Fino a non troppo tempo fa, politici come Nigel Farage erano visti come freak incapaci di incidere sulla realtà; il Regno Unito non aveva deciso di separarsi dall’Unione Europea; e Trump era semplicemente un eccentrico tycoon a cavallo tra affari e spettacolo, non il presidente degli Stati Uniti.
Ora tutto questo si è completamente ribaltato, e non siamo nemmeno arrivati al capolinea: siamo in una tappa intermedia. Se si dà un’occhiata ai prossimi appuntamenti elettorali europei, infatti, la domanda che sorge spontanea è: “a chi toccherà questa volta?”
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Il 4 dicembre il referendum costituzionale rischia di indebolire Matteo Renzi e il governo in carica, e agli esiti della consultazione si lega indissolubilmente anche il futuro elettorale del Movimento 5 Stelle. Lo stesso giorno si terranno (di nuovo) le presidenziali in Austria, dove potrebbe vincere il leader dell’estrema destra Norbert Hofer.
Nella primavera del 2017, invece, il Partito per la Libertà—capeggiato da Geert Wilders—ha discrete possibilità di affermarsi nelle elezioni in Olanda; e in Francia Marine Le Pen correrà per le presidenziali con grosse chance di arrivare al ballottaggio. Nell’autunno dello stesso anno ci saranno le elezioni generali in Germania, dove il partito euroscettico e anti-immigrazione Alternative für Deutschland potrebbe aumentare considerevolmente le percentuali del proprio consenso.
Insomma, lo scenario da qui a un anno potrebbe assomigliare a questa immagine:
Considerando tutte le differenze dei vari casi, ad accomunare questi leader e queste forze politiche è un’unica parola: populismo. Da qualche anno—o decennio, a seconda dei punti di vista—il termine è diventato ubiquo e onnipresente. Politici e opinionisti lo usano per denigrare gli avversari di turno; di contro, quest’ultimi o rifiutano sdegnosamente l’etichetta, oppure la rivendicano per disinnescarne la carica negativa.
Eppure, al di là delle schermaglie quotidiane, il populismo è il fenomeno che più di ogni altro sta connotando la politica occidentale in questo preciso momento storico. E visto quello che sta succedendo, non potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, già alla fine degli anni Novanta la politologa inglese Margaret Canovan (tra i primi studiosi a interessarsene scientificamente) scriveva che il populismo, più che un sintomo di arretratezza tout court, riflette “l’inevitabile ambiguità” dei nostri sistemi politici ed è “un’ombra proiettata dalla stessa democrazia.”
È proprio questa caratteristica a renderlo un tema sfuggente e complesso allo stesso tempo. Semplificarlo o ridurlo ad un insulto da talk show, dunque, è probabilmente il più grosso favore che si possa fare ai populisti. Per cercare di capirci qualcosa mi sono così rivolto a quattro politologi esperti di populismo—gli italiani Marco Tarchi e Roberto Biorcio, l’olandese Cas Mudde e la finlandese Ann-Cathrine Jungar—e ho girato loro cinque domande che tutti, più o meno, ci stiamo facendo.
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI POPULISMO?
Il primo problema che si pone quando si parla di populismo—o populismi, visto che possono essere di destra o di sinistra—è quello di definirlo con esattezza. È un’ideologia? Una logica politica? Uno stile retorico? Una visione del mondo? O è tutte queste cose insieme? Ilvo Diamanti, tempo fa, ha parlato di “una definizione indefinita per eccesso di definizioni”—ed effettivamente ce ne sono tantissime.
Tarchi e Mudde, ad esempio, me ne hanno dato due lievemente diverse. Per il primo, il populismo “non è né un’ideologia né soltanto uno stile comunicativo: è una mentalità che può essere sentita e diffusa con intensità diverse, fondata su un’idea mitizzata del popolo, considerato come un’entità originariamente coesa e intrisa di tutte le virtù. Questa idea porta a combattere tutte le oligarchie, portatrici di ogni vizio.”
