Il pizzolo è la pizza tipica di questo paesino di alta collina, con il suo convento antico, le chiese barocche, le strade in salita e i bar con i vecchietti dove la birra costa ancora cifre ridicole.
Pensate alla Sicilia. Il mare, i tonni, le spiagge, Colapesce che regge l’isola sott’acqua, gli arancini sulla spiaggia. E adesso dimenticate quella Sicilia.
Al mare sostituite la montagna, ai tonni gli ulivi, Colapesce lasciamolo lì che non si sa mai e al posto degli arancini metteteci il pizzolo.
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Due cose ho imparato dalla mia recente permanenza di tre giorni in Sicilia: che non penso esista una regione così tanto diversa da un chilometro all’altro e che non ho idea del perché il pizzolo non sia ancora presente in ogni città del mondo.
Un passo indietro. Niente Palermo, Taormina o Agrigento. Lo scenario è Sortino, i protagonisti la gente del posto e il pizzolo.
Il pizzolo è la pizza tipica di questo paesino di alta collina, con il suo convento antico, le chiese barocche, le strade in salita e i bar con i vecchietti dove la birra costa ancora cifre ridicole.
Si dice, come spesso si dice da queste parti, che la storia del pizzolo risalga ai tempi dell’Antica Grecia: di testimonianze su focacce, pani e grano di quell’epoca ce ne sono a bizzeffe, ma è più di un millennio dopo che questa pizza-non-pizza approda davvero sule tavole di Sortino, nel siracusano.
La forma è quella di una pizza, non ci piove, il pizzolo è tondo.
Il nome sarebbe da ricondursi a pizzolù, una grossa pietra ovale che nella Grecia di Socrate rappresentava l’idea della ciclicità, della vita che si apre e si chiude. Tutto quello che c’è dentro, invece, è ciò che si poteva trovare nelle dispense, nei prodotti di stagione. Quasi fosse una schiacciata, viene cotto e tirato fuori a metà della cottura, aperto, farcito, cosparso di parmigiano, timo e olio d’oliva, che dalle parti dei Monti Iblei è davvero buono e rimesso a cuocere in modo da amalgamare il tutto.
È un piatto della tradizione contadina, così povero che veniva messo insieme con l’impasto che rimaneva dopo aver fatto il pane o la pizza. Un modo incredibile per non buttare via niente.
La giornata era calda per essere quasi autunno e in altitudine. Davanti a questa terrazza del convento di Sortino si stendeva una vallata di alberi fitti che seguivano le linee sinuose della Valle dell’Anapo, culla della necropoli di Pantalica, uno degli esempi più antichi e meglio conservati. C’erano luci, odori, colori, insomma tutto quello che ti fa staccare la testa dal telefono e ti convince che quello è esattamente il posto dove vuoi vivere. Con la gente divertita, cordiale e una varietà tale di sensazioni da farti girare la testa.
Ho scoperto l’esistenza del pizzolo una volta arrivato sul posto, alla corte dell’evento PIZZA!, che ha portato diversi pizzaioli da tutta Italia per parlare di un prodotto che sta facendo una crescita esponenziale pazzesca. Non più prodotto rilegato nelle pizzerie di quartiere, ma sperimentazione nobile di lievito, acqua e grani.
Nella cornice di un chiostro del 1500, con i frati gourmet che mangiavano e criticavano tutto ciò che capitasse da sotto le mani, la giornata si è districata in una discussione sul mondo della pizza sfociata in uno più ampio sul grano. Sulla varietà dei grani antichi e l’importanza di preservarli. Piantare il grano come unione tra il nostro mondo e quello degli immigrati, che sono approdati sulle coste siciliane pregando la gente del posto di piantare dei semi siriani che sarebbero altrimenti andati perduti. Il risultato è stata una spettacolare prova di concerto in cui le spighe sono cresciute in modo tale da lasciare che quelle vicine sopravvivessero. Grande metafora dei nostri tempi.
E alla fine è arrivato lui, il rappresentante della tradizione sortinese. Il pizzolo in tutta la sua gloria.
Bambini tutti ben vestiti hanno cominciato a sfilare tra le sedie, un pochino impacciati, offrendo agli ospiti fette di pizzolo fatto dalle pizzolerie locali. Per dovere di cronaca, c’è da sapere che in Sicilia hanno un piccolo problema con la territorialità: basta spostarsi di dieci metri che sembra non appartenerti nemmeno più il pavimento dove cammini. “Le arance della valle dell’Anapo sono migliori di quelle delle vostre parti”, tuonava una signora nel mezzo di una discussione accesissima e profana sui prodotti del territorio. “Eh sì, infatti tutto viene dalla valle dell’Anapo, Gesù Cristo è nato nella valle dell’Anapo!”, le risponde un signore con un bel taglio di capelli. La verità è che semplicemente da un punto all’altro c’è una varietà completamente diversa di arance.
