La storia segreta della Guerra in Vietnam

Se pensavate di sapere tutto quello che c’è da sapere sulla guerra in Vietnam, vi sbagliavate. Per esempio: avete mai sentito parlare della “Regola del Muso Giallo,” un codice di condotta che i militari statunitensi utilizzavano per rendere più semplice assassinare i civili vietnamiti senza sentirsi troppo in colpa? (“Stai uccidendo solo un muso giallo!”)

Be’, poche persone conoscevano questa porzione di storia, almeno fino a che Nick Turse non ha scovato degli archivi militari segreti e li ha usati come fonti per il suo nuovo libro, Kill Everything That Moves: The Real American War in Vietnam. Il libro si basa sulla scoperta da parte di Turse di alcune indagini militari interne sulle atrocità perpetrate dagli americani, avviate grazie a numerose segnalazioni fatte sia in Vietnam che dai veterani, e ci ricorda che il fattore più significativo della guerra in Vietnam resta anche il più ignorato: l’enorme e devastante sofferenza che hanno subito i civili vietnamiti.

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Ci siamo incontrati per parlare della continua rilevanza del Vietnam, dei massacri e della quantità di materiali riservati che ha fotocopiato di nascosto.

VICE: Il tuo libro affronta il tema della guerra in Vietnam dal punto di vista del combattimento intrapreso sistematicamente contro la popolazione civile. In cosa si differenzia questo tuo resoconto rispetto alla guerra in Vietnam così come è conosciuta dagli americani? 
Nick Turse: Abbiamo 30.000 libri sulla guerra in Vietnam e la maggior parte di essi affronta l’esperienza americana. Si focalizzano sui soldati americani, sulle strategie, le tattiche, i generali o la diplomazia. Ma nessuno cerca veramente di raccontare la storia completa di questo conflitto, ovvero la sofferenza dei civili in Vietnam. Milioni di vietnamiti sono stati uccisi, feriti o sfollati per via delle strategie USA, fatte di bombardamenti e attacchi senza sosta in vaste aree di campagna. Ogni discussione sulla sofferenza della popolazione civile in Vietnam è stata condensata in una o due pagine, incentrate sul massacro di My Lai.

Inizialmente il tuo libro non doveva affrontare questo aspetto. Dimmi del Vietnam War Crimes Working Group e dei documenti che hai trovato. 
Lavoravo a un progetto sul disturbo post traumatico da stress tra i veterani americani del Vietnam. Ho consultato gli archivi nazionali in cerca di qualche dato importante, per verificare i resoconti forniti dai veterani sulla loro esperienza durante la guerra. Dopo due settimane non avevo ancora trovato niente che fosse d’aiuto alle mie ricerche. Sono andato da un archivista con cui avevo lavorato e gli ho detto che non potevo tornare dal mio superiore a mani vuote. Ci ha pensato un po’. Mi ha chiesto, “Pensi che assistere a crimini di guerra possa causare disturbi post traumatici da stress?” Mi sembrava una buona ipotesi, e gli ho chiesto cosa avesse per me.

Nel giro di un’ora mi sono ritrovato a scavare in uno scatolone—in realtà erano più scatoloni—, fra resoconti di massacri, stupri, torture, assalti e mutilazioni. Erano documenti messi insieme dal Vietnam War Crimes Working Group, istituito dall’ufficio del Capo di Stato Maggiore dell’esercito in seguito al massacro di My Lai per tracciare ogni caso di crimine di guerra o di accusa e assicurarsi che l’esercito non fosse colto nuovamente in castagna. E ogni volta che era possibile queste accuse venivano zittite.


Quindi il War Crimes Working Group non è stato creato per prevenire o punire le atrocità e i crimini di guerra?
Esatto. Non c’era volontà di punire i trasgressori o allontanarli. Non faceva nulla per prevenire i crimini di guerra. Operava sotto l’ufficio del generale [William] Westmoreland. Westmoreland era stato comandante in capo in Vietnam, quindi aveva un legittimo interesse nella guerra e in come questa veniva dipinta. Hanno semplicemente preso nota dei fatti così che potessero trasmetterli al Segretario della Difesa e alla Casa Bianca, perché fossero a conoscenza dei possibili scandali all’orizzonte.

Hanno raccolto un’enorme quantità di documenti. Dopo averli trovati, ho scritto la mia tesi e dopo averla discussa, sono partito per il Vietnam.

