Ellen Willis, storica critica musicale del New Yorker.
Se non avete grosse fette di salame sopra agli occhi, vi sarete accorti che nel 2016, in Italia, parlare di eguaglianza dei sessi è ancora in qualche modo utopico. Sarà perché i nostri politici non aiutano a decostruire un modello ancora fortemente patriarcale, quello per cui la famiglia è padre-madre-figlio? O perché si permette a istituzioni laiche o religiose di intervenire quando a una donna viene in mente di abortire, mentre l’idea che possa scegliere di “affittare” il proprio utero—di cui secondo i motti femministi sessantottini dovrebbe detenere l’assoluta proprietà—è considerata abominevole, uno sfruttamento, da chi probabilmente un utero nemmeno ha mai sognato di possederlo?
Che lo vogliamo o no, viviamo in una società in cui è impensabile proporre modelli di sessualità e identità di genere alternativi, per cui non solo alcuni faticano a non rimarcare in maniera più o meno plateale la differenza tra uomo e donna, ma resistono, nonostante l’apparente evoluzione della coscienza comune, ancora stereotipi e comportamenti sessisti di cui fatichiamo a liberarci.
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La musica è uno di quei territori in cui è permesso, sin da tempi non sospetti, promuovere una concezione di sessualità fluida e un abbattimento delle barriere tra generi. Se pensiamo alla figura aliena e androgina di Bowie e ai suoi mille volti che da soli bastano a riassumere cinquant’anni di lotta contro etichette e logiche patriarcali, ci rendiamo conto della potenza di questo mezzo nella rivoluzione dei costumi. Tuttavia, soprattutto negli ultimi tempi, chi ha seguito i media musicali si sarà accorto di come la discussione intorno al sessismo in musica sia tutt’altro che archiviata: ultimo cronologicamente il caso di Ke$ha costretta a lavorare con il produttore che a quanto pare la vessava, per non parlare delle accuse di violenza nei confronti di Michael Gira. Ma senza arrivare alle persecuzioni sessuali tout court, casi come quello di Kozelek che chiama “puttana” la giornalista che l’ha intervistato dichiarando dal palco che lei voleva solo scoparlo e consigliandole di “mettersi in fila” o, banalmente, la questione di genere nell’industria musicale ci costringe a porci domande che nemmeno vorremmo più avere l’imbarazzo di farci. Personalmente, non mi sono mai sentita particolarmente disturbata dalla questione, in primis perché onestamente nella piccola redazione di Noisey io e Sonia Garcia siamo i maschi alfa, e in secondo luogo perché ogni volta che naso, anche solo da lontano, un atteggiamento pseudo-sessista sono in grado di contestualizzarlo e lasciarmelo scivolare addosso—salvo alcuni casi in cui mi piace contrastarlo con considerazioni altrettanto stereotipiche come quella che chi ne è responsabile molto spesso è proprietario di un cazzo molto piccolo, metaforicamente o meno. In ogni caso, esiste ancora una discussione più o meno fondata sull’argomento, e finché esiste è bene poterla affrontare di petto. In passato su queste pagine abbiamo trattato l’argomento parlando con alcune delle ragazze che fanno musica elettronica in Italia, ma siccome la questione rimane aperta, e in molti lamentano che siano ancora poche le firme femminili all’interno della critica musicale nostrana, abbiamo pensato di riaprire la parentesi chiedendo direttamente ad alcune signorine che lavorano nei media musicali del nostro Paese in che modo percepiscono questa problematica.
Nur Al Habash – Dirige Rockit e collabora con altre pubblicazioni musicali.
“Perché la musica tendenzialmente interessa più agli uomini che alle donne?”
Da donna che lavora nell’industria musicale è una domanda che negli anni mi sono posta spesso. E alla fine ho capito tre cose: la prima è che non è poi così vero. La musica alle donne interessa quanto agli uomini, quello che non interessa è stare pomeriggi interi a commentare su Facebook o sui forum i suoni di una produzione, o il 7.4 che Pitchfork ha dato all’ultimo disco del tale gruppo, e così via. Insomma, non hanno interesse a sfoggiare gusti e conoscenze per competere con gli altri: per le donne la musica è tendenzialmente una cosa personale e votata al puro godimento (dopotutto, la nostra vita non è già abbastanza piena di discussioni?).
