L’autore di questo articolo, pubblicato sull’ultimo numero di VICE Magazine, è Vanni Santoni, scrittore, giornalista ed editor che dirige la narrativa Tunué e il cui ultimo libro, Muro di casse, è stato pubblicato lo scorso anno da Laterza.
Sei un editor che sta muovendo i primi passi nel campo editoriale. Il secondo titolo della tua collana comincia a fare risultati importanti. Il suo autore, un giorno, te la butta là: “Perché non lo candidiamo allo Strega?”
Videos by VICE
Era il 2014. Il libro era Stalin+Bianca di Iacopo Barison. Ero editor da un anno, ma scrittore lo ero da sette, ero amico di gente che era stata candidata e anche di alcuni vincitori, eppure il Premio Strega continuava ad apparirmi come qualcosa di esoterico. La richiesta di Barison mi sembrò curiosa. Non era forse, lo Strega, il premio degli editori, in cui tutto è preordinato, telecomandato, gestito da oscure camarille, inaccessibile ai liberi e indipendenti? C’entrava forse il fatto che, con l’eccezione del mio primo romanzo, avevo pubblicato narrazioni ibride, letteratura epigrafica, romanzi collettivi, romanzi fantastici—nulla, insomma, di sufficientemente canonico per essere candidabile al premio, e quindi lo avevo sempre osservato dalla distanza, finendo vittima della vulgata. Il pregiudizio si infranse sulla candidatura di Barison. Non fu semplicissimo trovare due Amici della domenica—questo il nome dei 400 e più giurati che possono candidare i titoli e poi li votano—disposti a sostenerlo, ma neanche impossibile. Dunque, si poteva. Dunque, non vi erano invisibili barriere a impedire alle indipendenti la partecipazione. L’intraprendenza di Iacopo aveva aperto una crepa in un’idea che io stesso avevo introiettato.
Così, quest’anno, quando Dalle rovine di Luciano Funetta ha sbriciolato i record di Stalin+Bianca, ce lo siamo detti da soli, “Candidiamolo allo Strega!” Il compito appariva anche più complesso, dato che il libro era uscito più a ridosso. Molti Amici avevano già preso impegni con altri libri, e ci siamo trovati con un solo sponsor. A quel punto è stata proprio la Fondazione Bellonci, tramite il suo direttore Stefano Petrocchi, a suggerirci alcuni giurati che avrebbero potuto apprezzare e candidare il libro: chiara testimonianza dell’interesse di averlo al premio, al di là di qualunque logica editoriale. Quando il romanzo è riuscito a superare quelli di altre e più grandi case editrici ed entrare in dozzina—il percorso di un libro allo Strega si articola in quattro fasi: candidatura da parte di due Amici; eventuale ammissione nella dozzina semifinalista in base alle sole decisioni del comitato direttivo; eventuale ammissione nella cinquina finalista in base ai voti degli Amici; eventuale vittoria secondo la stessa modalità—l’impressione è stata che la qualità letteraria l’avesse spuntata sul peso editoriale, e che di conseguenza tale peso non fosse, come molti dicono, il solo parametro d’azione del premio.
Guardando l’albo d’oro, però, è pur vero che negli ultimi dieci anni i vincitori appartengono tutti al Gruppo Mondadori (sette vittorie, ripartite tra Mondadori—quattro—ed Einaudi—tre) e RCS (tre vittorie, due a Bompiani e una a Rizzoli); andando più indietro cambia poco, salvo qualche apparizione di Feltrinelli. Non stupisce allora che ogni anno ci sia una polemica, e di solito, più che dalle piccole e medie, che la gara la fanno sulla dozzina o sulla cinquina, arriva da quelle grandi o dai loro autori che non riescono a centrare la vittoria.