Cosa hai scoperto, una volta lì?
Trovare testimoni e sopravvissuti è stato molto più semplice di quanto mi aspettassi. I vietnamiti sono molto legati alla loro terra, perfino coloro che erano stati costretti a spostarsi dalla campagna alle baraccopoli, alle topaie e ai campi di rifugiati, dopo la guerra sono tornati nei loro paesini natali, e vivevano ancora lì quando sono arrivato io. Ma questo ha trasformato completamente il mio progetto: ero andato lì per parlare con i vietnamiti dei singoli episodi di violenza rinvenuti nei resoconti, ma ciò di cui volevano parlarmi loro erano quei quasi dieci anni di vita fra bombe, granate e spari degli elicotteri.

Quello che mi hanno raccontato nelle campagne era più di quanto potessi comprendere, qualcosa che non avrei mai potuto avere dai resoconti. Mi dicevano cosa significasse sperimentare e sopravvivere all’esistenza in una zona di guerra, vedere la propria casa in fiamme cinque, sei, sette volte… e alla fine arrendersi e smettere di ricostruire per finire a vivere una vita sotterranea nei rifugi antiaerei. E capire quale fosse il modo migliore per uscire dal rifugio per prendere un po’ di acqua e cibo, e cercare sollievo. Dovevi aspettare la fine degli spari, ma non potevi uscire troppo presto perché rischiavi di essere attaccato da un elicottero che sorvolava la zona. Dovevi assicurarti di non finire nel fuoco incrociato tra guerriglieri e americani. Ma non potevi nemmeno restare nel rifugio troppo a lungo, perché gli americani arrivavano e buttavano granate. C’era tutta una serie di decisioni da prendere e non era solo la tua vita quella che dovevi difendere, ma forse anche quella di tutta la tua famiglia. 

Il tuo relatore ti ha consigliato di fotocopiare questi archivi in fretta, prima che sparissero?
Non riuscivo a togliermi dalla testa quei documenti, quindi sono stato da un paio di storici della guerra in Vietnam che conoscevo per convincerli a interessarsi al progetto. Dicevo, “Dovreste seriamente andare nell’archivio nazionale e lavorare su questo materiale.” A quel punto tutti avevano esaurito l’interesse per la guerra e stavano lavorando ad altri progetti. Uno di loro mi ha suggerito di proseguirlo per conto mio. Sono andato dal mio relatore alla Columbia, David Rosner, e gli ho detto, “Pensa che potrei scrivere un libro e la mia tesi, contemporaneamente?” Stavo già scrivendo un’altra tesi di 200 pagine. Mi ha risposto che ero fuori di testa. Ma se i documenti erano importanti, allora sarei dovuto andare all’archivio nazionale e ottenerli.

Ero solo un neolaureato all’epoca, non avevo i soldi per cimentarmi in una simile impresa. Gli ho detto, “Devo ottenere una borsa di studio e ci vorranno mesi prima che ci arrivi.” E lui ha tirato fuori il suo libretto degli assegni e me ne ha firmato uno, dicendo, “Vai lì e prendi quei documenti.”

Nel giro di 24 ore ero negli archivi. Sono entrato di prima mattina e ho fotocopiato finché non mi hanno buttato fuori la sera tardi. Ho messo ogni centesimo che mi ha dato dentro la fotocopiatrice. 

Ho sempre creduto fosse un po’ paranoico. Non pensavo che fosse necessario fotocopiare tutti quei documenti. Ma si è rivelata una mossa intelligente, perché poco tempo dopo che avevo scritto la mia prima pubblicazione, i file sono spariti dagli scaffali dell’archivio e rimossi dalle consultazioni al pubblico. Ora devi compilare delle richieste specifiche.

Il tuo libro descrive, penso che tu la chiami così, “una sofferenza a livello quasi inimmaginabile.” Fai riferimento a una stima di 3.8 milioni di vittime, principalmente cittadini vietnamiti. Cosa ha trasformato tanti giovani americani in mostri?
È una domanda difficile. Sono andato a intervistare oltre 100 veterani e ho letto le testimonianze sotto giuramento di molti altri. Non so se ho una risposta soddisfacente. Ho parlato con un veterano, mi ha raccontato della guerra. Siamo stati al telefono per diverse ore. È molto gioviale. Ha una risata contagiosa.

