Perché non riusciamo ad accettare la solitudine?

Nel 2012, la Mental Health Foundation inglese ha stabilito che rimanere da soli è una preoccupazione più presente tra i 18-34enni che tra gli over-55. L’anno scorso, un censimento lanciato da VICELAND UK ha rivelato che per il 42 percento degli intervistati la paura più grande è quella di morire soli. Un dato inatteso. 

Di solito pensiamo alla solitudine come a una morsa che ci stringerà quando invecchieremo. Quando i nostri amici di una vita moriranno, le commissioni le faremo di mattina presto e la giornata non sarà organizzata per conversazioni, ma per pubblicità alla TV. Quando il tempo perderà il suo valore. È questo che ci fa cagare sotto del diventare vecchi.

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Quando sei piccolo, la solitudine è un concetto astratto. E il cervello di un bambino non è in grado di pensiero astratto. Ho un ricordo di me stessa seduta sul sedile posteriore della Volvo di mio padre che canto “Eleanor Rigby” insieme alla musicassetta di Revolver. Quella canzone strana, quella meditazione funebre sull’isolamento umano. La canzone da cui ho preso il nome. 

“Tutte le persone solitarie / Dov’è il loro posto?”

Sapevo che cosa voleva dirmi Paul McCartney? Assolutamente no. A sei anni, la mia idea di solitudine poteva essere ridotta alla frase, “Nessuno vuole giocare con me.”

Ma poi ho esplorato la topografia della solitudine. Quanto grande è un letto matrimoniale quando per cinque anni l’hai condiviso con qualcuno e l’amore non è bastato. Come, i primi tempi che vivi da sola, devi costantemente ricacciare indietro la tristezza. Come, quando fai la vita da freelance, anche solo uno scambio di battute con la panettiera può darti la gioia della mattina di Natale. Conoscevo la vergogna imprigionata nelle parole “mi sento sola.” Perché quando sei tecnicamente giovane (anche se a trent’anni non ti ci senti), ancora piena di potenziale, non dovresti sentirti sola, no?

Ci sono un sacco di associazioni che si occupano di mitigare la solitudine delle persone anziane. Ma tutti noi altri? Cosa non abbiamo ammesso, cosa non abbiamo capito? Per esaminare la solitudine tra i nostri coetanei—i miei—devo fare un passo indietro. Guardarmi intorno.

“La solitudine come ‘malattia’ è sempre in relazione con lo stato della società,” mi ha detto il dottor Jay Watts, psicologo clinico e autore. “Il neoliberismo—un atteggiamento comune a tutti i governi dall’era Thatcher—ha fatto diffondere l’individualismo e danneggiato i legami.” Questi legami—quello con il medico di base che ci conosce da quando siamo piccoli, quello con l’insegnante che può prendersi il tempo per capirci—sono, dice lui, “stati sacrificati al dio dell’efficienza e della performance.”

L’enfasi che poniamo sull’importanza della parola “io” è alla base di gran parte del nostro malessere. 

L’accento che la nostra società pone sull’autosufficienza è fortissimo. “Costantemente, ci viene detto che gli unici modi per prosperare sono la competizione, l’individualismo,” ha dichiarato George Monbiot l’anno scorso. Secondo lui, il neoliberismo ha creato la solitudine, ed è difficile non concordare. 

La nostra generazione è invischiata tra contratti d’affitto che ci costringono a vivere con perfetti sconosciuti. È un circolo vizioso. “I millennial sono costretti a trasferirsi spesso, a causa della tirannia dei padroni di casa che non hanno alcun interesse nel riconoscere l’importanza dei legami con la comunità, e che instaurare relazioni quotidiane ci faccia sentire ‘a casa’ e mitighi la solitudine,” dice Watts. Non possiamo permetterci di comprare casa o avere figli e, se abbiamo un lavoro, non significa altro che siamo entrati in un mercato che non fa che sfruttarci e ci pagherà molto meno di quanto pagava i nostri genitori. Risultato? Adolescenza infinita. Anche dopo i 30. Alcuni sono costretti a tornare a vivere con i genitori. La società ci spinge a cercare l’autosufficienza, ma la sua stessa struttura ci impedisce di trovarla. Ci allontana gli uni dagli altri. Ci dimentichiamo come si fa a farsi degli amici, ma abbiamo delle app per ovviare al problema. Se abbiamo bisogno di una carezza, possiamo pagare uno sconosciuto perché ce la dia. 

