Cibo

Il palestinese di Bologna che ha servito i falafel a Enrico Berlinguer

Al Salam Bologna

Aggiornamento del 30/09/2021: Jamil Shihadeh se n’è andato il 29 settembre 2021. La Caffetteria Al Salaam è chiusa, ma il lascito dei 30 anni di lavoro di Jamil continua grazie al figlio Omar, che a fine ottobre aprirà un nuovo locale di cucina palestinese.

Nella geografia bolognese esistono alcune tappe fondamentali, punti di riferimento con cui orientarsi nel dedalo dei portici.

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Il profilo delle Due Torri, ad esempio. La cupola di San Luca. E il palestinese di via Centotrecento.

Detto proprio così: “Il palestinese di via Centotrecento”.

Nominatelo a qualsiasi studente fuorisede, o a qualsiasi abitante del centro, e capirà immediatamente a cosa vi riferite: a quello strepitoso panino con falafel a quattro euro e all’ancora più strepitoso Jamil, che quel panino lo prepara dal 1991. Al Salam – questo è il nome – è stato il primo ristorante palestinese d’Italia. I suoi antipasti misti e i suoi kataifi fanno ormai parte della tradizione bolognese quanto i tortellini di Atti o l’aperitivo all’Osteria del Sole. Per farvi capire, in occasione del suo ventesimo anniversario Al Salam ha chiesto al Comune il permesso per chiudere il traffico della piccola via Centotrecento per due ore. Il Comune gliel’ha concesso per due giorni. E anche il sindaco si è unito ai festeggiamenti – appropriatamente chiamati Falafesta.

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Da Al Salam ho passato un numero incalcolabile di pranzi con i compagni di università, un numero ancora più incalcolabile di merende con tè arabo e dolcetti, perfino un paio di semi-appuntamenti (sono andati male, ma non lo imputo al posto). E così mi è venuta voglia di raccontare la storia dei piatti profumati di coriandolo e dei tavolini coperti dalle kefiah, ma soprattutto la storia di Jamil, il proprietario. “Questo vecchio cammello sgobba ancora” ride mentre serve un caffè, farcisce un panino, intrattiene con la sua voce tonitruante una coppia di clienti raccontando dei profumi che si respirano a mezzogiorno per le strade di Gerusalemme “I miei figli ogni tanto mi dicono ‘Papà basta, riposati, mettiti a fare pizze al taglio e renditi la vita più facile!’. Assolutamente no. Il mio segreto è che non sono mai fermo”.

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È Jamil la vera e unica anima di via Centotrecento 27, l’equivalente mediorientale della figura di oste bolognese. Con la differenza che lui non serve lambrusco ma tè alla menta.

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La sua si rivela una delle interviste più facili che mi siano mai capitate. È Jamil a suggerire al fotografo cosa riprendere e cosa no, a farmi i complimenti quando gli faccio le domande giuste, a condurci per mano nelle curve della sua vita che l’hanno portato fino ai portici bolognesi. Jamil è emigrato nel nostro paese nel 1974 con l’obbiettivo di laurearsi in farmacia. “Dovevo stare qui 4 anni, ci sono rimasto 44”. La sua prima tappa è stata Perugia: “Il ‘pellegrinaggio’ iniziale di tutti i palestinesi era lì. Per strada i giornali erano in arabo, i pacchetti di sigarette pure, era più facile trovare arabi che perugini. Ho preso in affitto una camera presso una famiglia italiana. Quella buonanima della signora Maria mi ha fatto imparare la lingua: ’Jamil, vieni qua, questo è un piatto, questa è una forchetta, questo è il pane… ’”.

Israele dice che esistono i ‘Falafel israeliani’: assolutamente falso. Non è una specialità ebrea. I falafel sono un cibo semplice come le panelle siciliane, un cibo della povertà”

La laurea in farmacia l’ha presa, ma non ci ha messo molto a capire che la vita da azienda non era fatta per lui. “Questa è la mia farmacia, la farmacia dei sani, senza analgesici né antibiotici” dice indicando le pareti gialle e azzurre intorno a sé “Una caratteristica di noi palestinesi è che non ci arrendiamo mai. Io mi sono laureato, ma è bastata una settimana in un’azienda farmaceutica per capire che non era il mio lavoro. Mio padre mi ha detto ‘Io da te voglio solo due cose: una laurea e una buona famiglia’. E io l’ho fatto. Questo posto ha reso grande la mia famiglia: quattro figli, due nipoti – mezzi calabresi e mezzi palestinesi, con i capelli biondi e gli occhi verdi!”.

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Due suoi figli sono nati in Palestina, anche se lui stava già a Bologna, in modo che avessero la doppia cittadinanza. Poi le leggi sono cambiate, e gli ultimi due sono nati qui. Jamil deve tornare ogni anno in patria per rinnovare il permesso di soggiorno “per motivi di lavoro”. Non ha ma chiesto la cittadinanza italiana: ha paura che, se lo facesse, gli revocherebbero i documenti per tornare in Palestina: “La mia base è via Centotrecento 128 ma dentro rimango palestinese. Come i napoletani o i salernitani che stanno qui, ma continuano sempre a parlare il loro dialetto e a rimpiangere il mare. Io mi sento tagliatelle e tortellini [detto con accento bolognese, NdR] e cous cous e maklouba. La maklouba è un piatto tradizionale palestinese con riso, verdure, carne di agnello o pollo. Si mangia il venerdì nell’80% delle case come qui il weekend si fanno tortellini e lasagne. Per questo la chiamo la lasagna palestinese”. L’irresistibile chiacchiera di Jamil è sicuramente uno dei motivi che rende Al Salam così apprezzato. Ma non è l’unico: la roba che si mangia qui è davvero, davvero buona. Sei tu ad essere bravo, Jamil, o è la cucina palestinese ad essere speciale? “Bravissima Giorgia, è una bella domanda! La mia cucina è un’opera d’arte. Ma il suo titolo è ‘La magia della cucina palestinese’”.

