L’8 maggio 1937, intorno all’ora di pranzo, Teresa Pavanello mette in funzione la radio della sala d’aspetto della “casa d’appuntamento” di cui è tenutaria a Napoli, al civico 175 di via Chiaia. In programmazione c’è la “trasmissione di inni patriottici,” e un cliente presente nella stanza chiede di alzare il volume per sentire il discorso di Mussolini. “Altro che discorso, a me aumentano le tasse […] Mussolini ha i milioni alle banche estere e se succede qualcosa in Italia, lui mangia sempre,” commenta Teresa. “Il Duce quando parla porta la mano destra alla fronte e dice: ve l’aggià schiaffà in culo a voi italiani.”
Nella sala scende un silenzio imbarazzato e alcuni clienti se ne vanno indignati. Tra loro c’è anche un capo squadra della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che denuncia la tenutaria. Venti giorni dopo viene emessa un’ordinanza che assegna Teresa al confino di polizia per tre anni a Bianconovo, in provincia di Reggio Calabria. Al termine di questo, Pavanello finisce legata in un letto d’ospedale psichiatrico, bollata come folle, “delirante, disorientata e a volte aggressiva.”
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La storia della tenutaria di via Chiaia si trova nelle carte del Casellario Politico Centrale, una sorta di anagrafe (creata nel 1894, ma particolarmente attiva nel periodo fascista) delle persone considerate pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica. Lo schedario contiene gli elenchi di oppositori politici, sovversivi, anarchici—ma anche di vagabondi o persone generalmente sgradite.
Tra questi nominativi ci sono anche quelli di molte prostitute arrestate per “misure di pubblica moralità” e poi perseguitate politicamente per aver insultato o deriso i simboli del fascismo. Le storie di 27 di loro—schedate tra il 1927 e il 1942—sono raccontate nel saggio Puttane antifasciste nelle carte di polizia, uscito pochi giorni fa.
Per saperne qualcosa di più ho contattato Matteo Dalena, giornalista e autore del libro.
VICE: Come mai hai iniziato questa ricerca?
Matteo Dalena: Questo lavoro nasce innanzitutto da una passione spropositata per l’archivio e la ricerca storica. Volevo concentrarmi su un tipo di storia meno schiacciata sulle istituzioni e che vedesse come protagonisti gli individui, e in particolare le donne che spesso sono assenti dai racconti ufficiali. Ho provato a cercarle nei margini della storia del Ventennio, nelle fonti di polizia, e sono venute fuori a decine tra segnalazioni, fermi, interrogatori.
Perché ti sei concentrato proprio sulle storie delle prostitute clandestine?
Nel Casellario politico ho trovato donne i cui nomi emergono solo per il loro unico incontro-scontro con il potere, e cioè il momento in cui vengono fermate per provvedimenti di pubblica moralità. Mi sono posto questa domanda: quale poteva essere il rapporto tra queste prostitute e il potere costituito?
Ho iniziato da Cosenza, la mia città, e dal quartiere di Santa Lucia, un rione del centro storico totalmente tagliato fuori da propositi di recupero di ogni amministrazione dove per oltre un secolo la prostituzione è stata gestita dalla malavita. Poi la ricerca si è allargata a tutta Italia, e alla fine ho raccolto le storie di ventisette donne, da Torino a Palermo: due di queste sono tenutarie che gestivano case di tolleranza, il resto sono prostitute per la maggior parte clandestine o abusive, che cioè non esercitavano nei locali di meretricio previsti dal regime. È ovviamente una campionatura, perché le prostitute schedate nel Casellario politico centrale sono circa 130.
Qual era la considerazione della prostituzione durante il periodo fascista?
La prostituzione era un fatto assodato, però doveva essere esercitata nascostamente nelle cosiddette “alcove del sesso tollerato”, le famose case chiuse, sottoposte a una serie stringente di divieti e prescrizioni che facevano riferimento al titolo VII sul meretricio del TULPS, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Erano regole piuttosto restrittive: le prostitute dovevano passare una visita ogni due settimane da un medico detto “tubista” che aveva nelle mani il destino del loro ciclo di vita. Se iscritte al partito avevano maggiore facilità d’accesso; dovevano addirittura aver superato una sorta di tirocinio. C’era una gerarchia verticale, che vedeva in alto le tenutarie, le massime figure che gestivano le case di tolleranza, poi i collocatori, che fornivano materiale umano, e alla fine le prostitute. Sostanzialmente, se rispettavano le regole erano tollerate. Ma se abusive o professanti idee contrarie al regime venivano punite piuttosto severamente.
Chi sono le prostitute che finivano nel Casellario Politico Centrale e per quale motivo venivano fermate?
Non si sa molto sulle loro vite, perché le fonti di polizia sono assolutamente parziali. Molte di esse erano cameriere, sartine, una lavorava fuori frontiera a Bruxelles in un albergo, altre facevano unicamente le prostitute. Quasi tutte erano affette da malattie sociali come la sifilide. Le accuse prevalenti erano “adescamento al libertinaggio”, contravvenzione a “misure di moralità” o comunque l’aver esercitato la prostituzione fuori dalle “case di tolleranza” o dalle regole previste dal regime.
Poi, però, una volta fermate la loro posizione si aggravava, perché queste donne si scagliavano con tutta la loro rabbia nei confronti dei militi e colpivano con parole o con gesti i simboli del fascismo—e in rari casi anche i membri della famiglia reale. Si trattava di insulti tipo “abbasso Mussolini”, “Mussolini è una carogna.” Linguaggi sboccati, parole della strada.
