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‘Call me by your name’ è un film estremamente paraculo—e bello

Attenzione: il pezzo contiene dettagli sulla trama del film.

Durante un’intervista rilasciata nel salotto di Ellen, gli attori Timothée Chalamet e Armie Hammer hanno raccontato che la prima scena girata di Call me by your name è stata quella “della pomiciata.” I due protagonisti del film si sono rotolati limonando per diversi minuti su un prato, per poi rendersi conto che il regista Luca Guadagnino si era allontanato dal set per chissà quale ragione.

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Prima d’ora, da noi Guadagnino era conosciuto come il regista di Melissa P.—l’unico suo film andato davvero bene al botteghino in Italia finora. Oltre per la trasposizione di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, a cui ha confessato di non essere particolarmente affezionato, il regista (o meglio il suo nome) non era però mai davvero arrivato al grande pubblico italiano con altri titoli della sua filmografia, nonostante Tilda Swinton, Dakota Johnson e tutto l’impegno apprezzato più o meno dalla critica.

Almeno fino a quando di Call me by your name, senza Tilda Swinton e Dakota Johnson, se n’è parlato sempre più.

Dai primi cenni di interesse dopo l’anteprima al Sundance Film Festival del gennaio 2017 e successive, l’attenzione generale nei confronti del film è arrivata soprattutto per la notevole risposta degli americani (come americano è il film, del resto): nonostante la ristretta distribuzione nel novembre scorso, Call me by your name ha incassato in media più di tutti gli altri dai tempi di La La Land (premiato con sei statuette nella scorsa edizione degli Oscar). Senza dimenticare la copertura mediatica in positivo dedicata fin da subito al film: The Hollywood Reporter lo ha definito un “pacchetto di classe a tutto tondo,” e l’American Film Instituite l’ha inserito tra i migliori dieci film del 2017.

Così, in maniera un po’ fisiologica, sono arrivate in seguito le tre candidature ai Golden Globe, un sacco di altri premi, e il 23 gennaio scorso le quattro nomination agli Oscar—per il miglior attore protagonista (Timothée Chalamet), miglior canzone originale (“Mistery of love” di Sufjan Stevens), miglior sceneggiatura non originale (adattata da James Ivory) e miglior film. Si tratta di nomination per quanto mi riguarda guadagnate—soprattutto perché Timothée Chalamet è una spanna sopra tutti (comparato non solo agli attori di questo film) e “Mistery of love” l’unica canzone che le mie cuffie riproducono da un po’.

Call me by your name è tratto, con qualche piccolo cambiamento, dall’omonimo libro di André Aciman. È estate. Siamo nel 1983. Ci troviamo a Crema, in Lombardia. Nell’opulenza di un grande villone, di quelli piuttosto ricorrenti in Guadagnino, trascorrono le loro giornate il professor Perlman (Michael Stuhlbarg), sua moglie Annella (Amira Casar), e il figlio 17enne Elio. Tutti sono molto colti, parlano diverse lingue, leggono molto. A un certo punto arriva Oliver, il dottorando di turno che il padre di Elio ospiterà per sei settimane nel periodo di vacanza. Soltanto che non è il solito dottorando noioso appassionato di lettere antiche e archeologia, ma un belloccio 24enne di cui si accorgono un po’ tutti. In primis Elio, e infatti i due si innamorano in un casino di non detti e complicanze. Dopo va molto meglio. Molto meglio. Ma tutto poi finisce, come l’estate.

Still dal film per gentile concessione di Vertigo Cinema.

Mentre la macchina da presa si muove con la sensibilità adatta a questi sviluppi, il tutto viene anche un po’ contestualizzato: a tavola vengono imbastite discussioni sul pentapartito e Craxi, altrove si torna a parlare di Resistenza. A voler essere onesti, queste precisazioni sono piuttosto irrilevanti per le dinamiche raccontate e consumate in una bolla avulsa dal resto del mondo, ma di supporto all’attenta ricostruzione degli anni Ottanta in termini di suppellettili, mobilio e vestiario.

Del resto, l’accuratezza della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom e dei costumi di Giulia Piersanti è plausibilmente una diretta conseguenza della lunga gestazione del film. All’inizio Guadagnino è un semplice consulente per la ricerca delle location, poi anche produttore, in seguito collabora con Ivory alla sceneggiatura, dopo ancora chiede a Muccino e altri di dirigere il film (per fortuna in questo caso non è successo), e infine accettata di farlo in prima persona mentre è già impegnato a un altro progetto, il remake di Suspiria, per cui Dario Argento non è molto contento, sempre con Tilda Swinton e Dakota Johnson. Alla fine Call me by your name viene girato in poco più di un mese, a praticamente dieci anni di distanza dal giorno in cui era stato pensato.