I soldi creano un muro. A meno di avere un lavoro pagato in modo ragionevole, eredità o un partner ricco, può rendere l’esistenza intera un problema. È facile capire da dove arriva la solitudine. I forum e i gruppi su Facebook frequentati dalle giovani mamme rivelano tutta la loro solitudine. Le immagini pubblicitarie ci dicono che avere un figlio sarà tutto giochini, morbidezza e versetti felici. La verità è spesso incasinata, frustrante e piena di solitudine, è spesso un salotto vuoto tranne per te e questo piccolo essere umano al centro di tutto, per cui tu vuoi fare del tuo meglio. Soprattutto se sei una madre sola o non sei abbiente, e non puoi avere accesso a quello a cui hanno accesso i ricchi.

L’importanza della parola “io” è alla base di molta disperazione. Alcune ricerche hanno dimostrato che la solitudine fa male a livello cellulare. Molti modelli psicologici concordano sul fatto che siamo tutti nati con una predisposizione biologica a qualche forma di attaccamento. Il contatto con i nostri simili può ridurre il dolore fisico, ma il dolore serve anche da funzione evolutiva che ci spinge a cercare connessioni. La sopravvivenza tra i mammiferi, animali sociali, dipende da quanto sono forti i tuoi legami con il branco. Essere ai margini del gruppo, isolato, rende un animale più evidente agli occhi dei predatori. 

Anche se va contro la nostra natura, ormai ammettere di aver paura di stare da soli è una vergogna. Soprattutto se sei giovane e dovresti essere “a divertirti”—qualunque cosa significhi. Ma se diamo ascolto a Sartre, che diceva che la solitudine è una parte essenziale della condizione umana, allora, Cristo: perché non dovremmo voler diluire il dolore stando con qualcuno? Così ossessionati come siamo dall’individualismo, non stiamo forse ignorando un aspetto fondamentale dell’essere uomini?

Il sociologo Robert S. Weiss ha identificato sei bisogni sociali che contribuiscono, quando non vengono soddisfatti, al sentirsi soli: attaccamento, integrazione sociale, contesto parentale, validazione, senso di alleanza e guida nelle situazioni stressanti. Weiss è stato influenzato dalle teorie di attaccamento e dal lavoro seminale dello psicologo John Bowlby a fine anni Cinquanta. Bowlby pensava che l’attaccamento caratterizzasse l’esperienza umana “dalla culla alla tomba”. I pattern di attaccamento che abbiamo da bambini, dunque, influenza quelli che avremo—o non avremo—da adulti. Se non abbiamo qualcuno con cui condividere il peso del vivere, la solitudine è inevitabile. Abbiamo costruito uno stigma intorno a una cosa che avremmo invece solo dovuto accettare. 

Lo stigma va a braccetto con la solitudine. Anche se essere soli non è di per sé un disturbo mentale, sappiamo che ansia e depressione aumentano i sentimenti di solitudine, che a loro volta possono avere un impatto negativo sulla salute mentale. Sappiamo che, in Inghilterra, l’autolesionismo è la principale causa di morte tra i ventenni, e la solitudine ha un ruolo significativo per il comportamento di una persona che usa il proprio corpo per comunicare dolore emotivo. Lo stigma fa da scudo e impedisce alle persone di parlare dei propri disturbi mentali, spesso con conseguenze fatali. 

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Foto di wgbieber, via Pixabay.

È facile dare la colpa ai social media per l’epidemia di solitudine tra i giovani. Possiamo continuare a costruire immagini diverse di noi, a promuovere ologrammi che non riflettono la nostra vita, la nostra solitudine. La nostra generazione è cresciuta considerando internet una parte della propria vita quotidiana, ma non sappiamo ancora abbastanza sul modo in cui colpisce la nostra salute mentale. Non abbiamo ancora i dati. La rivoluzione digitale significa che le persone sole possono connettersi tra loro rimanendo in qualche modo anonime. Per quelli che hanno problemi di salute mentale, può anche essere il primo contatto con un possibile aiuto. 

