qualcosa in questa città stesse cambiando profondamente. E contrariamente a quanto possa apparire dall’esterno oggi Bologna è una città abbastanza divisa, in cui succedono cose che fino a poco tempo fa sarebbero state inimmaginabili.

Via Rizzoli blindata dalla polizia durante la manifestazione “Libertà di dimora” a Bologna, 26 settembre 2015.

Lo sgombero della “Ex Telecom” è uno di questi casi, oltre a essere una vicenda che ha segnato uno spartiacque. La struttura—che versava in stato di abbandono da diversi anni e si trova proprio davanti alla nuova sede del Comune in via Fioravanti, nel quartiere della Bolognina—era stata occupata lo scorso 4 dicembre dagli attivisti di Social Log (un collettivo per il diritto alla casa) e da 76 nuclei familiari, per un totale di quasi trecento persone, tra cui un centinaio di minori.

All’alba del 20 ottobre, uno spiegamento di polizia degno di un’operazione antiterrorismo ha circondato l’edificio e ha iniziato le procedure di sgombero. La giornata è stata piena di tensione, e la Ex Telecom è stata “svuotata” dopo più di dieci ore.

Occupanti sul tetto della Ex Telecom.

Che non sia stato uno spettacolo particolarmente edificante lo testimoniano le immagini e i video: dita spezzate e teste aperte dalle manganellate, bambini attaccati a un respiratore e portati in ospedale, altri bambini che cercavano di divincolarsi dalla polizia e, per finire, intere famiglie che passavano in lacrime tra le colonne di blindati e gli agenti in assetto antisommossa.

Lo shock provocato da quanto successo all’Ex Telecom è stato tale che, per qualche giorno, persino l’amministrazione comunale bolognese ha avuto un sussulto.

L’assessore al Welfare Amelia Frascaroli, eletta con Sinistra Ecologia e Libertà, prima è intervenuta su Facebook affermando di non aver voluto lei lo sgombero, poi ha detto: “È stato il giorno più brutto della mia vita, non era mai successo a Bologna e non deve più succedere.” Quando c’era stata l’occupazione, però, Frascaroli aveva addirittura accusato gli attivisti di aver “rastrellato” gli occupanti in giro per la città e di “alimentare la guerra tra poveri.”

Lo stesso atteggiamento ondivago l’ha tenuto il sindaco Virginio Merola del Partito Democratico, che sarà ricandidato—dopo gli immancabili scazzi interni—alle prossime comunali che si terranno nel 2016. Durante la conferenza stampa convocata il giorno dopo lo sgombero, il primo cittadino ha dichiarato che “a Bologna lavoriamo perché non ci siano più sgomberi con la forza,” aprendo anche a un possibile blocco degli sfratti.

A distanza di nemmeno una settimana, su quest’ultimo punto—e sulle occupazioni in generale, che si innestano in momento di grave emergenza abitativa a Bologna—è però arrivata una chiusura definitiva. L’assessore al welfare della Regione Emilia-Romagna, Elisabetta Gualmini, ha infatti detto che “le occupazioni rimangono abusive, chi occupa deve aspettarsi lo sgombero.” Merola, dal canto suo, si è scagliato contro quelli che “stanno alla sinistra” del PD, definendoli capaci solo di “strumentalizzare la povera gente.”

Occupanti sul tetto mentre la polizia cerca di sgomberare lo stabile Ex Telecom.

Ma il dato di fatto che è emerso negli ultimi mesi—e reso palese al di fuori dei confini cittadini proprio con il caso “Ex Telecom”—non è tanto l’ipocrisia della giunta locale, quanto l’evidenza che quest’ultima non abbia la più pallida idea di come governare la città.

Come mi dice Valerio Monteventi, ex consigliere comunale e memoria storica dei movimenti bolognesi, “il Partito Democratico non è un partito che può in qualche modo assomigliare ai partiti che l’hanno preceduto a livello di governo della città.” Ciò comporta dunque una “scarsa capacità amministrativa,” di cui peraltro i cittadini sono ben consapevoli e ripagano con tassi d’astensionismo mai registrati prima in questa città. Dopo il clamoroso 63 percento alle regionali del 2014, un sondaggio di pochi mesi fa attesta al 70 percento i bolognesi che intendono allontanarsi dalle urne.