Ma poi si è acquietato e mi ha detto che voleva raccontarmi la storia di un membro della sua unità. E mi ha detto di come andavano nei villaggi e li bruciavano fino alle fondamenta, una procedura standard. Nel bel mezzo di ciò, una donna si è aggrappata alla manica di questo soldato, urlandogli contro. Era arrabbiata, triste e spaventata. E lui mi ha raccontato che questo soldato l’ha spinta via, ha preso il suo fucile e l’ha colpita sul naso col manico. Lei urlava. E il soldato si è semplicemente girato e se n’è andato, ridendo. Poi ha interrotto per un attimo il racconto, e mi ha rivelato, “Sai che quel soldato ero io?” Ha passato giornate tremende cercando di capire come avesse potuto farlo. Dopo tutti questi anni. Quella volta non ci aveva riflettuto, e negli anni successivi non ha potuto fare a meno di pensarci costantemente. E io ho avuto lo stesso problema, cercando di accoppiare la persona con cui stavo parlando con quel diciannovenne.

Mi ha raccontato che l’addestramento che avevano fatto disumanizzava i vietnamiti al punto che non li consideravano più nemmeno persone. Pensavano a loro come a dei­… avevano molte parole per descriverli: merdine, occhi a mandorla, musi gialli. Il motto era “Uccidi, uccidi, uccidi.” 

C’era perfino una “Regola del Muso Giallo”?
Ci si basava sull’idea era che i vietnamiti non fossero persone vere, ma semplici musi gialli che potevano essere malmenati o anche uccisi per volere dei soldati. Veniva inculcata alle truppe fin dal primo giorno di addestramento. Ho parlato con un sacco di veterani che mi hanno raccontato che non appena arrivavano al campo d’addestramento, gli veniva vietato di chiamarli vietnamiti. Li chiamavano musi gialli o occhi a mandorla. Tutto per renderne più facile l’uccisione.

Gli veniva detto che tutti i vietnamiti erano probabili nemici. Che i bambini potevano nascondere granate, le donne erano le mogli o le fidanzate dei guerriglieri e che probabilmente stavano disseminando trappole nascoste.

E anche se c’erano dei regolamenti scritti su carta che ci si impegnava a seguire, o piccoli avvisi che dicevano di trattare i vietnamiti in maniera equa, il messaggio che trasmettevano nella realtà diceva che era molto più sicuro sparargli immediatamente.

Come si è arrivati a queste atrocità?
La guerra in Vietnam è stata combattuta usando una strategia di logoramento. Non era come la prima guerra mondiale, in cui gli eserciti si sfidavano su un campo di battaglia ben definito. Era una lotta di guerriglia, in cui i rivoluzionari vietnamiti erano in stato di inferiorità. Non erano sullo stesso piano degli americani. E gli americani non cercavano di conquistare il territorio o conquistare il capitale nemico.

Cercavano un modo per misurare la vittoria che stavano conquistando. Hanno optato per la strategia di logoramento, utilizzata durante le seconda metà della guerra di Corea. L’unica unità di misura era il numero dei corpi. Ti facevi strada verso la vittoria uccidendo e ammassando i cadaveri dei vietnamiti. L’idea era che, una volta raggiunto lo scopo, il nemico si sarebbe arreso.

Perché vedevano la guerra come uno sforzo razionale, come faceva il Pentagono: era una questione di bilancio. Non la pensavano allo stesso modo dei vietnamiti, loro la vedevano come una lotta rivoluzionaria. I vietnamiti la consideravano una continuazione della loro battaglia contro i colonizzatori francesi.

Le truppe volevano più corpi. I comandanti li pressavano. Ti veniva richiesto di produrre cadaveri vietnamiti e se non lo facevi, finivi per restare più a lungo sul campo. Imparavano presto che al comando non interessava quali cadaveri riportassi, andava bene qualsiasi vietnamita. Questo spingeva le truppe americane a riconoscere qualsiasi vietnamita come nemico, e anche a uccidere ogni detenuto e civile.

Hai scritto di alcuni comandanti in particolare, come il luogotenente generale Julian Ewell, che supervisionava le atrocità.
Ewell è uno dei comandanti più conosciuti della guerra in Vietnam. Era ossessionato dalla conta dei corpi in un mondo militare in cui il numero dei cadaveri era tutto. Anche nell’ambiente militare era conosciuto come il Macellaio del Delta.

Quello che faceva Ewell era scatenare potenti scariche di fuoco sul delta del Mekonga, il cuore della produzione di riso del Vietnam e la zona maggiormente popolata. I suoi subordinati, i colonnelli e il suo commando erano costantemente assillati dalla conta dei corpi. La ruchiedeva esplicitamente, e se non producevi cadaveri venivi licenziato e qualcun altro prendeva il tuo posto finché lui non era contento.

