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Ha ancora senso parlare di ‘cucina etnica’ per i ristoranti stranieri in Italia?

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Cucina Etnica negli anni è un termine finito irrimediabilmente per creare un ghetto nel quale confinare la maggior parte delle cucine non occidentali

Quando tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta nel mio quartiere aprì un ristorante di cucina cinese, quello divenne ben presto un luogo di riferimento per me e la mia famiglia, soprattutto quando la voglia di preparare qualcosa per cena scarseggiava. Entrare dentro i cancelli del China’s Garden, così si chiamava, era per noi un’esperienza che non solo ci permetteva di assaggiare piatti inusuali, ma che si caratterizzava anche da una certa ritualità – i panni caldi per lavarsi le mani, le bacchette, il Sakè a fine pasto – che spezzava magicamente la familiarità della cucina a cui ero abituata, nonostante mia zia giurasse di aver visto dei pacchi di pasta Barilla in cucina.

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Oggi andare in un ristorante con un’offerta diversa da quella canonica italiana sembra aver perso quell’aura di esperienza stravagante, per lasciare il passo ad una normalità ben più inserita nella nostra quotidianità, nonostante da parte di alcuni ci sia ancora un’ostinata resistenza. Mangiare un kebab, bere un bubble tea o andare ad un all you can eat giapponese ha ormai – sia per chi vive in provincia o nelle grandi città – il sapore di una consuetudine al pari della pizza. Allora perché in Italia ancora si parla di “ristoranti etnici”, e cosa intendiamo con quell’aggettivo?

Alcune cucine troppo spesso vengono bollate come fast e senza troppe pretese, incapaci di assurgere a vette di qualità, nonostante sia ben noto che alcuni piatti “etnici” che siamo abituati a mangiare abbiano delle preparazioni lunghe e complesse

Secondo l’antropologa alimentare Lucia Galasso, autrice del blog Antropologia Alimentare: «il cibo “etnico” non è altro che il patrimonio alimentare e ecologico di un’etnia. Sappiamo che la definizione stessa di “cultura” è molto ricca e il cibo ne è un aspetto fondamentale. Spesso questo termine viene usato per riconoscere un cibo di provenienza “diversa” innestato in un’altra nazione.»

Non diremmo mai che il cibo inglese o francese è etnico perché è parte del nostro bacino culturale. Anche se poi è giusto riflettere sul fatto che le stesse cucine europee tra loro hanno delle differenze stridenti.

Secondo quest’ottica allora anche il cibo italiano può essere riconosciuto come “etnico” anche se è chiaro che questo termine negli anni sia finito irrimediabilmente per creare un ghetto nel quale confinare la maggior parte delle cucine non occidentali.

Da un lato questo ha dato vita a un bias nel giudizio su alcune cucine che troppo spesso vengono bollate come fast e senza troppe pretese, incapaci di assurgere a vette di qualità, nonostante sia ben noto che alcuni piatti “etnici” che siamo abituati a mangiare abbiano delle preparazioni lunghe e complesse. Dall’altro lato, per mitigare la propria diversità rispetto alla cultura dominante, molti ristoratori si sono piegati a proporre dei piatti più vicini al gusto del paese ospitante.

Bisognerebbe lavorare sui termini, è normale che i vocaboli cambino in concomitanza del contesto storico. Il confronto tra cucine è molto stimolante, però non deve mai scadere in appropriazione

«C’è un pregiudizio di fondo. Dobbiamo immaginare un contesto centrale da cui si diramano varie vie, più sei vicino al centro e più le cucine lontane da noi vengono immancabilmente riconosciute come “etniche”. Noi non diremmo mai che il cibo inglese o francese è etnico perché è parte del nostro bacino culturale. Anche se poi è giusto riflettere sul fatto che le stesse cucine europee tra loro hanno delle differenze stridenti, pensiamo ad esempio al cavallo che nei paesi anglosassoni è considerato come un pet, un animale domestico, o alle rane e le lumache. Però in questi casi le differenze si riconducono ad un: “cosa si mangia e cosa non si mangia”, senza parlare di culture alimentari»

