I Libertines sono una band la cui storia è sempre stata connotata da autolesionismo e dipendenze—un mondo in cui l’eroina e la vita di strada andavano a braccetto con giacchette stupide, citazioni poetiche e musica di un romanticismo scanzonato. Quando avevo 16 anni avrei seguito Pete Doherty ovunque, a qualunque costo, come un bimbo incantato da un pifferaio magico con la pipetta da crack. Come molti altri fan della band, ho idealizzato il lato bohémien della dipendenza da sostanze. Dopo qualche tempo, però, ho iniziato a vederne il lato deteriorato, soprattutto quello che deteriorava la musica di Pete e co.
Lo scorso settembre, dopo che i Libertines hanno fatto tre concerti reunion all’Alexandra Palace, Pete è partito di sua spontanea volontà alla volta del centro Hope Rehab in Thailandia. C’era già stato un paio di volte, ma questo giro sembra diverso.
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Settimana scorsa, Simon Mott del centro di riabilitazione ha contattato Noisey inviando una cartella di video, foto e interviste tratte dall’ultimo viaggio di Pete. Questi documenti mostrano Pete nella fase di ripiglio spirituale, che lo vede pacifico e pingue come un piccolo Budda, mentre parla della sua relazione con le droghe e degli incidenti in cui è incappato negli scorsi anni, tra cui quella volta che è stato arrestato perché si sospettava che avesse iniettato dell’eroina in un fan inconsapevole.
La visione di queste immagini è abbastanza destabilizzante, a tratti. Cioè, Pete sembra anche rilassato, sembra quasi in salute, ma si vede abbastanza bene che in certe cose deve ancora recuperare. Non sembra aver ancora riflettuto bene sul suo percorso di sobrietà, e questo si nota dalle sue riflessioni un po’ vaghe. Altre volte sembra completamente a suo agio, tipo quando scherza sul Pilates o gioca con le tartarughine. In ogni caso questa foto di lui su un elefante è la vita.
In un’intervista fatta da Dylan Kerr al centro rehab, che stava tra il materiale che ci è arrivato, Doherty dice che spera che il tempo passata a Hope gli porti un po’ di spunti creativi. “Qui è molto tranquillo, quindi non mi va di far tanto rumore. Però diciamo che da quando sto qui ho riscoperto un paio di cose che mi piace fare, e una di quelle è suonare la chitarra e imparare canzoni che un tempo conoscevo a menadito e ribaltavo. Tipo pezzi di Lindisfarne e Stone Roses.”
Oltre a suonare pezzi altrui, Doherty ha anche ricominciato a scrivere roba sua, per la prima volta in un sacco di anni. “Mi sono usciti fuori un po’ di bei riff. Ho alcune linee di basso semplici semplici e sto tentando di convincere una ragazza di queste parti a suonare le percussioni per me. Quando avrò un bel pacchetto di nuove idee le metterò insieme con l’aiuto di Carl, della sua bandana e dei suoi calzoni di pelle. Carl è uno che ha giurato che non avrebbe mai e poi mai indossato un paio di infradito! Anche se lui non le chiama infradito, ma ciabattine.”
Il centro combina un approccio moderno al rehab con un impasto di spiritualismo thailandese. Doherty dice che si è confrontato col buddismo mentre era lì. “Credo ci sia un po’ di differenza tra essere attratti da amuleti, rituali o dall’idea stessa di spiritualità—come penso di essere io—ed essere completamente coinvolti, giorno per giorno, con questioni spirituali, mentre per me è dura smettere di pensare a tutto il resto. C’è questo senso di pienezza mentale, che fa parte, credo, della cultura buddista. Non è una roba che mi piace dire, ma cazzo, lo farò: è la quintessenza dell’essere. Davvero. Si tratta di seguire un flusso di pensiero e di non farsi toccare dai pensieri negativi.”
Anche Simon Mott era un eroinomane. Dopo 20 anni di dipendenza da eroina, si è ripulito in seguito a un’overdose. Mentre stava passando il canonico periodo in rehab, ha pensato che avrebbe dovuto creare un centro, e così è nato il centro Hope. Da quando è nato, questo centro ha aiutato un sacco di persone, e con l’aiuto di Pete Doherty spera di raccogliere fondi per ampliare l’offerta del centro.
Gli abbiamo chiesto di come ha visto Pete.
Quando è arrivato l’ultima volta lì da voi? Quanto ci è rimasto?
Pete è stato da noi dal 10 ottobre al 19 dicembre. Al momento sta in un’altra isola, se ne sta lì tranquillo. È il posto in cui portiamo i nostri pazienti ogni weekend, è molto piccina e ha solo un tempio, non ci sono turisti. Dylan Kerr, il nostro consulente, è lì con lui.
Sembra palese che in questi anni tu e Pete abbiate costruito un’amicizia. Questa volta ti è sembrata diversa dalle altre?
Sì, mi è sembrato che lui fosse più motivato e più predisposto a fare il necessario per prendersi davvero una pausa. Prima di questo, Pete difendeva la sua dipendenza da eroina, in qualche modo la faceva sembrare normale—un procedimento che noi chiamiamo negazione. Pete ha sempre avuto intorno anche gente che aveva timore a dirgli di no. Questa gente adesso è in chissà quali condizioni. Pete a volte è il migliore esempio di ferrea volontà nel voler recuperare, altri giorni invece è terribile, la dipendenza lo sovrasta ed è molto difficile fermarlo.