Detto questo, un fondo di verità ovviamente c’è: è innegabile che se si prendono in considerazione i vari campi in cui una donna può occuparsi di musica (sul palco, dietro una consolle, come organizzatrice di eventi, giornalista etc.) li si vedrà sempre pieni di uomini. Da qui viene la seconda cosa che ho capito, ovvero che molto banalmente c’entrano gli stereotipi, difficilissimi da individuare e superare anche nel 2016. La nostra cultura considera per qualche motivo (complesso, e che non è il caso di approfondire qui) la musica come una delle migliaia di attività “da uomini”. Per questo le donne nel nostro Paese sono sempre state relegate al ruolo di performer ed entertainer, e molte cantautrici e musiciste che negli anni hanno portato avanti una ricerca in Italia sono spesso rimaste nell’oblio: del resto lo stesso succede da secoli nei campi più disparati, qui come all’estero. Un pattern che involontariamente si ripete, con il ragazzino che sceglierà di imparare a suonare la chitarra elettrica o la batteria, e la ragazzina che prenderà lezioni di canto e ballo, perché in fondo è una questione di esempi: quello che vedi intorno a te, specialmente da piccolo, ti sembra sia il modo in cui le cose devono andare, e ti ci adegui. Per questo è importantissimo che ci siano degli esempi che mostrino alle ragazze che si può fare, che si può essere batteriste, organizzatrici di festival, giornaliste musicali ed essere brave, apprezzate e rispettate quanto e più degli uomini (lo si farà per esempio il prossimo 8 marzo a Londra, con il primo “Girls Music Day”).
La terza cosa che ho capito, anche questa piuttosto semplice ed evidente—eppure da molti contestata—è che in questo discorso c’entra il sessismo: spesso le donne che si avventurano in ambiti in cui c’è una predominanza maschile incontrano un ambiente ostile. Parlo ovviamente delle battute a sfondo sessuale e di commenti sessisti di tutti i tipi, ma anche delle mezzore intere di mansplaining (ovvero quando un uomo, pur non conoscendoti e non sapendo nulla di te, dà per scontato che in quanto donna tu sia ignorante—per cui si sente in dovere di spiegarti qualcosa con un’accondiscendenza simile a quella di un padre che spiega alla figlioletta com’è fatto il mondo), o del giudizio sull’aspetto fisico che viene sempre prima di quello sulle capacità e i contenuti, e così via. Tutti atteggiamenti che puntano a una sola direzione: far sentire inadeguate le donne che provano ad avvicinarsi alla musica. È evidente che quando un ambiente si rivela così inospitale o peggio ancora tossico, e quando c’è un alto rischio di rendere psicologicamente stressante una cosa che dovrebbe solo far star bene e dare soddisfazione, per una ragazza è più semplice e conveniente rimanere nella sua “safe zone” e rinunciare a mettersi in gioco.
Ma al di là di questi esempi, che spesso vengono liquidati come innocua goliardia, trovo che il sessismo che c’è in Italia in campo musicale sia di un tipo più silenzioso e bonario, che si traduce semplicemente nella scarsa presenza di donne sulla stampa, in lineup e conferenze, e in tutte le occasioni in cui in qualche modo c’è da riunire una rappresentanza. Il perché è semplice: nella maggior parte dei casi, chi è chiamato a selezionare questa rappresentanza sono gli uomini stessi, che tenderanno a scegliere altri uomini, spesso in buona fede e in maniera quasi inconsapevole. Un sistema che si autoalimenta e che rende sempre più difficile sbarazzarsi degli stereotipi e diffondere esempi positivi e vincenti per le ragazze che ci vogliono provare.
Nonostante tutto questo, sono convinta del fatto che un articolo come quello che state leggendo farà tenerezza se riguardato tra 5 o 10 anni: nell’aria si sente sempre più il bisogno di mettere in discussione certi schemi e abitudini, e sono ormai anni che sulla stampa internazionale si parla in maniera approfondita di questo argomento. Basta esserne consapevoli, e continuare a lavorare sodo.
Teresa Bellemo – dirige Cosebelle Magazine dove si occupa anche della redazione musicale. Scrive su Rockit, Prismo e altre cose di carta.
Quando ho iniziato a scrivere di musica non mi è mai sfiorato il pensiero che quello che stavo per fare sarebbe stato originale. Su Spoglierò Simon le Bon, la mia prima rubrica, ho intervistato e parlato di musica e moda con artisti e artiste, indiscriminatamente. Conoscevo e tuttora conosco tantissime donne che hanno a che fare con questo mondo e molte hanno tutt’altro che un ruolo marginale. Ci sono tantissime donne che conoscono la musica in maniera approfondita, ne parlano con chiarezza e passione. Sono stimate perché svolgono in maniera egregia il loro “lavoro” (uso le virgolette perché lo sappiamo qual è il problema con lo scrivere, oltre che col genere) e grazie ad esso hanno scoperto e dato visibilità a progetti che lo meritavano.