Se dunque quello della “cucina etnica” sembra più che altro un termine di comodo atto a semplificare l’alterità culinaria, oggi sembra necessario un ripensamento a favore di termini più inclusivi, ma questa spinta non può venire “dall’alto” e soprattutto deve necessariamente essere accompagnata da una riflessione approfondita anche sull’appropriazione culturale in campo alimentare, argomento ancora tabù nel nostro paese. Come già sottolineato dalla giornalista Margo Schachter su Vanity Fair, pensiamo alle numerose Poké House che si sono diffuse nell’ultimo periodo, quante di queste sono effettivamente di proprietà di ristoratori Hawaiani? Come dice Lucia Galasso, infatti:  «Bisognerebbe lavorare sui termini, è normale che i vocaboli cambino in concomitanza del contesto storico. Inoltre, è interessante notare che alcuni tra i ristoranti “etnici” più quotati sono in realtà di proprietà di bianchi e dunque c’è anche un discorso di colonialismo culinario che andrebbe affrontato. Il confronto tra cucine è molto stimolante, però non deve mai scadere in appropriazione».

Per comprendere ancora meglio come parlare di cucina e ristoranti stranieri, mi è sembrato necessario coinvolgere nel dibattito proprio coloro che lavorano o sono proprietari di ristoranti “etnici”. Attraverso il racconto delle loro esperienze ho capito che tutti convergono sulla necessità di un superamento di questa scomoda etichetta.

Ho notato che qui qualunque cibo non italiano è automaticamente svalutato. Il termine “etnico” è ancora molto popolare, all’estero però l’utilizzo è molto meno diffuso

La prima con cui parlo è la chef Victoire Gouloubi, originaria del Congo, che vive e lavora in Italia da vent’anni: «Ho notato che qui qualunque cibo non italiano è automaticamente svalutato. Il termine “etnico” è ancora molto popolare, all’estero però l’utilizzo è molto meno diffuso. Ad esempio, anche quando ero ragazza e vivevo in Congo, non ho mai sentito un confratello africano che andava, che ne so, in un ristorante ruandese a dire: “vado a mangiare etnico”.

Purtroppo ho come l’impressione che una volta sostituita la parola “etnico” se ne troverà un’altra che sotto sotto sarà sempre un po’ denigratoria.

Se vai a Pretoria, su Mandela Boulevard, ci sono anche ristoranti italiani, e in quel caso il cibo italiano dovrebbe essere definito come “etnico”, ma se dici a qualcuno qui che la sua tradizione enogastronomica può essere definita “etnica” questo si arrabbia. Io sono cresciuta con il riso, il platano e la manioca, gli italiani con la pasta e i ravioli, quindi? Per me questo è etnico!

Ma tutto ciò che è etnico viene bollato come meno caro, approssimativo senza ricerca, ma dietro ogni piatto c’è un passato. Voglio andare a mangiare indiano? Bene, ma devo essere consapevole che sto mangiando una storia. Purtroppo ho come l’impressione che una volta sostituita la parola “etnico” se ne troverà un’altra che sotto sotto sarà sempre un po’ denigratoria.

Dovremmo ricordarci che la cucina è immensa e sono convinta che ci dovrebbe essere una forma di condivisione generale. Io che sono cresciuta in Africa ma vivo in Italia da quasi vent’anni, continuo a scoprire nuove cose della cucina del mio paese d’adozione e quello che propongo con i miei piatti è un métissage capace di creare un connubio interessante.»

Si dovrebbe superare la definizione di “etnico”, riportando tutto all’identità della cucina a favore di una prospettiva più geografica che razziale.

Garip Siyabend Dunen e Claudio Angelilli  hanno aperto una taverna curdo-meticcia a Roma che si chiama Curd Curd Guagliò. Chiedo anche a loro se la definizione di “cucina etnica” è ancora attuale o si dovrebbe passare oltre. Mi dicono: «L’idea della “cucina etnica” è che questa sia legata soprattutto al mondo africano o medio-orientale, e in questa etichetta ci siamo ritrovati perché facciamo cucina curda, meticcia e fusion. Noi però non ci definiamo come “cucina etnica”, sono gli altri che ci definiscono così. La nostra è un’idea di cucina mescolata con altre culture. Secondo me a livello di termini forse si dovrebbe superare la definizione di “etnico”, riportando tutto all’identità della cucina a favore di una prospettiva più geografica che razziale.