Per il secondo, invece, si tratta di un’”ideologia debole che tratteggia una società divisa in due gruppi omogenei e antagonisti—il ‘popolo puro’ e l”élite corrotta’—e che vede la politica come l’espressione della volontà generale del popolo.”
Chiaramente, come mi spiega Jungar, il concetto di “popolo” è estremamente “malleabile” e “può essere riempito con qualsiasi contenuto: il popolo come nazione, il popolo contro l’élite politica, il popolo contro i burocrati dell’Unione Europea, eccetera.”
PERCHÈ IL POPULISMO SEMBRA ESSERE LA “FORMULA POLITICA” VINCENTE DEL MOMENTO?
Da qualunque parte la si guardi, i partiti e i movimenti populisti stanno conquistando spazi sempre più ampi nella politica occidentale. Questo non vuol dire però che, all’improvviso, tutti i cittadini siano impazziti e abbiano deciso di votare in massa certe forze politiche; al contrario, ci sono molte ragioni sia dietro a queste scelte che a questa avanzata.
La più evidente è che i partiti tradizionali—liberali e socialdemocratici—sono in crisi nera, e lo sono almeno dagli anni Novanta dello scorso secolo. Tradendo le promesse fatte elezione dopo elezione hanno perso il radicamento e la capacità di mobilitare il proprio elettorato storico, così come la capacità di attrarre nuovi elettori. “Le persone non sono più in grado di identificarsi con i partiti,” mi dice la professoressa Jungar, “e questo crea un’apertura per i nuovi partiti.”
A questo si aggiunge anche, sottolinea Biorcio, il fatto che i partiti tradizionali “non sono stati in grado di dare risposte ai problemi posti dalla globalizzazione,” che ha causato “impoverimento e sofferenza—esarcebate dalla crisi del 2008 e da quella dell’Eurozona—per una parte della popolazione, che non ha più un alcun riferimento storico in grado di interpretarne le esigenze. Per questo, appena il cittadino ha la possibilità di votare e dare un segnale critico verso le élite nazionali ed europee, lo fa.”
Anche il contrasto all’immigrazione—e lo si è visto nel Brexit, in molti paesi europei, e anche nelle elezioni americane—riveste un ruolo fondamentale nell’ascesa dei populismi. Quest’ultimi, come nota Tarchi, sfruttano appieno il “desiderio di difendere contemporaneamente il proprio livello di vita e il proprio modo di vita contro l”invasione’ di soggetti stranieri portatori di altre culture e concorrenti sul mercato del lavoro.”
Infine, mi spiega Cas Mudde, i partiti populisti sono diventati molto più professionali sotto molti aspetti—soprattutto a livello comunicativo—e hanno trovato un “panorama mediatico molto più recettivo ai loro messaggi e alle loro parole d’ordine.”
IL POPULISMO È UNA MINACCIA PER LA DEMOCRAZIA?
L’equazione che solitamente si traccia è questa: il populismo porta necessariamente alla fine della democrazia, o nel migliore dei casi ad una svolta autoritaria. La realtà tuttavia è più sfumata, e dipende moltissimo dalla conformazione e dagli obiettivi dei partiti che lo utilizzano.
Tutti gli esperti che ho sentito mi hanno parlato di una doppia natura positiva e negativa—ossia della coesistenza di una “minaccia” e di un “correttivo” per le democrazie liberali. In quelle più consolidate, mi dice Tarchi, “il populismo può essere un campanello d’allarme rispetto alle insufficienze delle classi dirigenti e al rischio di distacco tra vertice e base: restare sordi alle sue critiche è un grave errore.” Anche Roberto Biorcio sostiene che il populismo, in certi casi, segnala il tradimento della sovranità popolare e la necessità di “ripristinarla attraverso forme di democrazia diretta o altre forme di partecipazione dei cittadini.”
Dall’altro lato, sottolinea Jungar, esistono partiti più o meno estremi che “vogliono rimpiazzare l’attuale sistema democratico liberale con un altro sistema, e sono anche preparati a ricorrere alla violenza a scopo politico.” Ma, anche in questo caso, partiti del genere esistono “perché quelli tradizionali hanno fallito, e in questo senso potrebbero funzionare come un correttivo spingendo questi partiti a riconsiderare le proprie posizioni e ad interrogarsi su come riconquistare la fiducia dei cittadini.”
