Il rapporto tra l’uomo e la morte ha preso una curiosa deriva negli ultimi tempi.
Ci troviamo oggi infatti in uno strano limbo, in cui le nostre prometeiche conquiste tecnologiche rappresentano un po’ l’altra faccia di un infantile e capriccioso rifiuto della morte.
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Le tentiamo tutte per posticipare non solo il fenomeno in sé, ma anche il dover ragionare a riguardo: dopo le pittoresche rivoluzioni nell’industria funeraria—i cadaveri oggi si possono trasformare in qualsiasi cosa, da alberi a collane di perle—a quelle pseudo mediche—con la criogenia e i trapianti di testa—siamo arrivati a quelle cosmetiche.
A qualcuno interessano i profumi decisamente particolari?
Per particolari intendiamo umani. I profumi sono infatti da poco diventati l’ultima frontiera della moderna negazione della morte, grazie a un progetto imprenditoriale e scientifico non da poco, che vuole offrire alle persone in lutto un modo per prolungare l’essenza (in tutti i sensi) di un caro estinto il più a lungo possibile dopo la sua dipartita.
Se avete avvertito un brivido lungo la schiena, è perché intuite che la faccenda ha un che di geniale, passando sopra alla morbosità intrinseca al collezionismo di qualsivoglia reliquia umana.
Perché conservare il profumo di un morto?
L’olfatto è il senso più antico che abbiamo (anche se forse non proprio quello più sviluppato), è strettamente collegato al gusto ed è uno strumento di misura quotidiano. Pensate a quanto ci disorienta un raffreddore: quando non possiamo percepire gli odori, è come se ci mancassero i tasselli di un puzzle. Pensate anche a come gli odori siano un metro di giudizio tanto quanto le apparenze: in entrambi i casi impariamo presto quali mascherare e come. In altre parole, il nostro odore da un punto di vista socio-culturale è un po’ come un corpo nudo o un viso struccato: esporlo dice qualcosa su di noi esattamente come lo dice il modo in cui decidiamo di coprirlo. È parte della nostra identità.
L’olfatto torna utile in svariate situazioni di banale quotidianità—ci aiuta a capire quando qualcosa brucia sui fornelli, se è il caso di lavare una maglietta, se c’è una perdita di gas—ma anche in quelle che potrebbero considerarsi fondamentali, primarie, come la scelta di un partner sessuale. E la cosa va ben più a fondo di un’acqua di colonia: per quanto possiamo apprezzare (o detestare) le scelte di odori artificiali compiute da altre persone, il loro odore specifico di essere umano, fatto di sudore, pelle e ormoni è il vero magnete—positivo o negativo—che guida le nostre scelte e in alcuni casi parliamo di un magnete potentissimo.
Basti pensare che nel 1994, lo zoologo Claus Wedekind ha condotto una ricerca per individuare un pattern genetico dietro all’attrazione olfattiva tra esseri umani. Ci annusiamo, ci piacciamo. Perché? C’entrerà forse la scienza? In questo esperimento, 44 uomini (che non potevano usare prodotti con profumi) hanno indossato una maglietta di cotone ciascuno per un paio di giorni; queste magliette sono poi state inscatolate e sottoposte allo scrutinio olfattivo di 49 donne, cui è stato chiesto di giudicare l’odore di ogni scatola in base a tre criteri: intensità, piacere, e attrazione sessuale.
I risultati di questo esperimento di genetic matchmaking hanno mostrato una tendenza dei soggetti femminili esaminati a esprimere un giudizio positivo verso gli odori di uomini dotati di alleli HLA diversi dai loro. L’HLA (Antigene Leucocita Umano) è il responsabile genomico del nostro sistema immunitario—gioca un ruolo piuttosto importante contro malattie generiche, cancro, e anche rigetti in caso di trapianto. In generale, mettere insieme corredi genetici diversi significa mandare avanti una specie più forte e l’HLA non è escluso da questa cosa, ma funziona come una sorta di cupido genetico, che ci porta ad apprezzare di più l’odore di chi ha alleli diversi dai nostri, per il bene della specie e del suo sistema immunitario.
La genetica e la selezione sessuale ribadiscono qualcosa che sappiamo già per esperienza: se ci piace qualcuno, c’è buona probabilità che ci piaccia anche il suo odore.
E sappiamo anche che dire addio all’odore di qualcuno è una parte dell’elaborazione di un lutto (relativo o assoluto) complessa, il cui repertorio pratico spazia da fontane di pianto abbracciate a magliette ad allucinazioni sensoriali in mezzo alle folle.
Quindi perché farlo? Perché rinunciare a quell’odore?
Sono queste le domande che hanno spinto la francese Katia Apalategui a mettere a punto—con l’aiuto della chimica Geraldine Savary dell’università di Havre—un profumo che vuole offrire un “conforto olfattivo” a chi soffre per la perdita di un caro. Il profumo è ricostruito in quattro giorni da molecole estratte da un capo di abbigliamento, è fatto su misura e costerà all’incirca 560 euro. Il progetto è quello di mettersi in contatto con le famiglie di una persona in fin di vita, farsi consegnare un capo di abbigliamento e restituire in perfetto macabro orario una fialetta contenente la reliquia eterea estratta. Il business dovrebbe prendere piede a settembre, andando a rimpolpare le fila di tutte quelle nuove e bizzarre pratiche legate al cordoglio che spuntano nella nostra società. Il potere che detiene è consistente e l’olfatto si trasforma da portale sul mondo dei ricordi a potenziale paradiso di rifiuto e posticipazione.
La morte ci affascina e ci terrorizza—questa è storia—ma sembriamo arrivati al punto in cui il rifiuto totale dei suoi aspetti concreti (si muore e la cosa fa schifo) significa nutrire l’illusione che sia possibile protrarre ad eternum o quasi l’essenza di coloro che scompaiono. Siamo, insomma, in un’era in cui preferiamo imbalsamare i nostri animali e continuare a coccolarli, anziché riflettere sul vuoto che lasciano. Il modo più sicuro per affrontare la perdita di qualcosa o qualcuno di insostituibile sembra essere proprio la sua sostituzione, con il guscio di quello che era. Qualcosa che sia simile abbastanza, una culla emotiva che ci inganni come un placebo per la malinconia. D’altronde il vuoto, si sa, terrorizza più di tutto. Anche più di un fantasma per l’olfatto.