Questo esempio è in realtà una spolverata leggera di quelle che possono essere le faide tra i “pizzolari”, che non so se si dica ma rende l’idea come si deve. Dopo anni, decenni di astio, una pizzoleria contro l’altra, per la prima volta si sono riuniti tutti insieme per un evento che mostrasse al mondo che quella pizza farcita che fanno loro non solo è buona. La vorreste dietro casa ovunque voi siate.
Il primo pizzolo assaggiato ricordava la ricetta della nfigghiulata, un pane ripiegato su se stesso che spesso ha fichi, erbe aromatiche e salsiccia. Questa volta la farcitura era fatta con finocchietto selvatico, fichi secchi, mandorla pizzuta, guanciale di maiale nero dei Nebrodi e primosale. Il pizzolo non è la cosa più instagrammabile del mondo. Ed essendo abituati ormai ad associare belle foto a sapori fantastici non mi aspettavo una sorpresa del genere.
Ogni singolo elemento si scomponeva e ricomponeva in bocca fresco, forte, delicato e richiamavi il bambino e gli dicevi “Ehi, ne hai un’altra fetta?”.
Pesto di rucola selvatica, riduzione di vino rosso, lardo di maiale nero, mozzarella di bufala e grana ti fa capire che c’è dell’estro in più. Quello con peperoni arrostiti alla brace, tonno fresco di Portopalo, salsa di pomodorino giallo, aglio e olio che si può godere davvero tanto con un morso. E quello con i soli peperoni perché a volte si cerca di rispettare la tradizione.
La cosa veramente incredibile di questa pizza è la sua “anti-tradizionalità” per eccellenza. Sì, esiste da secoli, non ci piove (anche se è tornata in auge dagli anni 80-90, quando i pizzaioli emigrati tornarono in paese). Sì, probabilmente la ricetta è ancora quella di una volta e c’è chi declama a voce alta che “è come lo faceva mia madre e prima di lei mia nonna”. Ma il concetto che sta alla base è che con il pizzolo si può fare quello che si vuole. Hai rape e pomodori? Metticeli. Tonno e finocchietto selvatico? Vai, non ti fermo di certo. E così quello che è, di fatto, il piatto simbolo di un paesino grande una manciata di vie diventa un contenitore potenzialmente di ogni prodotto, ogni verdura, crema, formaggio di qualsiasi territorio d’Italia.
Il formaggio si fonde in cottura, gli altri ingredienti danno nuovi sapori, è davvero difficile sbagliare. C’è chi lo fa con il lievito di birra, chi pensa sia meglio usare quello madre, tutti lo lasciano in lievitazione non più di tre ore. Acqua, farina integrale e lievito.
Lo puoi fare dolce, con pistacchio o crema di nocciole, qualsiasi cosa vi venga in mente può essere fatta.
Alla fine di una giornata davvero lunga il bilancio dei pizzoli che mi sono finiti con enorme gioia dritti nella pancia era di circa sette, tutti di tipologie diverse. Credevo di essere pieno, e invece. E invece ho scoperto che è pure un impasto leggero. Abbastanza, tale da farmi assaggiare anche un’altra pizza, questa volta di Massimiliano Prete (che è il pizzaiolo di fiducia di Cristiano Ronaldo, se lo volete sapere).
Stordito dalle luci della sera, dall’idea che di lì a poco avrei fatto anche una cena mi sono messo a bere una birra Peroni in compagnia di un paio di vecchietti del posto. Poco più avanti c’era uno degli ultimi teatri di pupi Siciliani, dove un personaggio felliniano ci ha raccontato la morte di Orlando con un’intensità tale da farci venire le lacrime. Dietro l’odore di pizza. E quello di miele, che qua se ne fa di buono. Le storie del ragazzo che ne fa caramelle pure. Quella del sindaco che si è battuto per far conoscere il suo paese, mai fermo un secondo solo. Quella dei bambini che si lanciavano su carretti costruiti a mano per le discese. Le strade sbagliate nel buio pesto. Il calore della Sicilia sulla pelle. Le olive.
Nella sola Sortino, i cui abitanti totali non riempirebbero un palazzetto intero, ci sono venti pizzolerie. E mentre me ne stavo seduto lì, con un po’ di vento fresco e le parole di due anziani che si lamentavano dolcemente di qualcosa, ho pensato.
Per quale motivo non c’è un pizzolo in ogni angolo della Terra???
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