L’altro effetto più visibile di questo vuoto politico è la supplenza, chiamiamola così, di Questura e Procura—che ora come ora appaiono come i veri amministratori di Bologna. Quando si è insediato lo scorso aprile, il nuovo questore Ignazio Coccia ha messo subito in chiaro che i movimenti antagonisti—una realtà che, pur essendo ancora rilevante in città, appare molto disgregata—sono uno dei problemi principali di questa città.

E alle parole sono seguiti i fatti: prima sotto forma di una sfilza di denunce, arresti, sanzioni pecuniarie e provvedimenti come i divieti di dimora; poi con l’apertura della grande stagione degli sgomberi—un’escalation che, dall’università (vedi lo sgombero dell’Aula C nella facoltà di scienze politiche, o quello di Bartebly) alle occupazioni abitative, non ha risparmiato praticamente nessuno.

Sgombero dell’occupazione abitativa “Villa Adelante,” in viale Aldini, il 18 giugno 2015.

Per rendersi conto dell’intensità del fenomeno, basta pensare che quello della “Ex Telecom” è stato il terzo sgombero consecutivo nell’arco di pochi giorni. Alle 7 di mattina del 15 ottobre la polizia, dando esecuzione a una richiesta della Procura, aveva sgomberato uno stabile occupato dal collettivo Làbas—in cui erano alloggiate una trentina di persone tra italiani e stranieri, inclusi cinque minorenni—in via Solferino.

Anche in questo caso il Comune era cascato dalle nuvole. L’assessore Frascaroli si era sfogata davanti alle telecamere dicendosi “molto colpita” e aggiungendo anche che “queste esperienze [ le occupazioni] stanno creando valore sociale.” Con una mossa eclatante, la Digos aveva acquisito il video con le dichiarazioni dell’assessore, scatenando la protesta di SEL.

Occupanti all’interno del palazzo in via Solferino.

Il 9 ottobre era stato il turno di Atlantide, uno storico spazio autogestito nel cassero di Porta Santo Stefano che per più di quindici anni ha ospitato collettivi punk, queer e LGBT. Anche in questo caso, le forze dell’ordine sono arrivate all’alba; ma a differenza di altri sgomberi, questa volta a ordinarlo è stato direttamente Merola, che solo pochi giorni prima di mandare la celere se l’era presa—utilizzando un linguaggio da Sentinelle in Piedi—con le “pressioni” di una presunta “lobby gay.”

La decisione del sindaco ha causato uno strappo con SEL e una crisi di giunta, visto che l’assessore alla cultura Alberto Ronchi è stato sfiduciato nella gestione della vicenda e infine “licenziato“. Prima che l’ingresso di Atlantide venisse murato una volta per tutte, Ronchi stava infatti conducendo una trattativa con i collettivi per trovare un’altra sistemazione.

“Ricevere la comunicazione dell’ultimo avviso di sgombero,” mi racconta Beatrice di Atlantide, “mentre eravamo fisicamente sedute a Palazzo d’Accursio per siglare un accordo sulla gestione di un altro spazio, è stato, per così dire, perturbante.”

Un momento dello sgombero di Atlantide.

Al di là degli straschici politici, la vicenda di Atlantide è emblematica perché va a toccare uno dei tratti distintivi di Bologna—quello controculturale. Il Guardian, che ha dedicato allo sgombero un articolo, si è concentrato proprio su questo aspetto, parlando di una “perdita devastante” e di una città che, sostanzialmente, sta perdendo del tutto la sua anima “alternativa.”

In realtà, come mi spiega ancora Beatrice, è difficile stabilire se quest’anima sia già stata compromessa, o se sia in procinto di esserlo. “Storicamente a Bologna, come in altri luoghi, hanno sempre convissuto dimensioni differenti, che in alcuni momenti sono anche entrate apertamente in rotta di collisione.” Quello che è certo, continua l’attivista di Atlantide, “è che sono radicalmente cambiati i rapporti tra quelle diverse dimensioni che la compongono. Certamente è cambiata la faccia del potere. E, forse, la prima vittima di questo cambiamento è proprio la possibilità di quella convivenza tra le sue diverse dimensioni.”