Ci sono i dawali, gli involtini di foglie di vite farciti di riso; il fatayer, pasta lievitata ripiena di carne, formaggio o spinaci; le polpette fritte, come quelle di carne e patate, o quelle di melanzane; il cous cous. E ovviamente il kebab, di cui Jamil ci tiene a specificare che “Il nome originale non è il kebab. In Palestina, Siria e Giordania, il kebab sono gli spiedini o la carne macinata. Il nome originale è shawarma”. Qui, puntualizza poi, non sono mai entrati ketchup, maionese o patatine fritte. Il pane è quello vero arabo, quello venduto a Porta Damasco a Gerusalemme. Le salse le fa tutte lui, compresa quella piccante, “la mia firma d’autore”. Ma soprattutto ci sono i suoi falafel.

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Israele dice che esistono i ‘Falafel israeliani’: assolutamente falso. Non è una specialità ebrea. I falafel sono un cibo semplice come le panelle siciliane, delle polpette fritte dentro un panino, un cibo della povertà. Ora arrivano dei facsimile taroccati dalla Cina, se ne vedono di tutti i colori, ma sono solo delle copie”. Chiedo qual è il segreto, mi aspetto si ammanti di mistero. E invece no.

“La mia base è via Centotrecento 128 ma dentro rimango palestinese. Io mi sento tagliatelle e tortellini e cous cous e maklouba”

“Ogni ricetta è semplice. Il segreto è la mano di chi lo fa, ma qualche trucco c’è. Vedi come sono ciccioni? Merito del bicarbonato. Così vengono arrostiti fuori e dentro ben cotti. L’olio non deve essere troppo bollente altrimenti rimangono crudi dentro. E poi le spezie: in Palestina tutti i droghieri sanno darti le spezie da falafel, sono circa 8-10, dal cumino ai chiodi di garofano. Devi proprio sentirne l’odore quando lo spezzi con le mani. Vanno bene per celiaci e vegani: non ci metto il pane macinato. Niente uova, niente farina, niente peperoni, né niente. Ceci, coriandolo fresco, sale e basta”.

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I falafel di Jamil precedono addirittura la nascita del locale: li faceva mangiare alle feste degli studenti, alle riunioni degli attivisti, ma soprattutto “Alle Feste dell’Unità quando ancora erano feste del popolo, degli umani, dei cittadini, di tutti noi. Nel 1980 c’era la Festa dell’Unità a Bologna. Il PCI ha dato uno spazio a noi dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, NdR] senza chiederci un centesimo – ora per un metro quadrato devi dare 2000 euro, sono diventati puro business. Il nostro stand era 20-30 metri quadrati, c’era una parte dedicata alla cultura, una all’artigianato, e una alla cucina con le nostre specialità dolci e salate. Io ero lì con questa macchinetta [mi mostra una specie di schiacciapatate, NdR] che preparavo falafel a raffica, ta-ta-taaa, tutti perfettamente rotondi. Tutte le signore me la chiedevano per fare le svizzere a casa [hamburger in dialetto, NdR]. A un certo punto dal palco con il microfono hanno detto ‘Visitate lo stand della OLP, mangiate la polpetta di Arafat, i loro dolci, il loro tè’. Il giorno di chiusura è arrivata la delegazione del Partito Comunista insieme alla delegazione della OLP con il suo storico leader. I falafel di Jamil li ha mangiati il segretario del PCI all’epoca, il compagno Enrico Berlinguer, e mi ha fatto i complimenti”.

È inevitabile che il discorso cada sulla politica. O meglio: che cada sulla Palestina. E conseguentemente sulla politica. “L’anima buona di mio padre mi ha detto ‘Anche se vai 100 anni fuori dentro di te deve rimanere la nostalgia per il posto dove sei nato’” mi dice, mostrandomi le fotografie un po’ ingiallite del giorno del suo matrimonio a Gerusalemme, gli oliveti che la sua famiglia possedeva e che sono stati loro espropriati dopo la Guerra dei Sei Giorni “Il 15 maggio dovevamo fare i 27 anni di attività, ma erano giorni tristi, quelli in cui gli americani hanno spostato l’ambasciata a Gerusalemme. Sharon usava la parola pace come la usa Trump. Dov’è la pace di Gaza? La pace di Siria? Dell’Iraq? Dello Yemen? Hanno distrutto civiltà millenarie per i loro interessi”.

I suoi discorsi però sono sempre permeati di una vivacità leggera, di un’energia ottimista. “Io sono sicurissimo che arriverà un giorno – purtroppo non al tempo mio, ma al tempo vostro, dei miei figli, dei miei nipoti – in cui Gerusalemme verrà liberata. La Città Santa è sempre stata occupata. Trump e Netanyahu non possono cambiare il destino di un popolo: l’apartheid israeliano non può rimanere. Guarda Nelson Mandela: quanti anni ha dovuto aspettare? Però la libertà l’ha vista. La vedrete anche voi. I miei nipoti festeggeranno mangiando la shawarma di pollo a Gerusalemme”. E nel frattempo, Al Salam rimane aperto. “Arafat ha detto che la lotta non è solo intifada. La lotta si fa anche con i falafel. Thawrat hataa alnasr, rivoluzione fino alla vittoria!”.

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