Forse se non credo che esista un profondo problema di genere come in altri Paesi è perché in Italia la musica conta poco? O non me ne sono accorta perché non ho mai ricevuto commenti sessisti, nonostante mie recensioni negative? Cioè, quando ho ricevuto reazioni negative so che le avrei ricevute comunque, perché dall’altra parte c’era il purista del genere o il fan sfegatato che difendeva il suo divo e l’avrebbe fatto a qualunque costo. Per anni non ho mai visto il mio parlare di musica come un’entrata in un campo nemico, ma semplicemente una scelta, una passione. Lo penso tuttora. Abbiamo bisogno di sentire come naturale tutto questo, di non dover chiedere permesso a nessuno, perché nessuno ce lo deve dare. Di non sentirci una riserva indiana noi stesse, in primis. Mi è capitato, parlando di musica con uomini, di non essere ascoltata. Mi è capitato soprattutto tra addetti ai lavori. Mi è capitato quasi sempre con persone arroganti, forse si sarebbero comportate male comunque, sarebbero state mandate a fanculo comunque. Ho organizzato due edizioni di un mini festival musicale e non ho incontrato nessuna difficoltà, tranne rapportarmi con i tizi del locale che ora vivono felici organizzando serate tributo ai Doors e a Jamiroquai. Avevo scelto di farlo per passione, perché ci credevo. A volte i gruppi pensavano di trovarsi davanti a un promoter uomo, in qualche raro caso si sono stupiti, quasi sempre no.
Nella redazione di Cosebelle, insieme alle altre tre ragazze che si occupano di musica, parliamo sistematicamente di quella che viene definita “musica da maschi”. Parliamo anche di elettronica, di noise rock, di slow core. Certe volte ascoltano delle robe che io, lo ammetto, faccio una fatica bestia. Sono gusti. C’è una musica da donne e una musica da maschi? Forse sì, ma come sempre ci sono infinite terre intermedie e la nostra redazione ne è un esempio.
Ma c’è un punto su cui c’è ancora molto lavoro da fare, molto più che nel dietro le quinte. Le ragazze per salire sul palco hanno bisogno di mille dosi in più di coraggio rispetto a scrivere un articolo musicale o la più spietata recensione. Durante un concerto di Maria Antonietta sono rimasta atterrita dalle parole che dicevano due tizi sorridenti al mio fianco. Serve avere molto self control per accettare il fatto che si è da sole davanti a un pubblico che ti dà della puttana perché suoni la chitarra o perché canti di quando ti sei fatta un tipo. Come se una canzone non trattasse mai di temi del genere. Una musicista, se vuole suonare, deve essere dieci volte più brava di un uomo, perché staranno sempre lì a capire se sei in grado, se non suoni solo perché sei donna, perché sei bella. Perché se una donna apre bocca spesso il primo commento che si fa è se è carina o no, anche se il suo aprire bocca non c’entra nulla con il suo aspetto fisico. Oppure capita l’opposto, per cui una musicista può avere molti più riflettori su di sé soltanto perché donna, perché suonare “fa figa”. Come una donna cannone moderna. Essenzialmente la questione di genere è sulle spalle di chi prende in mano una chitarra o un synth. E finirà quando una donna che produce elettronica smetterà di fare notizia, quando i magazine non taggheranno come “inchiesta” un articolo titolato “Ma Grimes è figa o no?”. Quando ho iniziato a scrivere di musica non pensavo di fare nulla di originale. Oggi farlo serve a rendere banale parlarne e farla.
Giulia Cavaliere – scrive di musica e cultura pop per alcune riviste cartacee e online tra cui Rockit e Linus, fa parte della redazione di The Towner e Prismo.
“Le donne non capiscono un cazzo di musica” è una frase che ho sentito pronunciare spesso, non so quante volte da che parlo con altri di musica – cioè praticamente da sempre. Nella maggior parte dei casi mi veniva detta con quella modalità che vorrebbe lasciare intendere che “tutte le donne, tu presente esclusa, non capiscono un cazzo di musica”, con quel tono che vorrebbe dimostrare che no, certo, tu sei diversa, tu hai guadagnato faticosamente la nostra stima, sei dei nostri, puoi discutere con noi e pensa, a volte, ma solo perché sei tu, puoi persino contraddirci. A pronunciare questa frase tanto decisiva sono sempre stati uomini con una cultura musicale medio-alta, in alcuni casi immensa, uomini che conoscono il rock, l’hip hop, il metal, l’elettronica, la bossa, che si commuovono ascoltando Billie Holiday e leggono avidamente della vita di Nina Simone, uomini che presenziano a un gran numero di live ogni anno, che per la musica prendono aerei e treni, fanno molte rinunce e che forse, proprio come me, sognano la propria vecchiaia da cultori della lirica.