Ma al di là di apprezzamenti, dettagli e ricostruzioni, credo sia giusto puntualizzare quanto potrebbe essere facile etichettare il film come paraculo, tornacontista, un “ti piace vincere facile”—perché nei presupposti lo è. E questo non posso negarlo.

Per quanto riguarda il soggetto, infatti, è indubbio che la storia di primo acchito ricordi i classici film sull’adolescente gay alla scoperta della sua sessualità, con i risvolti travagliati annessi e il finale deprimente a cappello. Ma per fortuna la trattazione dello sviluppo narrativo capovolge l’impressione iniziale, riuscendo in un’impresa non facile: ovvero raccontare l’innamoramento in maniera universale. Permettendo così non solo a un ragazzo gay, ma anche al nonno in andropausa, alla ragazza transessuale, al ragazzo etero del 2018, a chiunque, di immedesimarsi.

A tal proposito su Variety è stato detto che il film descrive “la storia di un primo amore che trascende le dinamiche della sua coppia omosessuale.” E in tutto questo mi ritrovo molto d’accordo con Guadagnino quando dice che bisogna considerare Call me by your name come un racconto per tutta la famiglia sulla “bellezza della nascita di un desiderio,” sulla crescita e poco più. In questo, come scrive Mereghetti sul Corriere della Sera, il film “ricorda Bertolucci e Io ballo da sola” ma con una “più personale espressività.”

Sulla scelta degli interpreti, invece, ho ancora qualche remora. Mi sembra si sia cercato di rendere, non so se accidentalmente, più accattivante possibile la relazione tra i protagonisti in termini visivi. Mi spiego meglio: perché l’attore (Timothée Chalamet) che interpreta un 17enne sembra che ne abbia 15 conciato a dovere, mentre l’altro (Armie Hammer) che interpreta un 24enne dimostra tutti i suoi 31 anni? Intendiamoci, al mondo c’è un sacco di gente che non dimostra la sua età, ma almeno in questo caso mi è sembrata una mossa piuttosto furba o casualmente tale.

Di tutte le critiche che ho sentito al momento, però, ce n’è una su cui non sono affatto d’accordo. Ovvero la tesi secondo cui la narrativa queer dovrebbe una volta per tutte andare oltre, facendo di questo film un esempio totalmente anacronistico. Riallacciandomi al discorso accennato prima, e presupponendo che questo film si inserisca nel filone, mi sembra che Call me by your name sia legato sì a un vecchio modo di raccontare, ma stravolto in maniera completamente innovativa. Basti pensare all’idea di normalità familiare che riesce a trasmettere: quando la madre si accorge dell’amore tra il figlio e il dottorando diventa silenziosamente complice, il padre è comprensivo e si lascia andare a confidenze, entrambi sostengono da lontano Elio nel momento del bisogno. Il tutto è ambientato negli anni Ottanta, e non sempre nel presente qualcosa del genere accade all’interno delle famiglie di oggi—quindi mi sembra piuttosto avanti in tal senso. Inoltre la narrativa queer, guardandola a 360 gradi, è già cambiata: penso al telefilm Grace & Frankie, al film premio Oscar Moonlight, o per rimanere in Italia a programmi con degli scranni in velluto rosso.

Per chi poi si lamenta che il film sia lento, in effetti in certi momenti lo è, terribilmente: a quelle due ore e dieci minuti circa si sarebbe potuto sforbiciare qualcosa. Ma non la parte—che voleva tagliare Guadagnino—in cui Elio si masturba con l’ausilio di una pesca. Quella mi sa che ha ricordato un po’ a tutti errori commessi in gioventù.

In sostanza: per quanto mi riguarda, un film così non lo vedevo da molto tempo. Ci sono un sacco di edonismo, carica erotica, spavalderia estiva in bicicletta e un lavoro su tutti questi aspetti di sottrazione che li valorizza invece di svuotarli. Ben vengano film paraculi così, soprattutto se anziché farmi sboccare alla frase “Chiamami col tuo nome, e io ti chiamerò col mio” mi fanno prendere male. Malissimo.

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