Come un videoludico Umberto Eco direbbe, “Il mercato dei videogame è vessato da acquirenti carichi di troppi soldi e tempo libero che finanziano dei franchise tripla A che non fanno altro che sfornare titoli annuali uno identico all’altro, destinati comunque a incassare un mare di soldi.”
E qui hai voglia a stare a criticare, a lamentarsi eccetera eccetera. Non fa neanche scalpore il fatto che la versione 2016 di Pro Evolution Soccer, presentata all’ultimo E3 di Los Angeles, sia stata considerata degna di attenzione, se non addirittura acclamata dalla stampa di settore: l’algoritmo creativo che porta dal punto “gioco che funziona” fino a “profitto” è piuttosto vecchio.
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Il tasto dolente viene premuto, secondo me, quando andiamo ad analizzare buona parte dei videogiochi di ultima e penultima generazione. Tutto viene spiegato chiaramente: i tasti, i percorsi da intraprendere; se qualcosa sfugge viene ben messo in evidenza, se un giocatore si incaglia in un punto la principale preoccupazione dello sviluppatore diventa quella di aiutarlo a superare il problema.
“E grazie al cazzo,” come un videoludico Thomas Milian direbbe: uno sviluppatore è interessato a mostrare il frutto del suo lavoro e a non rischiare che la sua opera venga cestinata semplicemente perchè troppo complicata da giocare. Anche qui niente di nuovo, se un gioco richiede 10 ore per essere apprezzato ma stufa dopo mezz’ora, quasi sicuramente ogni suo eventuale sequel non verrà acquistato.
La mia personale esperienza parte da questo assunto e arriva fino al giorno in cui metto le mani su Bloodborne, titolo sviluppato da FromSoftware per Ps4. Facciamo delle premesse: Bloodborne è un titolo per ora definibile come uno spinoff della serie Dark Souls, iniziata nel lontano 2011 ed ora in procinto di arrivare al suo terzo capitolo, dopo l’annuncio all’E3 di Los Angeles.
Bloodborne, come avevano fatto i precedenti capitoli della saga, violenta tutti i dogmi commerciali di cui abbiamo parlato in apertura: in senso generico possiamo tranquillamente affermare che in Bloodborne “non si capisce UN CAZZO”. La trama, gli obiettivi e alcuni comandi sono difficili da comprendere, da imparare e spesso impossibili da sfruttare in maniera sensata, nell’economia del gameplay.
Il lore—per capirci, le informazioni che riguardano e che descrivono il mondo di gioco—non è mai rappresentato esplicitamente e va sempre ricercato attivamente, spulciando nelle descrizioni degli oggetti, nei dialoghi con gli NPC o semplicemente deducendolo dagli elementi di contorno.
Il livello di difficoltà nel gioco è imbarazzante: si muore spessissimo e anche con gli equipaggiamenti più avanzati si può essere uccisi con facilità disarmante. Infine quando si muore, si muore: si ritorna al checkpoint, si perde tutta l’esperienza accumulata, i nemici sconfitti ritornano in vita e via da capo—o almeno dall’ultima lanterna/checkpoint.
Tutto questo accade in maniera perfettamente cosciente; Bloodborne e la saga Souls sono dei titoli che si vantano dell’elevato numero di game over in cui i loro giocatori incappano. Detto così si possono solo immaginare dei ricchi producer di videogame che investono tot soldi per creare un gioco con il solo scopo di prendere in giro un pubblico di giocatori abituati ad avere dei checkpoint anche all’interno di un combattimento con un boss—pazzesco, vero?
Invece è dal primo Dark Souls che questo franchise ha positivamente spiazzato prima la critica e poi il pubblico pagante: ad Aprile 2013, le copie vendute sfioravano i due milioni e mezzo. Per non parlare dell’immenso quantitativo di premi e di awards ricevuti tra il 2011 e il 2012.
Il noto producer Burial in una sua blog entry dell’epoca scrive così:
Spero riuscirò a concludere dei pezzi decenti entro la fine dell’anno, di modo da poterli pubblicare, ma sta arrivando Dark Souls 2 e quindi non sono così sicuro riuscirò a produrre nuove tracce, principalmente perché ho bisogno di giocare molto a quel gioco.
Ora, è accettabile che voi non sappiate chi sia Burial solamente nel caso in cui viviate in uno scantinato in Sierra Leone, ma il semplice fatto che un artista come lui parli in questo modo di un gioco farebbe drizzare qualunque antenna.
Il fatto è che in un determinato punto del processo evolutivo dei videogame che porta—in qualche modo—da Monkey Island a un pozzo nero di Call of Duty, qualcuno deve essersi stufato e ha infine sbattuto il joypad per terra probabilmente stanco di uccidere e di non essere mai ucciso.
Allora forse i giocatori sono davvero solo dei fessi ai quali più si mostra lontana l’uva, più essi la reputano buona.
Così si è aperta l’attenzione verso la bellezza di un mondo irto di pericoli, in cui tutto può ucciderti e in cui ogni area conquistata è un traguardo incredibile. In cui la bellezza dei paesaggi è veramente appagante, perchè si rischia di non vederli mai. In cui un boss non va giù al primo tentativo, e neanche alla quinta o decima: alcune volte non ci va mai—E quando ci va ti viene veramente voglia di mostrare il dito medio ad uno schermo.
Allora forse i giocatori sono davvero solo dei fessi ai quali più si mostra lontana l’uva, più essi la reputano buona, ed è probabilmente dovuta a questo l’impennata di giochi roguelike sviluppati in maniera indipendente negli ultimi due anni. Rimane comunque impossibile non accorgersi di quanto l’esperienza di questi giochi sia innovativa, lontana dagli standard ma allo stesso tempo vicina a ciò che è sotto sotto vogliamo avere da una simulazione della realtà—ovviamente non in termini di puro realismo, di quello non frega niente a nessuno.
Un gioco che vuole far capire al giocatore che non sta guardando un film, o peggio, non sta giocando ad Uncharted: sta giocando a Dark Souls, in un mondo di cui non sa nulla e in cui qualunque pericolo può terminare questa esperienza, per questo il principale responsabile della buona riuscita di questa avventura è il giocatore non lo sviluppatore.
Michael Thomsen su Slate scrive così:
C’è della bellezza reale in Dark Souls. Mostra come la vita consista più di sofferenza che di piacere, più di fallimenti che di successi, e che anche quel momentaneo attimo di sollievo dopo aver raggiunto un obiettivo è spazzato via dalla sfida successiva. È il testamento della nostra persistenza nell’affrontare questa sofferenza. […]
Ed è proprio questa forse la chiave: più aumenta la sofferenza nel raggiungere un obiettivo, maggiore sarà la soddisfazione nel raggiungerlo. Un sillogismo così semplice sembra aver ricordato ai giocatori in primis che “un gioco” inteso nel senso più lato in assoluto è composto principalmente da ostacoli da superare.
Allora è proprio in questo ambiente che non ci meravigliamo dell’annuncio del terzo capitolo della saga, dopo che Sony si è dichiarata sorpresa dalle vendite di Bloodborne, ed in questo ultimo E3 il trailer di annuncio di Dark Souls 3 ha fatto certo impazzire la folla, ma ha intimamente confermato che il mondo dei videogame è ancora sottomesso ai desideri di quella fascia di giocatori per i quali la scritta “YOU DIED” sullo schermo è solo un motivo di continuare a giocare, invece che di smettere.