Newsweek


Il loro report è stato stroncato brutalmente dal Newsweek e la storia non è mai stata pubblicata nel modo in cui avrebbe dovuto. Non lo sapevano, ma fra i militari c’era un informatore che aveva fatto sapere al Capo di Stato Maggiore quello che stava accadendo sul delta. E l’altra cosa che non sapevano era che i militari avevano condotto le proprie indagini, perché temevano che lo scandalo Speedy Express che il Newsweek avrebbe fatto esplodere sarebbe diventato più grosso di quello del massacro di My Lai. L’ho trovato negli archivi nazionali. È rimasto sepolto lì per decenni. La stima dei militari mostra che il Newsweek ha sottovalutato l’estensione del danno. I militari stimano che almeno 7.000 dei morti erano civili. Quindi 7.000 su 11.000. Una devastante conclusione rimasta all’oscuro di tutti per decenni.


Ewell è stato punito, dato che anche i militari hanno scoperto queste atrocità?
No, anzi. Dopo la Speedy Express, Ewell è stato accolto come un eroe. È stato promosso al II Field Force Vietnam, il più grande commando al mondo dell’epoca. E poi è stato promosso ancora, come addetto alla Conferenza della Pace di Parigi. Probabilmente è l’ultimo che dovrebbe partecipare ad una conferenza sulla pace, ma è stato mandato perché ciò che ha fatto in Vietnam è considerato un successo.

Westmoreland e gli altri ufficiali conoscevano i crimini di Ewell. E invece di punirlo o limitarlo, lo hanno promosso?
Esattamente. Westmoreland aveva ricevuto una lettera da un soldato che aveva prestato servizio nella divisione e aveva visto direttamente ciò che stava succedendo. E ha semplicemente messo da parte la lettera. E questo informatore ha scritto altre lettere a tutti i più alti comandanti, alla fine sembrava che i militari avrebbero istituito un’indagine completa, o almeno una piuttosto grossa. Hanno cercato di rintracciare l’informatore, e qui la pista si ferma. Si può vedere che l’hanno identificato, che si sarebbero sforzati di farlo parlare e poi, poco dopo, l’indagine si blocca. Tutte le successive indagini sulla Speedy Express sono state soppresse e nessuna è mai stata resa pubblica. Tutto è svanito nel nulla

La roba che aveva in mano il Newsweek era da Pulitzer o da indagini del Congresso. 

Perché gli editori l’hanno soppresso?
Hanno continuato a respingerlo. Ho letto gli scambi che ci sono stati fra Newsweek e Buckley. Dicevano che l’esercito e la Casa Bianca avevano dovuto sopportare tanto con lo scandalo di My Lai e non se la sentivano di rimetterli in quella situazione.


Poverini.
Già. Quindi quello che doveva essere un articolo di 5.000 parole, un pezzo davvero devastante, è stato stroncato, riducendosi a 1.800 parole. E il nome di Julian Ewell non compare nemmeno una volta.

Hai scritto di molti fallimenti del giornalismo durante la guerra. Seymour Hersh non è quasi riuscito a trovare un editore per la sua indagine su My Lai.
Sì, Hersh ha portato la storia a Look, a Life e altri. Nessuno era interessato. Qualcuno di loro aveva perfino già sentito parlare della storia dalla talpa che aveva fatto partire l’intera indagine su My Lai, Ron Ridenhour. Alla fine l’ha portato da Dispatch News Service, che era un nuovissimo servizio di notizie anti-guerra. Sono riusciti a pubblicarlo sui media tradizionali, ma solo su giornali di secondo livello. Ed è successo solo dopo che il fatto divenne pubblico e alcune foto di My Lai erano già state diffuse; solo allora la storia ha iniziato veramente ad attirare l’interesse pubblico.

Ho sempre pensato fosse molto significativo che, nel momento in cui il massacro di My Lai è avvenuto, ci fossero fra i 500 e i 700 reporter in Vietnam. Sono state ritrovate solo una manciata di armi, ma nessuno si è preoccupato di fare domande. In pratica il comunicato stampa dell’esercito è stato preso e copiato sulle pagine dei giornali. Si è dovuto aspettare che un reporter tornasse negli USA per raccontare tutta la storia. 

