Tutti sanno che gli Stati Uniti sono la nazione con più detenuti al mondo. Una cosa che molti non sanno, però, è che un cittadino americano ha molte più probabilità di finire in prigione rispetto a un cinese, un russo o un nord-coreano. Un’altra è che, con 2,3 milioni di detenuti, la popolazione carceraria statunitense equivale al numero di abitanti dell’Estonia e di Cipro messi insieme. Un’altra ancora è che chi è stato in carcere tende spesso a tornarci.
Secondo un recente studio dell’Ufficio di Statistica Giudiziaria—un’agenzia del Dipartimento di Giustizia statunitense—il 28 percento dei detenuti viene nuovamente arrestato dopo soli sei mesi dal rilascio. Dopo tre anni, la percentuale sale al 68 percento, e dopo cinque raggiunge un preoccupante 77 percento. Ma l’alto tasso di recidività è da tempo una costante in America. Già nel 2011, un’indagine condotta sul tema dal Pew Research Center aveva conclusioni piuttosto sconfortanti. Troppi criminali escono dal carcere soltanto per commettere un nuovo crimine, e più di quattro su dieci di questi tornano dentro prima che passino tre anni dal loro rilascio. Per troppi americani le porte della prigione continuano a riaprirsi.
Cosa dobbiamo fare per agire sulle cause di questo alto tasso di recidività? E se questo si dimostra impossibile, come possiamo fare per proteggerci al meglio? Volevo scoprirlo. E volevo anche scoprire quante delle cose che sapevo—o che pensavo di sapere—sul carcere fossero vere. Così ho scritto a una serie di istituti carcerari in tutto il mondo, chiedendo il permesso di entrarvi e risiedervi come detenuto.
La Russia, la Cina, Hong Kong, il Laos, la Thailandia, la Malesia, il Giappone, la Giamaica, la Svezia, la Norvegia, la Francia, la Gran Bretagna e persino l’Isola di Man hanno tutte rifiutato perché non erano in grado di garantire la mia incolumità. Lo Zimbabwe mi ha risposto dicendo che avrebbero preso in considerazione la mia richiesta, ma poi ha rifiutato. Ho persino mandato una mail a Guantanamo, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Proprio quando stavo per arrendermi, ho scoperto che negli Stati Uniti è possibile farsi incarcerare come “detenuto volontario in incognito”. Seguendo una certa procedura, avrei potuto farmi ammettere nei penitenziari di Arizona, Kansas, Nebraska e Nord Dakota. I miei contatti alla polizia mi hanno aiutato a creare una storia di copertura che fosse plausibile: ero stato fermato perché stavo guidando contromano, si era scoperto che la macchina era rubata ed ero stato trovato in possesso di metanfetamina. Il che era divertente perché non so guidare e all’epoca non avevo assolutamente idea di cosa fosse la metanfetamina.
L’autore mentre si fa tagliare i capelli.
Non avrei mai creduto che in America potesse esistere qualcosa di simile a un campo di concentramento. Finché a Phoenix, in Arizona, non ne ho visto uno con i miei occhi. Le prigioni della contea di Maricopa sono luoghi privi di leggi, in cui non si fa distinzione tra chi è già stato condannato e chi sta ancora aspettando il processo. Nella contea di Maricopa si trova Phoenix, una delle città più volente e conservatrici di tutto l’Arizona. Nessuna storia che pretenda di parlare della situazione delle carceri americane è completa se non fa tappa qui, perché non c’è prigione peggiore, in America, delle sei carceri gestite dall’ufficio dello sceriffo della contea di Maricopa (MCSO). Nel 1993 una di queste, la Maricopa County Jail, è diventata così affollata che lo sceriffo ha dovuto far allestire delle tende da campo nel deserto per ospitare tutti i detenuti.
Questo inferno riarso soprannominato “Tent City” è il feudo personale dello sceriffo Joe Arpaio, autoproclamatosi “il poliziotto più duro d’America”. Eletto nel 1992 grazie alla sua propaganda populista, da allora Arpaio è stato riconfermato sei volte e ha affrontato numerose cause legali. A metà degli anni Novanta, per contrastare un tasso di criminalità in costante crescita, questo veterano dell’esercito con 33 anni di servizio nell’antidroga ha messo la palla al piede a un sacco di uomini e donne. Si tratta di una figura unica nel suo genere, che può permettersi di imporre ai detenuti palle al piede e carceri fatte di tende nel deserto, nonché tutta una serie di altri abusi, in virtù del fatto che ha un mandato da parte del popolo. Arpaio è un capo politico, con un tasso d’approvazione del 80 percento da parte del suo zoccolo duro: gli anziani, che continuano a votare per lui.