Una sera mi trovavo per la prima volta di fronte a un collega molto affermato, noto su scala nazionale come giornalista musicale ma anche un po’ come giornalista tuttologo: radio, giornali, tv. Me lo presentarono amici in comune e fui felice e curiosa di ascoltarlo parlare dal vivo, di vederlo gesticolare enfatico raccontando di band e autori che anche io amavo. Molti gusti in comune—pensai: parliamone, sarà bello. Ricordo ancora nettamente il suo volto che mi guardava senza ascoltarmi una, due, tre volte, fino a quando, al quarto giro, del tutto incurante di questi sguardi scrutatori ed esaminatori, pronunciai evidentemente quella parolina magica, quella splendida nozioncina nerd magari del tutto irrilevante nella definizione della statura del nostro scambio, in grado di rendere visibile e non più trasparente la mia persona ai suoi occhi, di accendere in lui non dico la curiosità ma quantomeno una forma di autentica accettazione “ok ragazza, puoi parlare, ti vedo, ci sei”.
Se scrivi di canzoni italiane come faccio io, sei, sottesamente, “quella nostalgica” e in qualche modo, quella che, femmina, fa, tutto sommato, una cosa abbastanza da femmina. Le canzoni sono così sentimentali! Ah, questi cantautori che ti fanno struggere più che analizzare, che ti fanno piangere più che voler cercare! A volte capisci tutto questo da quel tono vagamente dispregiativo con cui senti pronunciare i nomi dei cantautori, insomma, lo senti un quel “Tenco” in quel “Califano”, difficile raccontarvelo per iscritto, ma è qualcosa che somiglia in modo abbastanza decisivo a un “seh, vabbé”, qualcosa che—sarà un caso?—non mi è mai arrivato diretto dalla voce di una ragazza. Quanto è difficile, insomma, far passare il fatto che nel buio della tua casetta di donna amante degli esordi di Riccardo Cocciante, ti spupazzi un sacco di Krautrock, che per ordinare Daniela Casa in vinile anche tu hai speso una discreta cifra e che no, quella maglietta di Future Days dei Can non è un po’ di cotone a caso che ti è finito addosso. Quanto è difficile, dicevo, ma pure quanto non ci frega poi molto di dover far passare certi concetti, date le premesse.
Sono piccolezze, in apparenza, frasi, situazioni, concezioni come le tre descritte qua sopra, a popolare abbastanza frequentemente il mio mondo relazionale di donna-uomo che si occupano di musica; tutto potrebbere definirsi insomma nel fatto evidente, per quanto spesso non esplicitamete richiesto, di doversi guadagnare la possibilità di avere un’opinione scientifica tanto quanto quella del mio ideale equivalente maschile e di doverlo fare al di là di ciò che io scrivo, del doverlo fare per definizione perchè, tutto sommato, nella gag da pub del cultore assai edotto, alla fine “le donne non capiscono un cazzo di musica”.
C’è un però: è bello quando non esiste nulla di tutto questo—e succede. Quando automaticamente sei considerata brava per quello che hai fatto, quando vieni scelta al posto di un altro perché “tu racconti in quel modo diverso, più attento, curato, vivo, qualcosa”. A questo punto mi pare giusto e non scontato scriverlo: mi è stato detto spesso e non ho dimenticato il modo in cui ho sempre finito con il pensare che quel modo diverso, quel modo attento di cui mi stavano parlando, non derivasse dal mio essere donna ma dal mio essere una che ascolta con la stessa malattia Lory D mentre pulisce il bagno e Luigi Tenco alle 5 del mattino.
Chiara Colli è nata a Roma nel 1983. Responsabile della rubrica musica di ZERO, scrive sul mensile Il Mucchio e il sabato sera conduce la trasmissione Crazy Rhythms dagli studi di Radio Città Aperta.
