È stato precisamente dopo un viaggio nell’Australia del Sud che mi è venuta voglia di scrivere un pezzo come questo.
Com’è possibile, difatti, che un mondo del vino tanto implume quanto quello australiano abbia qualcosa da insegnare a noi che, dopo la Francia, siamo unanimemente considerati, a tal proposito, i detentori del Verbo?
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Quello tra Vecchio e Nuovo Mondo Vitivinicolo è nient’altro che uno scontro generazionale e, come tale, voglio trattarlo nonostante il mio proverbiale conservatorismo, e nonostante il mio più profondo europeismo mi stia intimando, e a gran voce, di dimenticare questa storia.
Non sono un sommelier, chiamami piuttosto wine guy
Praticamente, ero seduta al tavolo di uno dei migliori ristoranti del South Australia, l’Orana, quando colui che credevo esserne il Sommelier – definizione che lui stesso s’è affrettato a smentire facendosi chiamare piuttosto “wine guy” – m’ha versato il primo calice di quella che sarebbe stata, a proposito di vino, la mia personalissima eureka.
Nella fattispecie, si trattava di un nettare scuro, profumato di fiori e polposo come di pesca di nome Positive Vibration della vicina azienda Gentle Folk di Basket Range [piccola cittadina sulle colline di Adelaide]. Un vino, questo, che già nel retro-etichetta dichiarava, tanto innocentemente quanto impudentemente, di essere il felice assemblaggio – da cui il nome – di 90% di Pinot noir e 10% di Gewürztraminer vinificati, per giunta, con metodi tanto differenti da risultare, per noi europei, come l’impossibile sintesi tra il diavolo e l’acqua santa.
A proposito di tecniche di cantina, se ve la sentite, leggete questo paragrafo, se no, saltatelo a piè pari e a cuor leggero. Nella fattispecie, si diceva, questo Positive Vibration contemplava una macerazione carbonica per il Pinot noir – quella del nostro oggi tanto vituperato vino Novello – e una vinificazione standard in acciaio, ma sempre in rosso – e quindi a contatto con le bucce – per il Gewürztraminer da cui gli proveniva, tra le altre cose, una palpabile aromaticità.
Ma questo calice così strano, così nuovo, occorre dire, non fu l’unico.
In maniera simile, altri sorsi mi proiettarono in un universo innocente, un poco naïf ma del tutto consapevole, e lo fecero soprattutto i vini di Unico Zelo e Momento Mori di Dane Johns che, dalla sua, vantava invece un assemblaggio di uve Fiano, Vermentino e Moscato giallo, in un concentrato di aromi e il carico da novanta della struttura, in bocca, tutto a fermentazione naturale senza solfiti ne’ additivi aggiunti, per giunta. Un vino, questo, che è anche una dichiarazione d’intenti dello stesso Dane che, candidamente, ci dice «I’m just trying to make wines as pure and clean as I can, without adding anything at all» (“sto provando a realizzare come posso vini puri e limpidi, senza aggiungere nulla”).
Ripetiamolo insieme: AT ALL!
E, come lui, tanti altri produttori i cui vini sono andati a comporre, sorso dopo sorso, un ritratto vivacissimo di questo Nuovo Mondo popolato di vini forse un po’ brevi in degustazione ma abitati da una sensibilità ecologica e una leggerezza – easygoing direbbero loro – che noi abbiamo dovuto dimenticare e che attinge a piene mani dall’universo positivista anglosassone dal quale l’Australia, col suo pragmatismo e la disinvoltura di chi anche nell’errore sembra sempre a proprio agio, proviene tutta.
In Australia c’è un repertorio di vini tra i più divertenti che mi sia mai capitato di provare
Il risultato, un repertorio di etichette tra le più divertenti e disparate che mi sia mai capitato di degustare, e di cui come dicevo prima Positive Vibration, nel suo incanto adolescenziale, nella sua gioviale innocenza che traghetta tutta l’euforia e la spensieratezza della brezza di certi notti di primavera, è l’emblema.
I vini australiani da procurarvi
Ecco perché, se vi state avvicinando al mondo del vino in questo momento vi consiglio caldamente di fare un viaggio in Australia e procurarvi i vini di Ravensworth, Yalumba, Yabby Lake, Gaelic Cemetery, Jim Barry, Crittenden e Arfion oltre ai già incontrati Dane Jhons, Unico Zelo e Gentle Folk: si tratta di vini semplici, di interpretazioni meno legate al territorio ma più al vitigno e, soprattutto, alla personalità, al gusto, alla sensibilità del produttore il quale ha un unico imperativo: il vitigno.
Ce lo conferma Neil Pike di Pikes Wines secondo cui: «the Australian wines styles (especially many of our white wines) are very much based on keeping the wine fresh and capturing as much of the varietal fruit character as possible» (“lo stile dei vini australiani – soprattutto di molti vini bianchi – si basa molto sul mantenere dei vini freschi e di catturare il più possibile la varietà e le caratteristiche del frutto”).
Credo che i vini italiani ed europei siano costretti a stare in una nicchia, cosa che ne limita l’espressione.
Sono interessanti allo stesso modo, in termini di espressività legata al vitigno, gli studi sul Nebbiolo di Tonic Wines e il Pinot Noir di Eldridge Estate di David Lloyd che, a questo proposito, si sbottona: «in Australia we do NOT have rules that tell us how to grow our grapes, what varieties to grow and how to make them» (“In Australia non abbiamo regole che ci dicono come coltivare la nostra uva, quale varietà far crescere e com farle”), cui fa eco Stephen Morris di Pennyweight Lane il quale, dopo averci confessato che un Barolo invecchiato è il suo non plus ultra in termini di vino, ci dice anche che: «I do think Italian wines and often European wines are forced into a very restricted niche which limits expression» (“Credo che i vini italiani, e spesso quelli europei, siano costretti a stare in una nicchia, cosa che ne limita l’espressione”).
Quale espressione? S’è detto, quella del vitigno e della visione del mondo del produttore da cui provengono, il che restituisce un ritratto franco e ottimista, nonché libero: libero dalle burocrazie, libero dalle denominazioni, libero dai disciplinari, libero dai compromessi del mercato, libero dall’imperativo del territorio, libero finanche dalle tradizioni. E scusate se è poco.