Fascismo e raggiri: dietro la storia dell’ascesa di padre Pio

Qualche anno fa, in giro per Internet erano circolate le immagini di un monumento: la statua (finora) più grande dedicata a Padre Pio, inaugurata nel 2001 in una rotonda a Benevento. L’opera, conosciuta anche come “Padre Pio-robot” o “Spaventalieni”, è una delle strutture più improbabili mai concepite dalla mente umana, tanto da essersi guadagnata nel 2014 il primo posto nella lista di Repubblica sui “monumenti dell’orrore.”

Qualcuno l’ha difesa parlando di un “opera d’arte incompresa dai più,” ma più che un omaggio venuto male, ho sempre pensato che quella statua rappresentasse piuttosto uno dei portati più bizzarri ed estremi del culto del frate di Pietrelcina—una devozione trasversale che non ha mai conosciuto flessioni e che, come ha scritto lo storico Sergio Luzzatto, ha reso padre Pio “un’icona del nostro tempo, polisemica eppure allusiva, inflazionata eppure ineludibile.”

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Più tardi è arrivata la traslazione della salma a Roma—prima nella basilica di San Lorenzo al Verano e poi in quella di San Pietro—, con cui la figura del frate cappuccino si è arricchita di un ulteriore significato: “la nuova icona della Chiesa della misericordia” di papa Francesco. L’evento, che è stato letto anche come un modo per ravvivare il Giubileo straordinario, ha riportato in prima pagina padre Pio, con il relativo corollario di accese polemiche sulla vita, le opere e l’eredità spirituale ed economica. Da un lato, infatti, c’è chi ha parlato di uno spettacolo medievale che ci “schiaccia nel sud del Mondo e ai margini dell’Occidente”; dall’altro c’è chi ha sostenuto che “questa santità per strada può aver fatto bene al Paese.”

A quasi cinquant’anni dalla sua morte, insomma, l’Italia si ritrova ancora profondamente divisa su padre Pio—sebbene non sia difficile constatare quale vulgata, alla fine, abbia avuto la meglio. Paradossalmente, decenni e decenni di agiografismo spinto hanno sfumato i contorni della vita reale di Francesco Forgione fino a renderla un qualcosa di sfuggente e confuso, totalmente sganciato dal contesto storico e sociale in cui si è sviluppata.

Più o meno chiunque, infatti, ha una vaga idea di chi sia padre Pio e delle controversie che l’hanno interessato, esposte in pamphlet polemici come Santo impostore di Mario Guarino. Meno note, invece, sono le fasi veramente cruciali nella costruzione del mito, che sono tutte concentrate tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso; così come poco conosciuti sono i personaggi che hanno effettivamente creato il marchio globale di oggi.

Nella sconfinata mole di libri prodotti sul frate cappuccino—dalle agiografie ai testi in cui la critica sfocia nel complottismo—ce ne è uno che aiuta a farsi un’idea abbastanza obiettiva: si tratta di Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, un libro critico ma ricercato e senza eccessi polemici, del già citato Sergio Luzzatto, uscito nel 2007 per Einaudi.

Oltre alle stigmate, su cui Luzzatto non si esprime, le principali controversie intorno alla figura di padre Pio riguardano i rapporti con il clerico-fascismo, il culto della personalità sconfinato presto in affarismo e la lotta pluridecennale con le gerarchie vaticane—tutti elementi toccati nell’analisi dello storico, che da diversi anni non rilascia più interviste sul tema.

Il punto di partenza, naturalmente, è quanto accade secondo la leggenda nella cella del convento cappuccino di San Giovanni Rotondo nell’autunno del 1918: l’apparizione delle stigmate sul corpo del frate. La voce dell’inaudito dono si sparse in maniera incontrollata, insieme ai primi miracoli, e il convento entrò ben presto in subbuglio per l’enorme affluenza di fedeli. Dopotutto, scrive Luzzatto, quel particolare periodo storico era “enormemente bisognoso di sacro,” e padre Pio “ricevette le stigmate quando la morte andava bussando a tutte le case di San Giovanni, del Gargano, della Puglia, dell’Italia, dell’Europa.”

Il vecchio convento di San Giovanni Rotondo. Foto via Wikimedia Commons

Ai primi problemi di ordine pubblico—che in una relazione del 1919 il prefetto di Foggia addita al “fanatismo dei credenti,” i quali “fanno ressa enorme attorno al monaco, affetto da grave tubercolosi polmonare, e raccattano gli sputi sanguinolenti che questo emette”—si affiancarono anche le prime avvisaglie del “prolungato, spesso drammatico confronto” tra il Vaticano e padre Pio, che rischierà di trascinare in una faida l’intera istituzione religiosa e si concluderà solo negli anni Sessanta.

Dalla primavera del 1919, infatti, i dubbi sull’attendibilità del frate si fecero insistenti. In un articolo uscito su Il Mattino e scritto dal professore Enrico Morrica, andato in visita al convento, si sosteneva che le ferite di padre Pio presentavano un alone del “colore caratteristico della tintura di iodio passata sopra epidermide fisiologica,” e che nella cella del cappuccino era stata trovata una bottiglia di “acido fenico commerciale nero (ricorda colore stigmate).”