I social media, secondo Watts, hanno portato anche le persone a “ritenere sempre più difficile tollerare il compromesso e la frustrazione delle relazioni a lungo termine. E questo può portarci a rifiutare una stabilità che ci viene dai legami sociali.” Questa sensazione di non essere mai al nostro posto, dice, è esacerbata dal cambiamento dei pattern relazionali. Tinder. “La semplicità dello swipe, l’idea che non dobbiamo piegarci al compromesso, rendono ancora più incerte le relazioni.” Ovviamente. Quando è diventato strano ammettere di volere qualcuno a cui importi di noi?

Essere senza un partner significa spesso dover sentire quei sermoni sull’”imparare a stare da soli,” in particolare quando si è appena usciti da una relazione. Cercare un semplice compagno quando dovremmo “essere sempre in cerca della persona giusta”, perché? Una delle mie amiche mi ha detto che va in palestra e ci resta finché si dimentica di essere sola. Non faccio fatica a capire. 

“Quando viviamo insieme ad altre persone con cui non abbiamo legami affettivi, è possibile che ci sentiamo molto soli, anche se c’è un sacco di gente in casa e siamo sempre in giro,” dice Rachel, 28 anni, che lavora nella pubblicità a Londra—secondo gli studi la zona più solitaria del Regno Unito. “Andare a letto con persone di cui non ti interessa può farti sentire sola,” continua Rachel. “Le app di appuntamenti sono il vuoto. Ammettere di essere sola, come donna, è visto malissimo. Nessuno vuole incontrare una zitella disperata, quindi fingiamo di non essere sole.”

Fingiamo.

Lo stigma della solitudine è tale che ci mentiamo a vicenda. Ma, come abbiamo recentemente scoperto, dire “mi sento solo” innesca un effetto domino. Anche gli altri cominciano a dirlo. Cosa fare, allora? Monbiot dice che decidere di combattere la solitudine implicherebbe “ribaltare la nostra visione del mondo.” Un po’ fuori portata. Ma ha ragione quando dice che, di tutte le fantasie umane, l’idea di poter stare da soli è la più assurda e forse la più pericolosa. 

La parlamentare inglese Jo Cox era nota a Westminster per il suo desiderio di formare una coalizione che andasse oltre i confini dei partiti. Seema Kennedy, parlamentare del partito conservatore, concordava. Insieme, avevano organizzato una commissione che si occupasse della solitudine, che doveva partire a fine 2016—un appello per fare qualcosa, invece del solito parla parla politico. Il 16 giugno del 2016, Jo Cox è stata assassinata. Il suo assassino, Thomas Mair, era un terrorista di estrema destra. Un solitario. 

Dopo la sua morte, Kennedy e altri stanno portando avanti i suoi piani. Hanno svelato a tutti il grande lavoro che Cox ci lascia, le ricerche che aveva fatto per raccogliere dati che dimostrassero che la solitudine non è solo una cosa che colpisce i vecchi. I dati, raccolti attraverso 13 associazioni in tutto il Regno Unito, rivelano che più di nove milioni di persone—un quinto della popolazione, quasi—si sentono spesso, o sempre, sole. Due terzi si sentono a disagio ad ammetterlo. Cox sapeva che il suicidio è la prima causa di morte tra gli uomini sotto i 45 anni nel Regno Unito. “Chiamava la solitudine ‘l’epidemia silenziosa’,” dice Rachel Wicks, delle pubbliche relazioni della commissione. “Volevamo che si cominciasse a parlarne,” dice.

La nostra visione del mondo non cambierà da un giorno all’altro. Forse nemmeno nel corso di una generazione. Dobbiamo pensare in piccolo, giorno per giorno. Parlare della nostra solitudine, conoscere il mondo che ci circonda e il modo in cui la solitudine cresce. Smettere di sentirci in imbarazzo e alzare il telefono, contattare le persone che sappiamo ci vogliono bene. Alla base della solitudine c’è quello che Watts chiama “l’elemento chiave che è andato perduto”—ovvero, l’appartenenza a una comunità che si preoccupa per noi. Ricordiamocelo. 

Segui Eleanor su Twitter: @eleanormorgan