Nel corso degli anni ho letto molto su Arpaio e sul MCSO e in nessun caso si trattava di resoconti accurati. Parlavano di detenuti nutriti con cibo scaduto da così tanto tempo che era verde di muffa; di generi di conforto venduti a prezzo inflazionato; di finte catture organizzate per attirare attenzione mediatica e di dichiarazioni secondo cui i cani dei secondini sarebbero nutriti meglio dei detenuti. “La mia politica nei confronti della stampa è di completa collaborazione,” afferma Arpaio. “Non ho niente da nascondere.” Dopo anni di trattative e di moine, mi è stata finalmente concessa l’autorizzazione per diventare uno dei detenuti di Arpaio.
Sono stato qualche giorno a Towers Jail, uno degli edifici grigi e funzionali utilizzati dal MCSO. Come il resto della prigione, era decisamente sovraffollato. Costruito nel 1982 e pensato per alloggiare 360 detenuti, al momento del mio arrivo ne ospitava 800.
Quando sono arrivato, una delle guardie, un umanoide enorme e untuoso, mi ha fissato in modo minaccioso e ha detto, “Bisogna tagliargli i capelli.” Ho così scoperto che, quando arrivano, a tutti i “criminali” vengono tagliati i capelli—ma solo ai maschi; le donne sono esentate da questo trattamento degradante. Dopodiché, un secondino mi ha ammanettato a una “capsula”, che poi sarebbe l’insensato soprannome che qui viene dato ai dormitori. Sul muro c’era una scritta che diceva “stare qui è come un bacio maledetto da una fica di metallo.”
Due uomini si scambiavano sguardi furtivi attraverso il Plexiglass. “Smettetela, brutti finocchi,” ha urlato loro il secondino. “Siete una vergogna per l’umanità!” Nella contea di Maricopa si alternavano tragedia e commedia, terrore e farsa. In quel momento un altro secondino è venuto nella nostra direzione. Mentre attraversava il corridoio lanciava sguardi a un gruppo di carcerati dall’aspetto devastato con addosso delle manette rosa e delle uniformi a righe orizzontali bianche e nere. Poi si è rivolto a me. “Reynolds, mi sa che gli piaci,” mi ha detto sorridendo. “Penso che te lo vogliano mettere nel culo. Che ne pensi? A voi inglesi piacciono queste cose da finocchi, o sbaglio?”
Ho osservato i detenuti che affollavano i dormitori. Alcuni dormivano sulle brande, altri giocavano a carte sulle panchine, altri sudavano vicino alla porta sperando di essere rilasciati in anticipo. Poi c’era chi se ne stava accovacciato in qualche angolo di quel luogo lugubre, borbottando o semplicemente fissando il vuoto. Sembravano dei disgraziati, nel senso più letterale e profondo del termine.
A “Tent City” vivono quasi 2.000 detenuti. D’estate, la temperatura media è di 50 gradi. Dentro la prigione, tutti i dormitori sono uguali: spogli e affollati. In questo mondo il concetto di riabilitazione del detenuto non esiste. I carcerati sono costantemente soggetti a minacce e aggressioni, e la loro sicurezza, il loro benessere e la loro salute sono continuamente messi in discussione.
Poco dopo il mio arrivo, alcuni detenuti sono stati inviati fuori dalla prigione incatenati fra loro con il compito di raccogliere l’immondizia nei sobborghi della città o di seppellire i senzatetto in tombe anonime. Tutti i detenuti indossano uniformi a strisce bianche e nere. Ma ad alleggerire le cose ci pensa l’intimo rosa. Mutande, calzini e magliette rosa sono stati introdotti nel 1995, dopo che il personale aveva denunciato la sparizione di mutande per il valore di circa 48.000 dollari. Si era scoperto che i detenuti di allora rivendevano le mutande a circa10 dollari al paio nei bar di Phoenix. Così, il personale ha pensato che il rosa potesse fungere da deterrente. Come oltraggio ulteriore, adesso anche le catene usate per il trasporto dei prigionieri dentro e fuori dalla prigione sono rosa.