Nel 2012 Emanuele Trevi, a sua volta Amico, sembrava destinato a rompere la tradizione col suo libro Qualcosa di scritto, uscito per Ponte alle Grazie (parte di quel gruppo GeMS che include Garzanti, Longanesi, Guanda e altri marchi): finì per concedere la vittoria, per due soli voti di scarto, ad Alessandro Piperno e il suo Inseparabili, edito Mondadori. In un’intervista rilasciata al Messaggero dopo la sconfitta, disse che il premio avrebbe dovuto cambiare: “Non è possibile che a scegliere i libri da votare siano gli editori […] ciò che non va, per dirla con un termine politico, sono le primarie. Il fatto che sia l’editore a candidare.” Allo stesso modo, l’anno scorso Roberto Saviano aveva avuto parole pesanti per i giurati che non avessero votato Elena Ferrante—la cui Amica geniale edita dalla indipendente E/O è arrivata in effetti terza, dietro alla Ferocia di Nicola Lagioia, Einaudi, e La sposa di Mauro Covacich, Bompiani.
Da parte editoriale, le polemiche non sono minori: in passato furono Baldini&Castoldi e lo stesso gruppo GeMS a lamentare la presunta impossibilità di arrivare al gradino più alto; quest’anno è stato Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli, a rompere col premio decidendo di non partecipare e auspicandone una riforma radicale. Tutte queste polemiche, però, non fanno che alimentare la mitologia dello Strega, ma soprattutto testimoniano l’enorme interesse editoriale che ancora catalizza. Per una ragione molto semplice: a differenza di quasi tutti gli altri premi letterari italiani, lo Strega fa vendere, e molto.
“Secondo un’indagine indipendente realizzata nel 2013 dall’economista Vincenzo Scoppa e dalla ricercatrice Michela Ponzo,” racconta Petrocchi, “è emerso che la vittoria al Premio Strega incrementa le vendite anche del 500 percento.
“È un fatto,” continua, “che anche l’ammissione in dozzina e il passaggio in cinquina abbiano effetti positivi sulle vendite, anche per via della ulteriore esposizione mediatica. Ma il vero impatto si ha sul libro vincitore.” In alcuni casi—due recenti sono stati La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e Storia della mia gente di Edoardo Nesi—il venduto si è addirittura decuplicato.
Per questo, racconta Filippo Bologna, che allo Strega ha partecipato da outsider nel 2009 con Come ho perso la guerra (Fandango) e ne è rimasto tanto colpito da ambientarci il romanzo successivo (I pappagalli, 2012), “la verità è che, al di là delle dichiarazioni sportive dei partecipanti, è una lotta ferocissima, quello che conta è vincere. Anche quegli autori, magari veterani, che partecipano ostentando irenico distacco, in realtà vogliono solo una cosa: vincere. L’unico modo per guardare il premio con obiettività è partecipare come ho fatto io, ovvero senza alcuna possibilità di vittoria.
“Allora,” ghigna Bologna, “diventa divertentissimo. Perché è in simili situazioni che il vero animo delle persone viene fuori, nel bene e nel male. Credo però che non sia solo il venduto a generare tanta competitività. Basta guardare l’albo d’oro. Ci sono stati alti e bassi, ma in linea generale fa impressione: essere lì dentro, con quei nomi—Eco, Landolfi , Volponi, Morante—può dare senso a una vita.”
Un libro sullo Strega lo ha scritto anche Petrocchi: uscito per Mondadori nel 2014, La Polveriera indica già dal titolo il carattere controverso del premio. “In realtà la mia è una docufiction,” spiega Petrocchi, “sono partito dai documenti di archivio che mostravano come il premio si incrociasse con la storia della cultura italiana, spesso in modo esplosivo. Anche in passato: si pensi al clamoroso ritiro di Pasolini, nel ’68, col timore che Casa Bellonci venisse assaltata da gruppi di estrema sinistra. O al ’61, dove Ferito a morte di La Capria arrivato come outsider vinse per un solo voto di scarto, salvo poi scoprire che mancava una scheda, inviata per posta e giunta in ritardo.”
