Questo post fa parte della nostra settimana della salute femminile, una serie di contenuti sulla salute delle donne e sull’importanza della libertà e l’autodeterminazione di ognuna nel governarla.
Nella vita di una donna, il primo pap test è un po’ come il primo stipendio o la prima cena da tre portate che si cucina per gli amici: un rito di passaggio dell’età (semi)adulta, simbolo di una certa maturità e di una consapevolezza responsabile che si riflette, tra le altre cose, anche nelle scelte di salute.
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Inventato negli anni Quaranta dal medico Papanicolau, da cui prende il nome, il test è usato da decenni nei programmi di screening del tumore della cervice uterina (il collo dell’utero), il secondo tipo di cancro più diffuso nelle donne dopo quello al seno. In Italia, fino ad oggi, le donne tra i 25 e i 64 anni erano chiamate a sottoporsi gratuitamente a questo esame ogni tre anni.
“Praticamente il ginecologo o il medico o l’infermiera fa un prelievo con uno spazzolino o una spatolina sulla cervice uterina,” spiega il dottor Aldo Venuti, virologo e co-direttore del centro multidisciplinare per lo studio del papilloma virus dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena. Il campione viene poi analizzato al microscopio per rilevare la presenza di cellule tumorali o di alcune particolari lesioni che potrebbero evolversi in cancro.
Tre donne su quattro, nel nostro paese, si sottopongono al pap test nei tempi consigliati e, soltanto negli ultimi dieci anni, l’incidenza dei tumori della cervice uterina è diminuita quasi del 25 percento. Le campagne di prevenzione funzionano, insomma, e la copertura è piuttosto alta, anche se con notevoli differenze tra nord e sud; eppure, dalla sua diffusione negli anni Sessanta e dopo quasi 60 anni di onorata carriera, questo esame sarà presto superato per lo screening di gran parte della popolazione di riferimento.
Secondo l’attuale Piano prevenzione nazionale, come già avviene in diverse regioni tra cui Piemonte, Toscana e Lombardia, entro il 2018 dovrebbe essere sostituito con il test del papilloma virus umano (HPV), per le donne oltre i 30-35 anni, in tutto il paese. Questo perché è proprio un’infezione persistente da alcuni tipi di papilloma virus, quelli cosiddetti ‘ad alto rischio’, a causare il tumore e le lesioni al collo dell’utero che lo precedono.
“Il test individua il DNA di questi virus,” commenta il dottor Venuti. “Quindi, si è cominciato a pensare che forse, andando a analizzare la presenza del DNA, si potesse fare uno screening più accurato di quello con il pap test, e anche più predittivo, cioè tale che da poter allungare gli intervalli [tra un prelievo e l’altro],” aggiunge.
Si stima che lo screening con test HPV permetterebbe di ridurre del 60-70 percento la comparsa dei tumori del collo dell’utero. “Non è una cosa che facciamo solo in Italia,” ricorda Venuti. “Lo studio più importante che ha dimostrato che l’HPV test poteva sostituire il pap test è sì italiano, del dottor Ronco di Torino, ma in tutto il mondo si stanno tutti spostando verso l’HPV test.” E in effetti, già in Australia e in Olanda si è avviata una trasformazione simile.
Il cambiamento non dovrebbe creare particolari disagi alle donne: il prelievo è simile a quello del pap test ma, in assenza di virus, non deve essere ripetuto per almeno cinque anni, secondo il programma italiano—in Olanda, l’intervallo si allunga fino a sette. “In alcuni paesi si sta pensando di fare un self-test, ovvero il campione potrebbe essere prelevato direttamente dalla donna,” fa presente Venuti. Se con il pap test era necessario l’intervento di professionale specializzato, con l’HPV test, più semplice da eseguire, è possibile pensare di delegare in futuro l’operazione alla donna stessa, senza che debba recarsi in un centro apposito.
Ma il vantaggio più importante è un altro, come sottolinea il virologo : “Anche con un pap test negativo, il virus poteva già essere lì senza essere rilevato attraverso il DNA e portare allo sviluppo di una patologia, nei tre anni successivi.” L’HPV test permette quindi di monitorare meglio l’evolversi dell’infezione, e non lasciarsi sfuggire lesioni che potrebbero diventare tumori, nel corso degli anni. “Lo screening non è per la riduzione in generale dell’HPV, ma per il tumore della cervice,” precisa Venuti. “Si va a vedere se è presente l’agente [che causa] il tumore, invece di vedere le cellule che vengono inizialmente alterate dal virus; questo è il cambiamento radicale.”
Per ottenere una risposta clinicamente valida, è importante utilizzare test calibrati specificatamente per lo screening, ovvero in grado di rilevare un quantità di virus tale da poter causare, nel tempo, delle lesioni pre-tumorali. “La cosa importante è che nessuna donna [a rischio di sviluppare il cancro] sfugga allo screening. Se no era meglio fare il pap test,” ricorda. In caso di risultato positivo, si procederà con un pap test di controllo e poi, eventualmente, con una colposcopia (come avviene già adesso).
Ma allora perché si continuerà a eseguire comunque il pap test sulle donne dai 25 ai 30-35 anni (a seconda del programma di screening in cui sono inserite)? “[Perché] le giovani donne si infettano molto frequentemente con l’HPV, e altrettanto rapidamente guariscono,” osserva Venuti. “Facendo il test nelle venticinquenni, si avrebbe un numero di positività così elevato che poi tutte dovrebbero fare il pap test di controllo.” Oggi sappiamo infatti che dall’inizio dell’attività sessuale fino intorno ai 30 anni, circa l’80 percento delle donne contrae almeno una volta il virus, che nella maggioranza dei casi scompare spontaneamente, senza bisogno di alcun intervento medico.
Nel 2015, in Italia, i programmi di screening regionali hanno invitato il 76 percento delle donne tra i 25 e i 64 anni; solo il 16 percento degli inviti, però, era per sottoporsi al test HPV.
Lo smantellamento dei tradizionali programmi di prevenzione non comporta soltanto difficoltà strettamente organizzative per gli enti del territorio, come nota il dottor Venuti: “Bisogna fare in modo che i centri in cui si fa la diagnosi del pap test ne ricevano un numero abbastanza alto da poter continuare a fare diagnosi accettabili.” Insomma, è importante assicurarsi che le competenze di settore non ne risentano, perché l’esito dell’esame è strettamente legato all’abilità del personale addetto (e non al lavoro di macchinari indipendenti, per dire). Considerando che ci si aspetta che il numero dei pap test eseguiti e dei risultati positivi diminuirà progressivamente e drasticamente—ancor di più quando entreranno nei programmi di screening le bambine che sono state vaccinate contro alcuni tipi di papillomavirus negli ultimi dieci anni—è necessaria una progressiva centralizzazione delle risorse, secondo il medico. “Anche l’HPV test è importante che sia centralizzato,” dice. “[Utilizza] macchine piuttosto costose, quindi più se ne fanno più si abbattono i costi per singolo esame.”
In Italia, il cancro del collo dell’utero colpisce ancora circa 3500 donne e causa 1000 decessi ogni anno; ma è una forma di tumore che può essere efficacemente contrastata—e quasi completamente eliminata—attraverso le campagne di prevenzione e di vaccinazione. Dal pap test all’HPV test, è fondamentale inserirsi nei programmi di screening gratuiti disponibili, anche se ci sentiamo assolutamente sane; può sembrare incredibile pensare che possa bastare un prelievo di qualche secondo a salvare una vita, eppure è così.
Per ulteriori informazioni sulla prevenzione dei tumori, consulta il sito dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro e quello della Fondazione Veronesi.
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