Gli insensibili secondini di Towers Jail ti spogliano di ogni orgoglio iniziano a lavorare sulla tua personalità con un set di pinze e una fiamma ossidrica. “Per quanto mi riguarda,” mi ha detto una guardia, “sono solo dei coglioni. Dei criminali. Se non avessero fatto qualcosa di sbagliato non sarebbero qui dentro.”
Mi ricordo un detenuto, un tale tutto ossuto e giallastro, in piedi sulla soglia della doccia all’interno della sua capsula. Era nudo, salvo per un asciugamano rosa che gli copriva l’inguine e un paio di ciabatte arancioni. “Godetevi la giornata fuori,” ha urlato al gruppo incatenato, “sempre meglio della morte rossa o di una tartara di scarafaggio.” La morte rossa è il tremendo pasticcio di carne che viene servito ogni tanto ai detenuti. Spesso, i detenuti a cui è concesso di lavorare fuori dalla prigione riescono a contrabbandare beni all’interno del penitenziario. Questa pratica è detta “keistering”.
“Qui le sigarette sanno di merda,” mi ha detto un detenuto, “ed è per via di dove sono state nascoste.” Così come sono vietate le sigarette, sono anche vietati il caffè, il pepe, il ketchup, le bestemmie e il porno. Qui dentro, i detenuti sopravvivono con due pasti al giorno, senza carne. Tutto ciò che hanno non è che lavori pesanti, umiliazioni, tagli di capelli e cibo verde di muffa, nonché test anti-droga a campione e perquisizioni condotte nel cuore della notte da secondini armati ed estremamente aggressivi.
Se un detenuto ha bisogno di cure mediche, deve pagare. Se un detenuto vuole scrivere a casa, non gli viene data una busta e della carta da lettere—gli viene data una cartolina raffigurante lo sceriffo Joe Arpaio (per dare un volto umano al duro regime penitenziario, a quanto pare). Tutte queste punizioni, dice lo sceriffo, servono a dissuadere chiunque dal commettere crimini all’interno della sua giurisdizione.
Ma questa politica funziona? Non direi. Il tasso di criminalità di Phoenix è comunque più alto della media nazionale americana (414,8 criminali ogni 100.000 abitanti, contro una media di 301,1 nel 2012). Le affollate carceri americane sono degli alberghi per le fasce più povere della popolazione, e una porta girevole per alcolisti e tossicodipendenti. Si è mai pensato che forse cercare di contrastare l’alcolismo e l’abuso di droghe potrebbe essere un mezzo efficace per abbassare il tasso di recidività e ridimensionare il problema del sovraffollamento delle carceri? Non che io sappia. La cosa ironica è che un periodo di riabilitazione al Betty Ford Center è meno costoso di un periodo di detenzione in una di queste prigioni.
I cambiamenti avvengono lentamente. La riforma del sistema detentivo non è un argomento che porta voti in chiave elettorale, nemmeno in un sistema democratico come quello americano, che vorrebbe potersi dire illuminato. Ma negli Stati Uniti c’è anche abbastanza libertà perché a uno come me sia consentito di andare a vivere per un po’ all’interno di un carcere e vedere la situazione da vicino. Da quest’esperienza ho imparato molte cose su quali siano gli effetti della detenzione e quali quelli della recidività, e su come si possa guadagnare su queste due cose. Nella gestione delle prigioni delle contee, gli sceriffi si comportano in tutto e per tutto come degli imprenditori. Guadagnano su ogni giorno che ogni detenuto passa in carcere, e devono mantenere le carceri piene per non perdere soldi. E mantenere le prigioni private piene—o sovraffollate, come nel caso di Tent City—fa anche gli interessi delle aziende private. Il giro d’affari del settore carcerario, negli Stati Uniti, ammonta a circa 80 milioni di dollari.
Per caso alle aziende che operano in questo settore frega qualcosa della riabilitazione dei criminali? Sono stato in alcune delle carceri più dure d’America, e sinceramente credo proprio di no.
Convict Land è il libro di Alexander Reynolds sulla sua esperienza in giro per prigioni.