Che tipo di condanne subivano una volta fermate?
Venivano punite in primo luogo per aver violato “misure di moralità”, e quindi sottoposte per la maggior parte all’ammonizione giudiziale, che implicava restrizioni alla libertà. C’era proprio una lista di prescrizioni. Oppure venivano incarcerate, sempre in via amministrativa. Poi però venivano perseguite anche politicamente.
Una delle condanne più ricorrenti nel Casellario Politico Centrale è quella del confino. In teoria era una misura straordinaria, da applicare a coloro che erano sospettati di attività sovversive. Però bastava davvero pochissimo a queste donne per rischiare fino a tre anni in località sperdute, soprattutto nel Meridione—o comunque molto lontano dal luogo di nascita o di provenienza. Una volta scontata la pena, poi, venivano risucchiate nuovamente nei baratri dai quali erano arrivate, o più spesso finivano in manicomi e strutture affini. Di storie ce ne sono diverse.
Ce n’è secondo te una particolarmente significativa?
La vicenda di Maria Degli Esposti, definita nel Casellario “prostituta antifascista senza fissa dimora.” Quando viene fermata a Bologna nel marzo del 1928 per “misure di moralità” urla alle forze dell’ordine: “Se ammazzano Mussolini non mi arresterete più.” Quella frase le costa una denuncia per offese al capo di governo e una condanna a sette mesi e dieci giorni di reclusione. L’anno dopo il prefetto di Bologna comunica che la “prostituta pregiudicata” è destinata a tre anni di confino alla Colonia di Gavoi, in provincia di Nuoro. Non si hanno più notizie di lei per quasi dieci anni, finché sul Casellario spunta che Maria è ricoverata a Cagliari in un ospedale psichiatrico affetta da “demenza paranoide con prognosi sfavorevole” e che non ne è prevista la dimissione.
Ecco, come mai l’epilogo delle storie di queste donne [e di molte altre sotto il fascismo, come abbiamo scritto in questo articolo] è spesso il ricovero in ospedali psichiatrici?
Sostanzialmente perché dalla fine dell’800 tutto ciò che non si conformava a un modello di vita propugnato dall’istituzione veniva messo ai margini. Ricoveri, ospizi, manicomi: il diverso, quello che appariva difforme veniva recluso ed escluso. E queste prostitute vengono messe al bando anche per un solo gesto, persino un rutto. Bastava veramente poco per finire come sovversive al manicomio o, come ti dicevo, al confino.
Per darti un’idea della facilità con cui queste donne venivano sottoposte a quest’ultima misura: Libera Hriaz, una prostituta triestina, mentre era ricoverata in un sifilicomio a Bologna e discuteva con delle altre pazienti di sciocchezze, ha dedicato “dei rutti e delle scorregge” al duce. Viene sentita dai portantini e dagli infermieri, segnalata alla prefettura di riferimento e condannata al confino.
Nei verbali di segnalazione delle forze dell’ordine alcune prostitute vengono descritte con frasi come “presenta un’espressione fisionomica da ebete” o “porta i segni dell’idiozia”—qualificazioni del tutto “lombrosiane”. Era il loro essere prostitute a farle caratterizzare in questo modo?
La medicina dell’epoca, la scuola scientifica o la polizia erano fortemente condizionate da teorie post-lombrosiane. I teorici del tempo consideravano le prostitute come delle degenerate, e in quanto tali maggiormente inclini alla violenza. C’è un’opera di Cesare Lombroso, La donna delinquente: la donna prostituta e la donna normale, in cui ci sono proprio delle categorizzazioni per cui per esempio le prostitute vengono definite dedite agli alcolici, amanti del voluttuoso vivere. Ecco, non certamente il modello di donna madre e fattrice propugnato dal fascismo.
Queste donne vengono definite “antifasciste” per aver espresso la loro contrarietà a simboli e regole del fascismo. Secondo te c’era consapevolezza politica nel loro agire o si trattava più di una ribellione al potere dovuta alla condizione di marginalità?
Ci sono entrambe le cose. Credo che per la maggior parte si trattasse di rabbia dovuta al provvedimento amministrativo, al fermo e all’impossibilità di continuare a fare quello che permetteva loro di guadagnarsi il pane o la minestra, di prendere il taxi. Ci sono delle tenutarie, ad esempio, che si lamentano dell’eccessiva tassazione dei bordelli. Alcune donne hanno successivamente scritto a Mussolini implorando di essere cancellate dagli elenchi delle sovversive.
D’altra parte, però, queste donne sapevano bene come e contro chi scagliarsi per colpire i simboli del fascismo. Sono piccole resistenze, non le definirei né partigiane, né eroine, non si sono distinte per azioni coraggiose in battaglia o altro. Si tratta di persone della strada, rudi, sboccate, che utilizzano come principale strumento di resistenza il corpo. Qualcuno l’ha chiamato un antifascismo latente, silenzioso, più interiorizzato che espresso.
Perché di queste vicende è difficile trovare traccia nella storiografia ufficiale?
Da un lato credo che per troppo tempo si siano inseguite le grandi storie—battaglie campali, grandi azioni—ma si sia spesso taciuto ad esempio della resistenza quotidiana nelle città, nei bassifondi dei quartieri. Dall’altro lato, stiamo parlando di donne che hanno vissuto anzitutto del proprio corpo, e anche per questo probabilmente sono state ritenute scandalose e forse dimenticate.
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