«Quando una ragazza è appassionata di musica, in genere è quella che le ha fatto conoscere il suo ragazzo. O al massimo il suo ex». Questa frase me la disse un amico circa quindici anni fa e ricordo che allora mi incazzai parecchio. Non solo perché, mio malgrado, tutti i ragazzi che avevo frequentato erano meno interessati alla musica di me, ma anche perché, col passare del tempo, la musica era sempre meno un interesse da condividere e sempre di più una fissazione circoscritta a un certo periodo della propria vita, perlopiù passato. Percepivo il pregiudizio, ma constatavo anche un più esteso pressapochismo, una superficialità che sarebbe divenuta l’anticamera di come oggi è recepita la musica: intrattenimento, una realtà relegata nella dimensione YouTube o al massimo di Spotify, roba da due concerti all’anno. Un problema culturale, di cui—in particolare in Italia—sono figli tanto le mappe sulle persone influenti all’interno del dibattito politico-culturale in cui compaiono pochi nomi femminili, tanto—entrando più nello specifico—commenti da Social Network secondo cui “alle femmine piacciono le lagne” (per amor di verità, però, ammetto che nella vita reale ho avuto la fortuna di non incontrare, almeno non spesso, questo tipo di persone).
Saranno gli anni che passano, ma della citazione iniziale—non totalmente inverificata, sia chiaro—oggi coglierei più gli elementi grotteschi che quelli provocatori. Qualcosa di molto vicino al ritrovarsi a discutere di unioni civili o risparmio energetico nel 2016. È indiscusso che il dato di fatto sia presente, che le donne che si interessano e occupano di musica—in qualsiasi settore, giornalistico, ma anche della produzione di eventi o come musiciste—siano meno degli uomini, fatto salvo, forse, l’ambito della comunicazione intesa come ufficio stampa. Questa ultima considerazione mi fa pensare a un’amica, molto colta (mi si conceda questo termine un po’ rétro), a cui un giorno sentii dire «Decisi di lavorare come ufficio stampa perché non mi sentivo all’altezza di fare la giornalista». Nell’impossibilità di generalizzare, di attribuire a un’unica causa le ragioni di una situazione composita, a fronte di un diffuso retaggio culturale per cui ci esistono “lavori/ambiti da uomini” e “da donna”, è possibile che una certa scrupolosità—il cui retro della medaglia è la mancanza di faccia tosta o anche una minore intraprendenza—amplificata da fattori esterni, porti a filtrare quelle che potrebbero essere potenziali giornaliste in settori che come ambito di interesse appartengono in misura maggiore, anche come fruizione, agli uomini.
Ciò detto, per quanto l’informazione e la possibilità di affrontare tematiche effettivamente esistenti ma passate inosservate (o date per scontate) per anni siano uno strumento utile, trovo altrettanto inefficace se a sollevare la questione donne vs industria musicale siano perlopiù gli stessi soggetti coinvolti. Trovo inefficace qualsiasi tipo di discorso e atteggiamento mentale che accentui distinzioni di genere, in quanto autoreferenziali e ghettizzanti. Un esempio concreto nell’ambito del settore specializzato, ovvero quello in cui il divario è più consistente: Il Mucchio e Blow Up. Da una parte, un giornale con circa una metà di firme femminili, attorno al quale a un certo punto si è creato “un caso”, con relative digressioni (…), proprio per via di quella che pareva un’anomalia—l’integrazione di (relativamente) tante donne tra i collaboratori; dall’altra, una testata di sole firme maschili, con un taglio molto specializzato e un’identità forte, ma che trasmette un po’ l’idea di prodotto culturale realizzato da uomini e destinato perlopiù agli uomini (a questo punto, forse dovrei specificare che personalmente lo leggo tutti i mesi). Il ruolo dei media più o meno di settore dovrebbe essere quello di uscire da un simile dualismo, nell’ottica di offrire un servizio al lettore in cui la “questione di genere” non è un argomento meta-giornalistico in cui, peraltro, spendere inutilmente energie, ma uno strumento per moltiplicare i punti di vista. Se ci sono dei luoghi comuni sull’argomento donne vs industria musicale, il ruolo dei media non è, a mio parere, né metterli nero su bianco, né ignorarli, né tantomeno fare delle quote rosa. Ma uscirne fattivamente: magari evitando che sia ancora una donna a scrivere il prossimo pezzo sulle riot grrrrl.
Guia Cortassa – È redattrice di Ondarock, contributor di Loud and Quiet e reviewer per The Quietus.
“Di’ alla tua amica che sono preventivamente arrabbiato per la recensione perché non è un disco da signorine e che se ha bisogno di sapere cosa scrivere davvero di chiedermi pure”. Ho ricevuto veramente questo messaggio, per interposta persona, da un tizio a me totalmente sconosciuto (ed estraneo al mondo della critica musicale) a cui una delle mie migliori amiche aveva appena comunicato che stavo scrivendo del disco di una delle sue band preferite. La cosa che però, al tempo, mi aveva fatto maggiormente inorridire non era stato il commento idiota in sé, quanto la reazione della mia amica, per niente risentita, anzi, divertita da quella frasetta inopportuna, una battuta per lei del tutto normale e quasi buffa.