Naturalmente questo non significa rincorrere i populisti sul loro terreno, avverte la professoressa, ma piuttosto “formulare delle risposte basate sulla propria ideologia di riferimento. Finora, purtroppo, non si è visto nulla di tutto ciò.”
LA SINISTRA DEVE DIVENTARE POPULISTA PER CONTRASTARE IL POPULISMO DI DESTRA?
Non è un mistero che la crisi della sinistra europea—per non parlare di quella italiana—sia ormai esistenziale, se non potenzialmente letale. Da diverse parti, dunque, si ragiona sulla possibilità di puntare su un populismo di sinistra per sottrarre terreno a quello di destra. In certe situazioni particolari come quella greca e spagnola, e con tutti i distinguo del caso, lo si sta già sperimentando.
Il punto cruciale è: può funzionare? O si tratta una strategia suicida?
Gli esperti con cui ho parlato non sono molto convinti che questa sia la strada da battere. Cas Mudde, rispondendo con un secco “NO!,” mi spiega che il populismo di sinistra, pur essendo più “inclusivo” di quello di destra, è comunque “illiberale e moralista.” I partiti di sinistra, pertanto, dovrebbero “sviluppare una moderna ideologia socialdemocratica, proporla ad un elettorato sempre più scettico, ed implementarla con coerenza.”
Jungar, dal canto suo, crede che—più che diventare anti-establishment o euroscettici—i partiti socialdemocratici debbano fare una cosa molto più semplice: smettere di spostare la propria offerta socio-economica al centro o a destra, e “tornare a fare quello che sapevano fare meglio.”
“Il problema della sinistra è che avrebbe bisogno di ristabilre il rapporto con i cittadini e di riattivare la loro azione politica, così come l’avevano e facevano un tempo,” mi dice infine Biorcio. “I partiti di centrosinistra dovrebbero fortemente cambiare la loro natura attuale, ma non so se siano in grado di farlo.”
SI TORNERÀ MAI INDIETRO DA QUESTA “ONDATA” POPULISTA? O NEL FUTURO DOBBIAMO ASPETTARCI PIÙ BREXIT E PIÙ FIGURE COME TRUMP?
La prospettiva di avere altri referendum come Brexit—e già si stanno preparando le campagne per una ” Swexit” o una ” Frexit“—o leader come Trump non è esattamente esaltante. Eppure, come mi dice Jungar, i partiti populisti “non se andranno via così facilmente, e anzi avranno un grosso impatto sul nostro sistema politico – sia conquistando il potere, sia partecipando in un governo, sia influenzando le posizioni dei partiti tradizionali.”
Il populismo moderno, dunque, ha tutte le carte in regola per lasciare un’impronta duratura. E le ha, a maggior ragione, se le condizioni di base rimangono invariate: il malcontento verso un establishment che continua a fare errori, la crisi economica, la perdita dei posti di lavoro, l’indebolimento del sistema di welfare, e così via.
Secondo Roberto Biorcio, si potrà “tornare indietro” solo se si riuscirà a “correggere questo tipo di sviluppo economico sociale, e se le forze politiche e gli stati torneranno a governare in modo preciso i movimenti dell’economia, senza portare avanti quello che è stato fatto dagli anni Ottanta a oggi.”
Allo stesso tempo, però, bisogna sempre mettere le cose in prospettiva. “Nessun fenomeno politico è inarrestabile,” mi dice Cas Mudde. “Molti paesi non hanno partiti populisti forti, e in molti altri i populisti sono una minoranza. Sono pochi i governi populisti.”
Ma soprattutto, anche le forze populiste (quelle che rimangono nell’alveo democratico, almeno) devono sottostare a una legge basilare della politica: quella per cui se non riesci a mantenere le promesse e cambiare davvero le cose, allora ne pagherai le conseguenze e—per usare un’espressione cara ai populisti italiani—prima o poi tornerai a casa.
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