My Lai è diventato l’episodio di atrocità che simboleggia il male della guerra. Com’è successo e cosa ha a che fare con l’idea che abbiamo del Vietnam?
Dà davvero un’impressione fasulla della guerra. Molti storici prendono spunto da My Lai per discutere delle morti e delle sofferenze della popolazione civile in Vietnam. Due cose appaiono atipiche: uno, 500 civili uccisi in un periodo di quattro ore è anomalo. Ma My Lai è un’anomalia anche perché è stato l’unico crimine di guerra che ha subito una completa indagine. Ha rappresentato per molto tempo ciò che succedeva in Vietnam. E dopo quello, quando altre storie sulle atrocità venivano alla luce, molti editori le vedevano come roba vecchia. Abbiamo già sentito di My Lai. Lo sappiamo. La gente non era più interessata all’argomento.
 

Sembra un grosso fallimento sia per i reporter che per gli accademici. Come hai scritto, è passata dall’essere considerata “propaganda e stravaganza di sinistra” a “conoscenza comune e non rilevante”.
La penso esattamente così. C’è stato solo un piccolo spiraglio di opportunità, forse nel 1971, quando sembrava che il problema dei crimini di guerra e dei vietnamiti stesse iniziando a smuovere l’opinione pubblica. I militari facevano fatica a tenere sotto controllo la cosa. Ma con la guerra che proseguiva, il Vietnam è passato in seconda pagina. Non dominava più le notizie. La stampa cominciò a spostare la propria attenzione e molta gente desiderava non sentir più parlare della guerra. Ovviamente anche i militari lo volevano, quindi hanno cercato di fare del loro meglio per sopprimere le storie come potevano.


Scrivi che il sostegno dei civili al Fronte di Liberazione Nazionale li aveva resi dei bersagli legittimi per gli USA.
Molti dei luoghi di cui parlo nel mio libro era considerati dagli USA come “zone fortemente rivoluzionarie” per il sostegno dato ai rivoluzionari nazionalisti. Loro e i loro alleati a Saigon non sono mai stati in grado di vincere sulla popolazione, in quelle campagne. Il governo che aveva dominato quelle zone per anni, che aveva rappresentato le persone, che aveva fornito i servizi: questo era il governo rivoluzionario. Erano inestricabilmente legati alla popolazione. Quindi non potevano vincere lì, né potevano spezzare quel legame. Tutto ciò che gli americani avevano erano le armi. Hanno cercato di guidare la popolazione fuori dalle campagne, nei campi per rifugiati. Quando la gente si faceva portare in questi campi, molti non avevano una casa adeguata, non c’era acqua potabile, non c’era cibo a sufficienza. E allora tornavano nelle loro campagne. Era più facile giocarsi la propria chance sfidando il fuoco nemico che cercando di adattarsi alla vita in uno di quei posti.

Vigeva un’esplicita campagna per rompere questo legame che i vietnamiti avevano con le loro terre. Citi un articolo di Samuel Huntington del 1968 che afferma che, “forzare l’urbanizzazione e la modernizzazione” fosse una cosa positiva.
Questo era uno dei modi per rompere il legame fra i vietnamiti e i guerriglieri, spostandoli fisicamente da un luogo a un altro. Ma la popolazione era molto legata alla propria terra, alle coltivazioni di riso. Quello era il luogo in cui i loro antenati erano stati sepolti. Ed è molto importante per i vietnamiti venerare gli antenati. L’unica cosa che avevano a disposizione era la loro forza distruttiva.


Hai scritto che le truppe statunitensi smembravano i corpi dei vietnamiti. Come mai è diventata una pratica tanto comune?
C’erano diversi fattori in gioco. Il modo per provare la conta era consegnare un orecchio. In certe unità questa era la pratica. C’erano incentivi legati alla conta dei corpi, come vacanze in resort sulla spiaggia o birra in più e medaglie.

In altri casi, le truppe avevano questa credenza che, nella spiritualità vietnamita, se un corpo non è intatto non può andare nell’aldilà. Molti americani lo chiamavano il “paradiso di Buddha.” Credevano che smembrare i vietnamiti sarebbe stata una sorta di guerra psicologica. Lasciavano una “carta della morte,” o un asso di picche o un volantino creato appositamente per l’occasione, con il nome dell’unità e una sorta di lugubre motto scritto sopra.

C’era anche uno scambio attivo di parti del corpo. Le orecchie venivano indossate come collane, una sola o molte legate insieme. Alcuni le indossavano per mostrare i propri progressi sul campo di battaglia. Un’unità tagliava le teste dei nemici e chiunque ne portasse una al comandante otteneva una razione di birra in più. C’è stato un caso in cui un sergente ha decapitato un nemico e poi gli ha bollito la testa per staccare la carne e scambiare il cranio con una radio.