La divisione per genere non solo dei consumi ma anche della produzione culturale è un falso retaggio che, però, persiste ancora oggi e vive di stereotipi e contraddizioni.
Ma se nel primo caso rimarcarla è decisamente sbagliato proprio dal punto di vista concettuale (non esiste musica da o per uomini come non esiste quella da o per donne: la scelta dei consumi è individuale e personale), nel secondo la specificazione al femminile non è negativa come si potrebbe essere subito portati a pensare.
Che ancora oggi ci si stupisca perché Björk o Grimes producono da sole le proprie tracce, per fare un esempio, significa che non ci si aspetta che siano in grado di farlo. Se i problemi di inclusione e percezione dei ruoli non esistessero, non esisterebbe neanche quello stupore. E perché quello stupore scompaia, è necessario rimarcare che sì, sono donne e sì, sanno creare e produrre esattamente come i colleghi, finché non sarà assimilato e dato per scontato.
La gender-blindness, la rimozione, pretendere che non esistano discriminazioni e differenze di approccio e spazio, è l’atteggiamento peggiore che si possa tenere in questi casi, data la predominanza ancora maschile dell’industria musicale.
The Quietus, una delle webzine musicali independenti più famose e autorevoli, alla fine del 2014 ha lanciato una campagna di ricerca di collaboratrici donne, per equilibrare la presenza di voci all’interno della redazione. “The only time we’ve ever seen a readership analysis, we were pleasantly surprised to find out that there’s a near 50/50 male/female distribution among our readers and I’m pretty sure few other music titles can boast that. An obvious way for us to try and maintain this balance is not just to write about more female artists but ensure there are more female voices on the site full stop”, scrisse il direttore John Doran nell’editoriale di fine anno. Una mossa che aprì la strada ad iniziative molto simili in numerosi altri media di settore in Gran Bretagna.
Sarebbe bello vedere la stessa cosa accadere anche in Italia, invece di sentire continuamente ripetere “non siamo noi a non voler collaboratrici donne, sono le donne che non scrivono”.
Irene Papa – scrive per DLSO, DJ Mag e ZERO.
Premessa: scrivere questo pezzo ha generato nelle mie vene un misto di sangue che ribolle dalla rabbia e serena accettazione che questa società non ce la farà mai. A far cosa? A smetterla di esprimere opinioni sulle persone in base a ciò che sono e non in base alle loro idee.
Detto questo, affrontare l’annoso tema donne e musica non è facile, per un cazzo. Si rischia continuamente di cadere in fastidiosi quanto falsi cliché e provare a restituire una fotografia realistica della situazione è davvero complicato. Ci sono troppi argomenti che si insinuano lateralmente al problema principale (perché sì, abbiamo un problema) e sviscerarli uno ad uno fa venire la labirintite. Ho riflettuto tuttavia sulle affermazioni che mi capita più frequentemente di ascoltare sull’argomento e queste sono le risposte scaturite dalle mie esperienze.
Cliché n.1: la musica tendenzialmente interessa più agli uomini che alle donne.
Senza andare a fare un distinguo tra generi, che vorrei affrontare più avanti, credo che la risposta sia no. Giro per club, festival e concerti da quando avevo 14 anni e non ho mai notato onestamente una prevalenza di genere sessuale all’interno del pubblico. Parlo delle serate pettinate nei club di provincia dove al massimo conoscono Luca Agnelli, come delle serate di Buka con Andy Stott a Milano, passando per festival pieni di act innegabilmente famosi a Torino, a Londra o in Croazia. Trovo che l’audience sia sempre stata eterogenea ben oltre le mie aspettative. Le donne girano, spendono per divertirsi, amano i locali.
E qui sento già le voci di chi sostiene che le donne si interessino alla musica solo quando trascinate dalla componente modaiola. Se dovessimo metterci ad analizzare le motivazioni alla base della fruizione musicale femminile, onestamente dovremmo porci le stesse domande anche relativamente agli uomini. Circoscriviamo per un attimo il discorso ai club, e stringiamo ancora di più il cerchio parlando solo dei posti che fanno musica elettronica ritenuta colta e destinata ad un pubblico di intenditori: quanti ragazzi ci vanno per il sound e per l’esperienza musicale fine a se stessa? Io di club “intelligenti” ne frequento parecchi e il 90% delle volte sono circondata da uomini che hanno assunto una buona dose di stupefacenti e neanche ricordano la lineup. C’è qualcosa di male? Assolutamente no. Mi chiedo solo perché stiamo qui a fare le filippiche su quanto le donne siano interessate alla musica quando mi pare che il pubblico maschile abbia spesso ben altri obiettivi. Ed è sotto gli occhi di tutti.