Un fenomeno, quello delle vittorie sulla linea, che stava scomparendo dalla storia del premio e adesso ha cominciato a ripresentarsi: “È vero,” ammette Petrocchi, “qualche anno fa il premio aveva preso una direzione un po’ prevedibile, il vincitore finiva per trionfare con moltissimi voti di scarto, anche 50 in alcuni casi, il che faceva calare molto l’interesse. Molte vittorie recenti—penso a quelle di Scarpa, Piperno, Pennacchi e Piccolo—sono invece avvenute con un numero di voti di scarto compreso tra uno e cinque. I votanti che abbiamo aggiunto in questi ultimi anni, i lettori forti scelti dalle librerie indipendenti e i gruppi interni agli Istituti di Cultura, in un simile scenario sono sempre più decisivi.”
Nonostante ciò, i gruppi Mondadori e RCS monopolizzano o quasi il premio grazie a consistenti “pacchetti di voti” rappresentati dai loro stessi autori o da persone nell’orbita delle case editrici, e adesso che, con l’acquisizione di RCS da parte del primo, i due gruppi sono uno solo, il rischio è che non ci sia proprio più partita.
Edoardo Nesi, vincitore nel 2011 con Storia della mia gente, edito da Bompiani, faceva parte del Comitato Direttivo del premio fino all’anno scorso. Si è dimesso in seguito alla fondazione della Nave di Teseo, casa editrice creata da Elisabetta Sgarbi, ex direttrice editoriale di Bompiani, con molti autori fuoriusciti dalla stessa. “Il rischio esiste, è inutile girarci intorno. I voti su cui può fare affidamento il gruppo Mondadori, se combinati con quelli del gruppo RCS, sono talmente tanti da poter condizionare ogni volta l’esito del premio.
“Cambiare, però, è complicato: il premio ha una tradizione che è anche la sua forza. Sperare che le case editrici interne al gruppo lottino tra loro non basta, anche se sono curioso di vedere come andrà quest’anno, con la nuova configurazione editoriale. Sul lungo periodo, probabilmente, la soluzione è ampliare ancora il numero degli Amici. Magari cogliendo l’occasione per invitare più donne che uomini.”
Secondo Nicola Lagioia, campione in carica del premio ma anche editor narrativa per minimum fax, che nonostante una lunga storia di qualità solo una volta è riuscita ad arrivare in cinquina (nel 2005 con Per grazia ricevuta di Valeria Parrella; tre anni dopo, Il tempo materiale di Giorgio Vasta mancò la finale per due voti), “Anche nell’era ‘Mondazzoli’ libri di case editrici interne al gruppo possono combattere senza compromessi. Il problema vero, che esiste, è il fatto che il vantaggio economico, uno dei motivi fondanti l’interesse editoriale per il premio, andrà comunque a un solo soggetto. Questa è una questione da porre alla Fondazione.
“È chiaro che in un mondo perfetto tutti i libri avrebbero le stesse possibilità di vittoria—tuttavia,” continua Lagioia, “dato che è normale che le grandi case editrici abbiano un peso maggiore, credo che la questione vada affrontata in tutt’altro modo. Il problema non è il Premio Strega o il suo regolamento. Il problema è che c’è un solo Premio Strega.”
Lo guardo, mi spiega: in Italia, oggi, i canali di elevazione a un pubblico di massa di un testo letterario sono pochissimi. O lo mandi allo Strega, o lo mandi in televisione. Non c’è molto altro. Al di fuori di queste possibilità, un libro anche eccellente rimane quasi sempre confinato a una nicchia di lettori fortissimi. Se si creassero più strutture e canali, anche a livello statale, atti a far emergere i migliori testi letterari dell’anno, questa attenzione morbosa per lo Strega finirebbe. Perché le case editrici di ricerca e qualità, in Italia, ci sono: è un po’ come un paese in cui nascono grandi talenti sportivi ma poi mancano gli impianti.
Illustrazioni di Linda Caracciolo Borra. Segui Vanni su Twitter.