Due testimonianze raccolte dal vescovo di Foggia—il farmacista Valentino Vista, titolare di una farmacia del centro, e della cugina Maria De Vito—gettarono un’ulteriore ombra su padre Pio. Vista, infatti, raccontava che De Vito “mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro.” La circostanza è confermata da un foglietto autografo di Padre Pio indirizzato alla donna e ritrovato da Luzzatto, in cui il frate scrive: “Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare.”

Tutto ciò azionò, nel 1921, la prima inchiesta vaticana—vista dall’agiografia come l’inizio della “grande persecuzione”—su padre Pio: il Sant’Uffizio (l’attuale Congregazione per la Dottrina della Fede) mandò un inviato apostolico a San Giovanni Rotondo e nel 1922 furono applicate pesanti restrizioni sacerdotali al frate.

Padre Pio mentre celebra una messa. Foto via Wikimedia Commons

Visto che però queste misure non erano servite a nulla—la devozione popolare continuò indisturbata, così come il vorticoso giro di offerte dei fedeli—l’anno seguente il Sant’Uffizio decise di rendere pubbliche le durissime risultanze dell’istruttoria, in cui si sosteneva che “il carattere soprannaturale di tali fatti [ le stigmate] non è stato constatato,” e si esortavano “i fedeli a conformare i loro atti alla presente dichiarazione.”

La minaccia di un trasferimento compattò “un po’ tutti coloro per i quali la quotidiana presenza del frate stigmatizzato rappresentava una ragione di vita,” che scesero in piazza in sua difesa. Tra questi c’erano anche molti reduci della prima guerra mondiale e i fascisti della zona. E qui arriviamo ad un altro punto importante: padre Pio, lungi dall’essere celestialmente slegato dalla contingenza storica in cui si trovava, in almeno un’occasione aveva fatto una scelta di campo molto netta.

Il 14 ottobre 1920, nel pieno del cosiddetto biennio rosso, a San Giovanni Rotondo la polizia sparò sui socialisti (che avevano da poco vinto le elezioni) e trucidò 11 persone. Nel corso della manifestazione in piazza dei Martiti, i socialisti furono provocati dal Fascio d’ordine, una coalizione composta da popolari cattolici, reduci ed ex combattenti.

Poco prima, il 15 agosto, padre Pio aveva benedetto le bandiere delle associazioni combattentistiche—un gesto che di fatto suggellò “una dinamica di interesse nazionale e di portata epocale, la lotta senza quartiere fra reducismo e socialismo.” Dopo il massacro, inoltre, nell’entourage di padre Pio entrò il “capo dello squadrismo foggiano” Giuseppe Caradonna, in quello che fu “l’abbozzo provinciale di quello che il clerico-fascismo sarebbe poi divenuto su scala nazionale.”

Benedizione di gagliardetti fascisti. Foto via Wikimedia Commons

A ogni modo, pur dovendo rinunciare al trasferimento del frate soprattutto per motivi di ordine pubblico, la guerra di una parte del Vaticano nei suoi confronti proseguì per tutti gli anni Venti.

Nel 1924, il prete-scienziato Agostino Gemelli—fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e deciso detrattore di padre Pio—scrisse un durissimo documento in cui il cappuccino era descritto come una persona affetta da “deficienza mentale di grado notevole,” e le cui piaghe erano “dovute all’erosione mediante caustici.” Nella primavera del 1931, poi, si giunse al culmine della “persecuzione”: su proposta del Sant’Uffizio, papa Pio XI dispose per padre Pio la sospensione a divinis .

A poco più di dieci anni dal suo inizio, anche a causa le misure dell’autorità vaticana, il culto intorno al frate era dunque in estrema difficoltà. Ma è proprio a questo punto che, nella storia ufficiosa di padre Pio, diventa decisivo un personaggio su cui l’agiografia ufficiale tende a glissare: Emmanuele Brunatto. Lo storico lo definisce il “Pietro” dell’ alter Christus di Pietrelcina, “l’apostolo primo e maggiore,” nonché il “fondatore del culto organizzato.” È a lui, per esempio, che si deve una delle prime agiografie del futuro santo—un libro uscito nel 1926, per una casa editrice fascista, che diventerà il modello di tutte le agiografie di padre Pio. Ed è sempre a lui che si deve lo strabiliante sviluppo postbellico del culto di padre Pio, grazie soprattutto “all’investimento sul contenuto politico di un fenomeno religioso, attraverso il coinvolgimento dell’intellighenzia fascista nella diffusione della vox populi su padre Pio.”

Emmanuele Brunatto (al centro) con Padre Pio.

Brunatto, però, è stato molte altre cose—un avventuriere con diversi guai giudiziari alle spalle, un “millantatore incallito” e uno “spregiudicato ricattatore,” spiega Luzzatto. A quest’ultimo proposito, mentre il frate era sottoposto alle restrizioni vaticane, il faccendiere-devoto mise in piedi un intricato ricatto ai danni del Vaticano, minacciando di pubblicare dei libelli sugli scandali—veri o presunti tali—di alti prelati, che qualcuno ha definito il Vatileaks dell’epoca.