Cliché n.2: è un problema di genere. Il pop piace alle femmine, l’elettronica ai maschi.
Ancora una volta, credo che mettersi a questionare sulla tipologia di musica che piace alla maggioranza del pubblico femminile sia un atteggiamento testosteronico e supponente. La musica non è né politica né tantomeno macroeconomia e non capisco quali evidenze si tirino fuori nel sottolineare che le femmine ascoltano le Icona Pop o Ellie Goulding. Davvero, è una domanda sincera: qualcuno mi spiega se a me piace il rosso e a voi il blu, che differenza socio-antropologica esiste tra me e voi? La musica è libertà, è vibrazione, è una colonna sonora soggettiva e non c’è nulla di più opinabile del gusto. Ma che ve ne frega a voi di quello che ascoltano o producono le “ragazze”? Le riflessioni su questo tema scritte dagli uomini nascondono il più delle volte la volontà neanche troppo velata di manifestare una superiorità. Nessuno vuole davvero analizzare il fenomeno perché incuriosito o preoccupato da un’atavica carenza di quote rosa.
Il discorso diventa poi ancora più sintomatico se ci spostiamo dall’elettronica di nicchia all’EDM: cos’è l’EDM se non una versione zarra del pop? Le dinamiche artista-pubblico, l’estetica stucchevole, l’idolatria diffusa sono caratteristiche mutuate dalla pop music. Siamo proprio sicuri di volerci vantare che l’EDM sia un mondo maschile, additando le femmine di apprezzare solo le canzonette facili, acustiche, melodiche?
Cliché n.3: non ci sono abbastanza donne che fanno musica, soprattutto nell’elettronica.
Non esiste una risposta univoca a questo manifesto, dipende da che punto di osservazione si guarda il mondo. Credete che il solo universo a prevalenza femminile sia il pop? Vi state fermando alla superficie. Portate la mente al jazz degli anni Quaranta o all’R’n’B dei Novanta: sono generi meravigliosamente dominati dalle donne, ed è una cosa talmente naturale che nessuno sta qui a rimarcare l’importanza rivestita da Etta James o da Mary J.Blige, è semplicemente stratificata in noi. Per quanto riguarda l’elettronica, tutto sta a cercare nei luoghi giusti: Matilde Davoli, Estel Luz, Elisa Bee, Caterina Barbieri, Any Other (sono solo le prime che mi vengono in mente e ho escluso tutto quello che ritengo indie per non aprire un capitolo parallelo) sono artiste conosciute tanto quanto Furtherset o Lamusa che se ne vanno all’Academy di Red Bull e stanno tutti qui ad elogiare. Il problema non è se le donne nell’elettronica siano abbastanza. Il problema è se l’elettronica—per di più italiana—non sia un ambito troppo piccolo per restituirci una panoramica veritiera della presenza delle donne nella musica. Se si è appassionati di questo genere, non si avranno grosse difficoltà nel trovare artiste donne che a vari livelli ne fanno parte. Se non lo si ama, risulterà sconosciuta anche Nina Kraviz che raduna migliaia di persone ogni weekend. Smettiamola di dire che le donne nell’elettronica siano una minoranza. È l’elettronica stessa ad esserlo e gli artisti rilevanti si contano sulle dita di una mano, maschi o femmine che siano.
Cliché n.4: i media rimarcano il sesso dell’artista solo quando è donna. Questo approccio alimenta il maschilismo?
Decisamente sì. E il problema non riguarda soltanto il modo in cui affrontano le questioni di genere. Quando Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti nel 2008, nessuno ha scritto che è stato il primo uomo venuto dal popolo dopo anni di oligarchia repubblicana. Hanno sottolineato tutti che era nero. Quando Samantha Cristoforetti è andata nello spazio, tutti giù a titolare che è stata la prima donna italiana a riuscire in questa impresa. Nero, donna, omosessuale, handicappato: non sono mai le idee che ci portiamo dentro a fare notizia, sono le caratteristiche fisiologiche differenzianti ad attirare l’attenzione.