Nella cultura popolare ed eurocentrica, l’etnico è qualcosa di “diverso” che viene visto come qualcosa di accettabile solo dentro determinati confini culinari. È qualcosa di esotico, curioso, simpatico, un punto di vista un po’ borghese che in luoghi come Torpignattara, dove si trova il nostro ristorante, è in pratica superato perché qui trovi il coatto romano come il bangladese. Le etichetta ci stanno strette e la cucina come la cultura è in continuo movimento – e questo movimento va tutelato. Se poi ci pensi è anche difficile parlare di “cucina etnica” per tutto il nostro paese. Ad esempio come si fa a parlare di “cucina italiana” come cosa unica? Anche quello è uno stereotipo, in generale è difficile segnare un confine preciso per la cucina. E poi perché ci dovremmo definire come “etnici”, dunque propri di una certa tradizione, quando alcuni degli ingredienti tipici della cucina curda non sono reperibili in Italia o comunque se lo sono hanno dei sapori diversi?»

Per quanto riguarda il tema dell’appropriazione culturale poi mi rendo conto di essere in una posizione difficile, sono italiana e faccio cucina giapponese però prima di tutto ho molto rispetto per la tradizione, ho imparato da loro e non mi sono né creata una cucina da sola né tanto meno mi sono messa a cambiare i piatti.

Micaela Giambaco è la chef patrona di Mikachan, taverna giapponese a Infernetto, Roma. «Sin da piccola ho avuto la passione per la cucina e a 19 anni mi sono trasferita in Giappone e lì ho frequentato dei corsi di cucina. Ma io, vivendo la cucina come una forma di cultura, ho cercato sempre di capire e studiare il perché e il come si utilizzavano certi ingredienti.

Il termine “etnico”, soprattutto in Italia, viene spesso attribuito alla cucina mediorientale, mentre invece per me con “etnico” si intende quella tradizione enogastronomica propria di un paese e di una cultura, con gli alimenti che rappresentano quel determinato paese. Per questo mi piace lavorare con ingredienti giapponesi per poter rappresentare il paese a cui faccio riferimento. In questo senso la mia è cucina “etnica” in quanto è identitaria, anche se sono onesta, il mio ristorante non è mai stato definito così.

Per quanto riguarda il tema dell’appropriazione culturale poi mi rendo conto di essere in una posizione difficile, sono italiana e faccio cucina giapponese però prima di tutto ho molto rispetto per la tradizione, ho imparato da loro e non mi sono né creata una cucina da sola né tanto meno mi sono messa a cambiare i piatti. Oltretutto li rappresento parlando del Giappone, ma io cerco di rispettarla, omaggiarla, facendo anche divulgazione. Poi siamo tanti, ad esempio conosco chef giapponesi che fanno cucina fusion, personalmente credo che ci sia uno spazio per tutti.»

Alla luce di queste riflessioni mi sembra che il termine “etnico” sia stato nei fatti superato e che l’auspicato “cambiamento dal basso” sia avvenuto e ormai digerito da buona parte dei consumatori. Difficilmente mi immagino un* ragazz* della gen Z o un* millennial definire un piatto di ravioli cinesi come “etnico”, l’uso di questo termine problematico sembra più appannaggio delle vecchie generazioni (si, mi riferisco ai boomer). Certo, l’approccio esotico e modaiolo a molta della tradizione culinaria straniera, non ancora diventata mainstream, è ancora presente, e forse è utopico pensare che verrà del tutto sorpassato. Però è innegabile che si sono fatti dei passi avanti, anche grazie alla multiculturalità della nostra società.

Chi è ancora indietro su questo fronte sono chiaramente i settori più alti del sistema enogastronomico che ancora faticano a riconoscere meriti a chef o ristoranti non appartenenti a tradizioni culinarie non occidentali.

È chiaro, però, che il  momento che stiamo vivendo sta spingendo sull’acceleratore del cambiamento, rendendo ancora più evidente la stagnazione che ha pervaso alcuni ambiti della società. Oggi è il tempo dei ripensamenti e il mondo della gastronomia non può rimanere indietro, è arrivato il tempo di creare un sistema più inclusivo capace di valorizzare la diversità senza creare nuovi confinamenti culinari.

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