Recentemente, un’altra grande testata internazionale—il New York Times—si è occupata di Bologna nella serie di reportage video “36 Hours .” A differenza del Guardian, il NYT ha tenuto il focus sulla gloriosa tradizione culinaria, sulla ristorazione e sulle eccellenze locali, mostrando come la città stia diventando sempre più appettibile per il turismo. Il servizio è piaciuto moltissimo all’assessore regionale al turismo, Andrea Corsini, per cui “il nostro impegno sul fronte dell’internazionalizzazione del turismo in arrivo nella nostra regione è ora più intenso che mai, e stiamo raccogliendo ottimi frutti.”

Turisti in via Ugo Bassi, agosto 2015.

Come parte di questo impegno, circa un anno e mezzo fa è stato lanciato ” Bologna City of Food,” un progetto di “marketing territoriale” per “coordinare tutte le iniziative sul cibo” nell’area metropolitana della città. In un’intervista sul Fatto Quotidiano, il docente e “coordinatore del city branding” Roberto Grandi aveva spiegato che “Bologna è uno spazio metropolitano che si nasconde ma che è real, vero, in contrapposizione alle città turistiche” e che “tra gli aspetti più rilevanti” della città “c’è anche l’identità con il cibo.”

In effetti, passeggiando nelle vie intorno a Piazza Maggiore ci si accorge quanto l’investimento del comune—e soprattutto dei privati, in primis i colossi della grande distribuzione—sia stato massiccio. Già nel 2013, del resto, il presidente di Ascom Bologna aveva suggerito di dare alla gente “dei piccoli ‘trolley’ in funzione di carrello,” perché il centro storico è ormai “un vero centro commerciale a cielo aperto.”

Il Mercato di Mezzo nel centro storico di Bologna.

E uno dei luoghi simbolo di questo approccio è sicuramente il Mercato di Mezzo, il vecchio mercato coperto nel Quadrilatero che è stato riammodernato e eatalyzzato nel 2014—e che le critiche considerano più come un supermercato per turisti che come il rilancio di una struttura per i bolognesi.

Per rimanere in centro, una grossa spina nel fianco di questa nuova “identità” della città è la zona universitaria in via Zamboni, che assomiglia sempre di più al retro degradato della “vetrina-centro” tirata a lucido. Il problema principale è sempre il solito, e ha un nome ben preciso: piazza Verdi.

Già quando ero all’università la piazza—che è a tutti gli effetti il fulcro della zona, nonché il punto di ritrovo per gli studenti e i fuorisede—era descritta sulla stampa come “la porta dell’inferno,” e ricordo nitidamente che Gianfranco Fini aveva persino proposto di ripulirla con gli “idranti.”

Il BITT Festival in via Zamboni, giugno 2015.

A qualche anno di distanza la situazione non è cambiata più di tanto, e le cronache sono sempre piene di risse, pisciate per strada, foto di degrado e sporcizia, notizie legate allo spaccio e lamentele dei residenti. Per cercare di limitare i danni, questa estate il sindaco Merola ha emesso una discussa ordinanza “anti-movida” con cui, oltre a fissare alle 9 di sera l’orario di chiusura per “negozi alimentari e laboratori artigianali,” vietava la vendita della birra fresca soprattuto ai minimarket gestiti da stranieri nella zona universitaria.

Ovviamente, togliere con un’ordinanza migliaia di persone che frequentano quotidianamente via Zamboni e piazza Verdi è semplicemente impossibile—a meno che non si sposti direttamente una parte dell’università. Che è esattamente ciò che vuole fare l’amministrazione con il progetto “Campus 1088,” un polo universitario sul modello americano che dovrebbe sorgere fuori dal centro, nell’ex area militare Staveco, e ospitare al suo interno alcune facoltà.