Allora io dico: fregatevene se vi fanno pesare che siete donne come se fosse qualcosa di innaturale da sottolineare, in qualsiasi settore e in particolar modo in quello musicale. Ribaltiamo la situazione, approfittiamo di questa attenzione che tutti ci dedicano in quanto giornaliste, produttrici, artiste, DJ che occupano un posto ritenuto non loro e sdoganiamo un nuovo modello dove il risultato a cui ambire siamo noi e non i nostri colleghi uomini. Abbiamo tutte le carte in regola per essere le donne in cui le nuove generazioni vogliono identificarsi, senza aver bisogno dell’approvazione di papà.
Sonia Garcia – resiste nella redazione di Noisey fin dal primo giorno.
La mia personalissima esperienza nel campo dell’editoria musicale è breve e disseminata di momenti in cui credo di non avere dati sufficienti per maturare idee a riguardo, specie se si tratta di temi come donne, rapporto uomini-donne e tutto il vasto corredo di controversie lavorative che la convivenza di queste due enormi fette di genere umano comporta. Nell’approcciarmi a questi temi provo scomodità non perché viviamo in chissà quale nefando Paese o epoca storica, ma perché sulla mia pelle ho dovuto constatare che molte persone—in prevalenza uomini, ma fa poca differenza a questo punto—faticano a tenere in piedi pensieri del genere, e risolvono a monte la cosa declassandola, sminuendola. “C’è ben altro di cui parlare, altri problemi di cui trattare,” è la risposta più comune, e se lo è in tema diritti civili e ddl Cirinnà, figuriamoci quando ci soffermiamo a parlare di musica e industria musicale, frammenti apparentemente ancora più inutili di vita quotidiana.
L”ESISTENZA di problematiche che riguardano la parità di trattamento, opportunità o anche solo percezione del lavoro svolto da una donna in ambito musicale è già di per sé un’enorme carie incurata per molti uomini, aziende, redazioni, band, etc. Una carie che si spera sempre vada via, o si affievolisca da sola, senza interferenza alcuna. Per molti, anzi, sembra quasi indispensabile rimarcare la distinzione spirituale tra uomo e donna, usandola come giustificazione agli episodi più disparati e spesso ridicoli. Il livello di dialogo è davvero questo: ci credo che poi c’è gente che mette in discussione—nel più meschino e avvilente dei modi—il significato dellla parola “stupro”, o che utilizza come titolo di un’intervista una frase “rivolta alle donne”, meglio se riguardante il proprio corpo.
C’è sempre un dirupo tra le parole che si spendono per sensibilizzare un pubblico a partire dalle basi—come ho fatto io ora, cioè dall’ammissione che questa cosa è reale—al modo in cui il pubblico poi metabolizza l’informazione e ci convive. Alcuni arrivano, proprio forti di questa consapevolezza, a supportare l’esistenza delle scene musicali a prevalenza maschile, come se effettivamente abbia senso la disparità di genere, vedi l’EDM, il rock, il metal, il rap, la club music in generale. Festival musicali a lineup paritarie non solo sono la norma in Paesi che non siano l’Italia, ma probabilmente sono anche i più promettenti a livello di qualità e freschezza; come ha detto un mio amico l’altro giorno, “Vai lì e ti ascolti la musica perlomeno del 2015, e non del 2013 come le serate qui a Milano.” Serate in cui la lineup è cento percento maschile più per beata incoscienza che per convinzione. Alle poche tipe che suonano viene detto di “pestare” di più e via, spazio e tempo per agire diversamente non c’è e non c’è mai stato.
Arriverà un momento in cui sarà cristallino agli occhi di tutti che progresso è anche intersezione tra interessi e volontà primarie di ogni individuo, che puntino alla distruzione delle barriere di razzismo e misoginia in toto, e non ci si può certo permettere di ragionare per compartimenti stagni. Ma, finché non sarà così, una soluzione che sul momento aiuta molte, moltissime ragazze a sentirsi più sicure è barricarsi in fortezze di sole donne e affrontare insieme l’inferno dell’industria musicale male-dominated, con la forza intrinseca della primordiale solidarietà tra donne di cui la fortezza stessa si permea. Staycore ed Electronic Girls sono giusto un paio di nomi, e uno è pure italiano. Questa prassi non è tuttavia abbastanza lungimirante, secondo me. Una tattica del genere può valere per chi fa musica, ma chi ne fruisce ha bisogno di altre impalcature che garantiscano un piano di appoggio stabile a cui fare affidamento ogni singola volta che il tema viene nominato. La coscienza collettiva di gente che per esempio “scrive di musica” deve passare dall’inesistente al militante, e per farlo basta ricordarsi che il senso di omertà latente non è eterno come sembra, ma può essere lavato via. Siamo qui apposta.