Anche lo stupro era un’arma e moltissime donne vietnamite, bambine incluse, sono state costrette a prostituirsi. 
Erano obbligate ad alimentare la macchina da guerra degli USA in un modo o in un altro, e uno dei più frequenti era la prostituzione. Molte ragazze che erano state obbligate a farlo avevano visto i loro villaggi bruciare e si erano dovute trasferire nelle città. Era un modo per guadagnare qualcosa per le famiglie. Gli americani avevano molti soldi da spendere ed erano ragazzi giovani, di 18, 19, 20 anni.

Quello che ho scoperto è estremamente inquietante. Diverse volte non riuscivo a trovare le parole per descrivere esattamente quello che avevo trovato nei documenti, perché stupro o perfino stupro di gruppo non sembravano rappresentare quel livello di sadismo. Si tratta di stupri di gruppo estremamente violenti, o di violenze sessuali su donne tramite oggetti inanimati come bottiglie o fucili.

Hai scritto di un arcipelago di prigioni americane e sudvietnamite che non solo praticavano la tortura, ma addirittura chiudevano i prigionieri in “gabbie per tigri,” piccole celle sotterranee e senza finestre, dove i prigionieri venivano ammanettati al pavimento. Le guardie tiravano polvere di calce sui detenuti come punizione.
La più famosa era la prigione di Con Son, che era situata su un’isola. C’erano uomini e donne rimasti lì per anni senza essere mai stati nemmeno accusati. E queste erano persone che protestavano contro il governo e protestavano per la pace. Erano stati mandati a Con Son come prigionieri politici e incatenati in queste minuscole celle costruite dai francesi nel XIX secolo. Per anni sono girate voci su come andassero le cose a Con Son, e, solo negli anni Settanta, un operatore umanitario diventato poi attivista è riuscito a far entrare un paio di membri del Congresso americano nella prigione per mostrare loro quali fossero le condizioni di vita.

Quando alcuni dei prigionieri rinchiusi nelle celle più piccole sono stati rilasciati, e un reportage del Time scrisse che “non puoi nemmeno più chiamarli uomini.” Raccontavano che si muovevano come granchi. C’è anche un video. È successo anche a delle donne. Gli arti inferiori erano rimasti paralizzati per via della posizione china in cui erano costrette. Non possono più alzarsi in piedi e devono strisciare in maniera molto innaturale.

E gli USA erano al corrente?
C’erano dei consulenti americani all’interno del sistema carcerario. Con Son era il più famoso, ma c’erano altri 500 centri di detenzione sudvietnamiti nel Paese, molti costruiti e pagati dagli americani. Gli USA operavano tramite il loro sistema carcerario, c’erano delle unità di intelligence militari che trattenevano i prigionieri per vari periodi di tempo prima di mandarli nelle strutture americane o sudvietnamite. E molti di loro sono finiti nelle strutture restrittive.

Torture ed esecuzioni sbrigative erano comuni anche nelle strutture gestite dagli americani.
Gli aneddoti e le poche indagini mostrano che la tortura era diffusa. Cose come l’elettrocuzione e la tortura con l’acqua, conosciuta oggi col termine waterboarding. E pestaggi di routine.

Il waterboarding è stato al centro della controversia sul trattamento dei detenuti nell’odierna guerra al terrorismo. Ci sono altri paralleli nel tuo libro? Gli USA intraprendono la guerra in maniera diversa da come hanno fatto in Vietnam?
Ho studiato le guerre contemporanee con attenzione e devo dire che la quantità di morti fra i civili uccisi dalle forze americane non è niente in confronto alla carneficina del Vietnam. Penso soprattutto al modo in cui l’artiglieria e la potenza aerea vengono usate, in maniera radicalmente diversa. Detto questo, i civili muoiono ancora regolarmente nelle zone di guerra, in Iraq o in Afghanistan. Molti di loro per colpa delle violenze in risposta alle occupazioni americane e dei conflitti che ne conseguono. Poi ovviamente ci sono le vittime dirette dei bombardamenti americani e delle truppe sul posto. E ancora più feriti, e ancora più rifugiati. Temo che, se la storia ci insegna qualcosa, ci potranno volere decenni prima che qualcuno sia capace di riassumere le vere storie di queste guerre, per non parlare di quei conflitti semiclandestini in Pakistan e Yemen. Quindi, anche se non credo siano al livello del Vietnam, penso rimanga da verificare il numero delle vittime sacrificate in queste guerre.

L’intervista è stata editata e condensata.


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