Salute

La psicologia sui social è una fregatura?

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“Spesso, se non hai una base di conoscenze che possano indirizzare al tuo studio le prime persone, rischi di non ingranare. Questa è la causa del proliferare della ‘psicologia social’: farsi pubblicità su Instagram o TikTok per molti è una necessità.”

La psicologia ha una declinazione pop da ben prima che arrivassero i social network. È un fenomeno nato negli anni in cui noti psicoterapeuti dai ciuffi ribelli o dagli occhiali con montature colorate decisero di andare in tv e di tenere rubriche su settimanali scandalistici in cui dispensavano concetti omogeneizzati di psicologia. Niente, però, in confronto al successo che sta riscuotendo questo tipo di approccio su Instagram e TikTok per i nuovi professionisti: reel e video a ripetizione su nevrosi, psicosi, disturbi alimentari e archetipi junghiani.

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C’è il terapeuta tiktoker, con più di 100k follower, che in meno di un minuto spiega come riconoscere i comportamenti di chi è stato invalidato nell’infanzia (con musica di Taylor Swift in sottofondo e balletto coordinato sopra cui appaiono le grafiche illustrative); quella con 25k follower che in 2 minuti illustra i pensieri ricorrenti delle persone ansiose; quello che insegna come riconoscere un’amicizia tossica in un TikTok da 40 secondi (musica, stavolta, di Lazza); quella che delinea i contorni della manipolazione affettiva in 12 secondi spaccati, simulando un ipotetico dialogo con un manipolatore; quello che elenca i sintomi del disturbo da ansia sociale in 40 secondi.

Ci ho tenuto a specificare le tempistiche di questi reel e video perché sono in analisi da più di 15 anni, e ho girato diversi professionisti: se avessi saputo che bastava così poco a farsi un’idea di un determinato disturbo, avrei risparmiato un sacco di tempo e denaro.

È opinione abbastanza diffusa che questo genere di contenuti abbia una sua utilità, che va oltre gli specifici argomenti trattati: la rappresentazione. Il semplice fatto di trovarsi la home di un social invasa da contenuti che parlano di disturbi mentali li renderebbe più accettati e combatterebbe lo stigma. Il caro vecchio “più se ne parla, meglio è,” insomma. Un concetto che si riverbera in infiniti altri ambiti dello scibile umano: la quantità e l’accessibilità del discorso prodotto comporterebbero benefici che ne giustificano spesso la scarsa qualità. Ma non solo: magari, incappando in uno di questi reel tra un mashup di Mimmo Modem e l’altro, le persone potrebbero effettivamente rendersi conto di aver bisogno di fare terapia e migliorare la propria vita. È un contatto diretto, giovane e sgamato, al magico mondo della psicologia.

Mi sono però chiesto: per quale motivo questi contenuti si sono moltiplicati nel tempo? Gli psicologi che si buttano sui social sono divorati da un impellente bisogno di divulgazione? Per inquadrare meglio il fenomeno ci siamo rivolti ad alcuni professionisti (su loro richiesta ne abbiamo nascosti i nomi, per tutelarne la dimensione lavorativa).

B.C., una psicoterapeuta di 32 anni, ci ha detto che “La concorrenza in ambito psicologico è gigantesca, soprattutto se sei all’inizio. Perché i nuovi iscritti all’albo sono sempre di più, e questa è la tipica professione che tradizionalmente funziona in base al passaparola. Trovare nuovi clienti è un processo lento. Spesso, se non hai una base di conoscenze che possano indirizzare al tuo studio le prime persone, rischi di non ingranare. Questa è la causa del proliferare della ‘psicologia social’: farsi pubblicità su Instagram o TikTok per molti è una necessità. Tanti terapeuti che conosco, o che lavorano con persone che conosco, lo fanno loro malgrado: la reputano un’attività che svilisce la professione, che la banalizza, ma non sanno come fare altrimenti.”

Non facciamo i puri: farsi pubblicità, di per sé, non è un’attività che compromette una figura professionale. Neanche nell’ambito medico o psicologico. Ma autopromuoversi sui social comporta per tutti determinate tecniche, linguaggi e modalità di fruizione.

“Se vuoi ottenere attenzione devi comportarti come gli influencer. Ovvero giocare con titoli e copy che spesso possono essere fuorivianti, ridurre all’osso la complessità dell’argomento—con il rischio di diffondere concetti sbagliati—ed essere molto assertivo.”

Aldilà del paradosso per il quale veniamo da anni in cui la stessa psicologia ci ha spiegato quanto i social possano essere dannosi per i giovani, e dell’evidenza che adesso i social sono una gigantesca fonte di promozione della psicologia destinata a Millennial e Gen Z, è la natura per forza di cose riduttiva del modo in cui gli argomenti sono trattati che alcuni professionisti trovano allarmante.