Personalmente a me Pete piace tantissimo e mi identifico nella sua lotta, lo trovo divertente e carismatico, è un intrattenitore, per natura. Sarò sempre grato a quello che ha fatto per il nostro centro rehab. Non guadagnamo un granché, anche perché come centro di cura privato siamo abbastanza economici, lo facciamo perché è il nostro lavoro e ci aiuta a star lontani dalla droga.
È normale che i vostri pazienti rilascino interviste di questo genere, o il caso di Pete era particolare?
Pete ci ha chiesto un trattamento omaggio in cambio di pubblicità. Ovviamente ho acconsentito e alcune delle sue interviste sono apposta per quello. A volte succede che i clienti diventino anche testimonial di piccole cliniche private come la nostra–facciamo parte di un’industria e abbiamo bisogno di farci pubblicità. In Europa è diverso perché le cliniche di riabilitazione sono perlopiù finanziate dallo Stato.
Quindi dici che le dichiarazioni sono completamente scisse dal percorso di riabilitazione o ne fanno parte?
Sono convinto che le interviste abbiano aiutato Pete a stare meglio. Un passaggio importante è “dallo agli altri per tenerlo con te”, ovvero quando inizi a proiettare la tua volontà di miglioramento anche su altri che sono nelle tue condizioni. Raccontare il proprio processo terapeutico, registrarlo, è d’aiuto per fissarlo mentalmente.
Infatti non è che si vede un documentario del genere tutti i giorni. Pensi che lo abbia effettivamente aiutato?
Be’, il termine “visual recovery” è abbastanza di moda ultimamente. Gente come Russell Brand e altri come lui, che parlano pubblicamente del proprio processo riabilitativo, fanno parte di questo fenomeno. Testimoniare il proprio processo mentre è in atto può aiutare anche altri che tentano di seguire lo stesso percorso, è un beneficio reciproco. Dicono che i segreti, se mantenuti tali, si ingigantiscono, quindi in un certo senso buttarli fuori è terapeutico. C’è anche un elemento di verifica, per così dire, nel rendere pubblici i propri dati, che può aiutare.
Quindi è un po’ come stare negli alcolisti anonimi, solo che non c’è nulla di anonimo.
Esatto, la parte di anonimità era lì per ridurre al minimo la parte di ego nella comunità, non tanto per la privacy, anche se certamente aiuta a proteggersi dall’opinione altrui. Nelle comunità siamo tutti uguali, e solo perché qualcuno è famoso non per questo è meglio di altri. Ecco perché anche noi manteniamo l’anonimato solitamente.
Tu che fai parte di questo ambiente da un po’ di tempo, puoi raccontarci se hai visto miglioramenti del trattamento da parte dello Stato: esistono programmi pubblici o cose del genere?
Abbiamo sicuramente un approccio migliore grazie ai tutor che ci vengono affiancati e ad una nuova prospettiva, per così dire, morale. Il vecchio stile prevedeva che si addossassero colpe e ci fosse sempre un alone di vergogna intorno all’argomento, e questo allontanava la gente dal rehab, anziché avvicinarla. Dare alle persone la possibilità di compiere le proprie scelte affiancando loro gente competente è un metodo che funziona. Certamente però non è facile, è quello che io chiamo “Amore difficile”.
In che senso?
Nel senso che i nostri programmi prevedono comunque un po’ di prove fisiche, tipo al militare. I pazienti si svegliano molto presto, tipo alle sei del mattino—io dico sempre: “svegliati prima che si svegli la tua dipendenza.” Credo che l’esercizio fisico, affiancato a quello mentale, dia risultati fantastici. La terapia fisica è importante tanto quanto quella emotiva e psicologica. Per questo la ginnastica è un elemento centrale della nostra terapia.
È molto duro avere a che fare con pazienti riluttanti?
Ci sono stati un paio di casi che mi hanno messo alla prova, gente che ci ha davvero provato, anche se poi l’abbiamo persa di vista. La recente morte per overdose di Rob Skipper [il cantante degli Holloways] mi ha devastato, personalmente. La cosa terribile è che, proprio quando Rob sembrava aver svoltato nel suo percorso, una sola decisione sbagliata l’ha riportato nel baratro. Non abbiamo avuto alcun potere in questo caso.
Nel suo ultimo giorno qui a Hope abbiamo avuto un colloquio conclusivo. Lui era felicissimo di tornare a casa ripulito e di rivedere sua figlia. Era molto onesto nell’esprimere la sua determinazione nel voler fermare i danni che la dipendenza aveva causato. So che Rob era quasi arrivato all’overdose in passato, per questo era a rischio e gli avevo più volte illustrato tutti i pericoli cui sarebbe andato incontro se ci fosse ricascato.
Purtroppo, però, Rob è stato sovrastato dalla sua dipendenza, e chi gli era vicino lo sapeva, il suo comportamento era quello. Allo stesso tempo era un ragazzo molto dolce, gentile e semplice, oltre ad essere un musicista incredibilmente talentuoso. Proprio come Pete.
Durante la sua permanenza, Pete e Simon hanno messo in piedi la Pete Doherty Hope Initiative, un fondo per finanziare la clinica Hope. Doherty sta anche programmando alcuni show il cui ricavato andrà totalmente a finanziare questa iniziativa, in modo che anche altri possano seguire il suo stesso percorso.
Per maggiori informazioni, andate sul sito: www.hope-rehab-center-thailand.com
Tutte le foto e i video sono ad opera di Liam Thomas