Il costo dell’operazione è stimato in circa 100 milioni di euro, e per finanziare i lavori, l’Alma Mater metterà in vendita nove immobili—tra cui Palazzo Malvezzi, la storica sede della facoltà di giurisprudenza nel cuore di via Zamboni. Le autorità cittadine si sono mostrate particolarmente entusiaste per il “Campus 1088”: Virginio Merola l’ha definito “un progetto senza precedenti in Italia,” mentre l’allora direttore dell’Agenzia del demanio ha detto che “in pratica ridisegnerà la città.”

Via Zamboni.

Naturalmente non tutti hanno mostrato lo stesso grado di coinvolgimento. Per i collettivi universitari, il progetta rischia di tradursi “in una svendita di palazzi storici per finanziare un polo universitario d’élite per baroni.” In un articolo critico pubblicato qualche mese fa su ZIC, si legge che “il dato appetibile ai fini elettorali […] è quello del ‘decongestionamento’ del centro storico.” Ma, si precisa, “la città di Bologna senza i suoi studenti risulterebbe un enorme contenitore vuoto e […] privo di senso.”

Il “Campus 1088,” tuttavia, non è l’unico grande progetto che nelle intenzioni degli amministratori dovrebbe cambiare il volto della città. Dal 2013 è in ballo il FICO, acronimo di Fabbrica Italiana Contadina, meglio conosciuto come “Eataly World.” Nelle intenzioni dei progettatori, si tratta appunto del parco tematico di Eataly da allestire all’interno del CAAB—i mercati generali agroalimentari nella periferia settentrionale di Bologna—e che secondo le previsioni dovrebbe attirare ben sei milioni di visitatori all’anno.

Inizialmente il FICO avrebbe dovuto aprire a novembre 2015, subito dopo Expo; stando a quanto ha detto Oscar Farinetti, però, l’inaugurazione sarebbe slittata tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Pochi giorni fa, presentando le 40 aziende che animeranno il FICO, lo stesso Farinetti si è lanciato in una profezia sul futuro della città: “Come Orlando è conosciuta nel mondo per Disneyland, così Bologna lo sarà per Eataly World.”

Il mercatino di Campi Aperti all’interno del centro sociale Xm24.

Ecco: se non fosse la solita sparata del patron di Eataly—lo stesso che, tempo fa, ha detto che “da comunista” Bologna è “il luogo ideale” per fare affari—ci sarebbe da ridere. Il punto è che prima o poi la città potrebbe davvero trasformarsi in una Disneyland del cibo.

D’altronde, la classe dirigente di Bologna sembra davvero troppo impegnata a fantasticare su luna park enogastronomici per preoccuparsi dell’”ordinaria amministrazione,” la quale—con tutto il suo carico di conflittualità e di emergenze sociali—è lasciata allo sbaraglio più totale.

Ogni tanto, persino Merola si accorge che le cose gli stanno sfuggendo di mano. Dopo l’ennesimo sgombero portato avanti a sua insaputa, il sindaco aveva invitato le autorità cittadine a “non perdere la coscienza civile di questa città in questo clima un po’ confuso.”

Il richiamo alla “coscienza civile” rientra appieno in quella costante opera di glorificazione del passato della città—un passato spesso e volentieri pompato e artificioso, ma che funziona alla perfezione quando bisogna coprire il vuoto d’idee.

Polizia schierata durante la Festa dell’Unità del Partito Democratico alla Montagnola.

Se si vanno a vedere i miti fondativi che in decenni hanno plasmato la narrativa su Bologna, è molto facile accorgersi di come questi siano stati smantellati uno a uno—la città rossa e solidale e accogliente, la capitale della controcultura, la ” città più libera del mondo,” la città del “buon governo,” e così via.

Tra l’altro, sempre a proposito di “buon governo,” in questi giorni mi è tornata in mente la frase di Hunter S. Thompson in cui si definiva la politica come “l’arte di controllare il territorio.” Ecco: quello che sta succedendo a Bologna è l’esatto opposto. Tra sgomberi, astensionismo, classi politiche sempre più evanescenti ed emergenze sociali stiamo assistendo all’arte di non controllare il territorio. E il fatto che succeda proprio a Bologna, e che proprio qui la politica non conti più un cazzo, fa ancora più impressione.

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