“Se vuoi ottenere attenzione devi comportarti come gli influencer,” continua B.C., “ovvero giocare con titoli e copy che spesso possono essere fuorvianti, ridurre all’osso la complessità dell’argomento—con il rischio di diffondere concetti sbagliati—ed essere molto assertivo. Lo strumento più diffuso degli psicologi-influencer è l’elenco puntato: per esempio, ‘tot segnali che potrebbero indicare uno stato depressivo’. Facendo così, secondo me, si può incorre in un duplice effetto negativo: da una parte, generalizzando, si annulla totalmente la componente di vissuto personale e di impegno del paziente nel mettersi in discussione nel profondo, che è alla base di una vera terapia, in favore di una serie di concetti che possono apparire monolitici ma che forniscono risposte ‘facili’. Di conseguenza, l’altro grande pericolo è quello dell’autodiagnosi. L’utilizzo del condizionale è il trucco dietro cui si nascondono in molti, ma quando poi comportamenti, sintomi e situazioni sono descritti in modo così secco e perentorio è facile cadere nell’immedesimazione per osmosi.”

“L’autodiagnosi è un problema concreto,” mi spiega G.B., 34 anni, seconda terapeuta a cui mi sono rivolto. “Ho avuto alcune pazienti molto giovani che si sono presentate in seduta con la convinzione di vivere una relazione tossica. Avevano visto sui social come riconoscerla. Una di loro mi fece proprio l’elenco degli indicatori. Ed era fuffa. Questo genere di convinzioni sono difficili da cancellare nel paziente, devi fare tutto un lavoro di ristrutturazione per cancellare quell’etichetta data sulla base di un reel. Anche perché sono convinzioni instillate da professionisti, quindi hanno un sostrato apparente di autorevolezza.”

Specialmente, mi spiega G.B., perché ciclicamente questi contenuti a tema sono sparati sui social seguendo dei trend. “I disturbi da trend topic sono una delle cose peggiori. Non è un caso che più di un paziente mi abbia parlato delle relazioni tossiche in un determinato periodo: era il contenuto del momento. C’è il mese delle relazioni tossiche, quello dell’ADHD—ed esiste anche l’autodiagnosi per procura, quella delle mamme per i figli—quello dei disturbi alimentari, ecc.”

Uno sciame di video e infografiche a tema, realizzate guardando quello che fanno i competitor e cercando il modo di porre la questione nel modo più accattivante, come suggerirebbe una buona agenzia di comunicazione. Vi sembra assurdo? Provate a fare una ricerca, spulciate un bel po’ di profili Instagram e TikTok che si occupano di divulgazione psicologica, e contate il numero dei profili che hanno postato contenuti a tema “narcisismo” nelle ultime settimane.

Questi meccanismi poi portano alla luce anche altre questioni: se di solito siamo motivati nel provare un terapeuta dal fatto che ci è stato consigliato—quindi basiamo la nostra decisione su fattori che riguardano la bravura di un professionista—l’ecosistema degli psicologi-influencer si basa su variabili diverse. Tra queste: quanto vengono bene in video, quanto sono in grado di realizzare montaggi interessanti, di porre le questioni in modo coinvolgente, di spingere argomenti che diventano virali. Tutte cose che non ci dicono niente sulle effettive capacità professionali. E per E.F., psicologo di 35 anni, il problema non si limita ai social network: “Esistono piattaforme in cui rischi di scegliere un professionista sulla base della foto che ha caricato,” dice.

Ovviamente, non è sempre il caso: ci sono ottimi professionisti e professioniste che sono anche forti sui social. E a quel punto, può subentrare un problema diverso: “Ho sentito di colleghi che hanno i dm su Instagram pieni di richieste e domande,” dice B.C., “ma certe volte i contatti generati si limitano a quello. Certe altre magari si inizia un percorso terapeutico, ma senza la minima idea di cosa significhi realmente.”

La questione sembra coinvolgere una riflessione più generale riguardo al modo in cui ormai diamo per scontato che le novità, le nostre nuove fissazioni, le induzioni di consumo, debbano coinvolgere anche gli ambiti più importanti della vita.

Il problema non è tanto la piattaforma—Instagram o TikTok non impediscono di per sé a un terapeuta di essere accorto nella divulgazione, di offrire contenuti che rispecchiano realmente la natura di determinate tematiche, essendo onesti sul fatto che quel tipo di contatto rappresenti una semplice apertura verso un mondo da approfondire—ma i fattori che premiano l’autopromozione. È la natura della competizione, insomma, ad essere spesso forzata.

Se inauguri il tuo ristorante stellato in una strada in cui ci sono solo fast food aperti H24, che vendono tutto al ribasso per attirare l’attenzione dei clienti e hanno successo, chi potrà biasimarti se a un certo punto deciderai anche tu di togliere dal menù il filet mignon e aggiungere panini a 1 euro? È successo col giornalismo, la cultura, l’attivismo, perché non dovrebbe succedere con la divulgazione psicologica?

È una questione che gli ordini professionali dovrebbero cominciare a valutare con grande attenzione, perché ho paura che siamo all’inizio.