Complice anche il lavorio sotterraneo di Brunatto—che comunque infastidì non poco padre Pio: “non voglio ottenere la mia liberazione […] con atti che ripugnano,” scrisse in una lettera—le gerarchie vaticane allentarono la morsa, e dal 1933 in poi riabilitarono il frate cappuccino.

Brunatto, che nel frattempo si era stabilito a Parigi, diventò prima della seconda guerra mondiale una spia del regime fascista in suolo francese, e poi assunse le vesti di collaborazionista dei nazisti nella Francia occupata. Tra il 1940 e il 1941 si dedicò all’attività di trafficante sul mercato nero. Dopo aver tirato su una fortuna, Brunatto dimostrò di non essersi dimenticato di padre Pio—tutt’altro. Nel giugno del 1941 inviò un versamento di tre milioni e mezzo di franchi al “comitato per la costruzione della Clinica di San Giovanni Rotondo,” ossia l’ospedale che da parecchi anni padre Pio voleva costruire a ridosso del convento e che sarà completato nel 1956 con il nome di Casa Sollievo della Sofferenza. La realtà storica, chiosa Luzzatto, è che “il benemerito ospedale del frate con le stigmate affonda i propri natali finanziari—letteralmente—nell’alcol con cui il collaborazionista Brunatto innaffiò i banchetti parigini di una Wehrmacht trionfante.”

Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo. Foto via Wikimedia Commons

Terminato il conflitto, padre Pio entrò velocemente a far parte dello star system e il suo culto decollò definitivamente, sospinto dall’orizzonte di attesa miracolistico degli anni Cinquanta/Sessanta e—sul versante più pop—dai rotocalchi e dalla diffusione dei media di massa.

Tra il frate e la gloria eterna, che sembrava ormai assicurata, rimanevano solo due ultimi ostacoli: la residua ostilità dentro il Vaticano e papa Giovanni XXIII, che lo considerava un “idolo di stoppa.” Nel 1960, continua Luzzatto, alcuni avversari del frate piazzarono dei registratori nella cella per “spiare i risvolti più intimi nella vita dell’altro Cristo.” Le bobine, che secondo Giovanni XXIII avevano catturato “rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana,” portarono a un’altra inchiesta vaticana su padre Pio, ormai ultrasettantenne.

La relazione finale di monsignor Maccari fu devastante: il “fanatismo” intorno al frate dava sempre più luogo a “fermenti di idolatria e forse anche eresie,” e le dimensioni del fenomeno avevano ormai assunto il carattere di “un’industria” oscillante tra “la superstizione e la magia”—un giudizio che, vedendo cos’è diventato San Giovanni Rotondo a cinquant’anni di distanza, è quanto mai attuale.

L’atteggiamento ambiguo dello stesso padre Pio, inoltre, non faceva che alimentare tutto ciò: il frate era pienamente inserito nella macchina della propaganda. Ed è stata proprio quest’ultima, a forza di campagne stampa, ad aver annullato l’ultima controffensiva vaticana.

Dopo la morte del frate avvenuta nel 1968 (a stigmate scomparse), il Vaticano decise che era arrivato il momento di “appropriarsi” una volta per tutte del brand padre Pio. Del resto, come scrive Luzzatto, “l’importanza di padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di papa.”

L’apice di questa fortuna arrivò con Giovanni Paolo II, che aveva una grandissima ammirazione per il frate di Pietrelcina. Come spiega Luzzatto la beatificazione del 1999, seguita dalla canonizzazione, da un lato serviva a rilanciare l’immagine di un “cattolicesimo ancora fresco […] alla vigilia del terzo millennio”; mentre dall’altro a occultare “per sempre il carattere complicato, difficoltoso, lacerante, dell’esperienza di padre Pio in quanto santo vivo.” La trasformazione in santino intoccabile, insomma, era ormai completata.

Al di là dell’impostura o della santità, della fede e dello scetticismo, quello che rimane impossibile da spiegare è l’essenza di questo fenomeno, il motivo ultimo—e qui uso le parole dell’ultimo “inquisitore” di padre Pio, monsignor Maccari—per cui “un uomo non eccezionale per le sue qualità naturali, e tutt’altro che esente da ombre e difetti, è riuscito a crearsi una popolarità che ha pochi riscontri nella storia religiosa dei nostri tempi.”

Lo show andato in scena in questi giorni, chiaramente, non offre una risposta. Ma conferma, ancora una volta, che in questa infinita storia individuale e collettiva si mescolano inestricabilmente “il vecchio e il nuovo, il premoderno e il postmoderno, il ragionevole e l’improbabile, l’istituzionale e l’irregolare, il religioso e il politico.”

E si tratta di una storia che, purtroppo, racconta l’Italia contemporanea molto più di quello che si vorrebbe credere.

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