Identità

Un linguaggio più inclusivo è possibile, e “l’italiano è fatto così” è solo una scusa

linguaggio inclusivo they them

She/her, he/him, they/them (he/him in binary languages)… Anche in Italia, su piattaforme come Instagram, si iniziano a vedere persone che nelle bio inseriscono i pronomi (soprattutto in inglese) con cui si identificano.

Si tratta di un dettaglio per rendere manifesta la propria identità di genere, definita da GLAAD come “il senso interiore e profondamente radicato in una persona del proprio genere.”

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Per chi non ha familiarità col tema le domande potrebbero essere molte, alcune magari anche un po’ pretestuose: è l’ennesima moda? Perché dobbiamo sempre copiare dall’estero? Ma non ci sono parole italiane per dirlo? La lingua italiana non è troppo ‘rigida’ per queste cose? Perché anche una donna o uomo cisgender dovrebbe indicare i suoi pronomi, se è così evidente? E cos’è they/them?

In questo articolo abbiamo provato a raccogliere elementi utili a rispondere, partendo proprio dall’ultima domanda.

La pratica dei pronomi in bio, infatti, è molto adottata dalle persone non-binary (o enby) e genderqueer, che sperimentano la loro identità di genere come estranea alle categorie di uomo e donna, e sempre secondo GLAAD, “possono definire il loro genere come una via di mezzo tra uomo e donna, o definirlo completamente diverso da questi termini.” Da qui dunque il they/them, una particolarità grammaticale inglese, di cui non esiste una corrispettivo italiano: il “singular they.”

Le interviste sono state editate e accorciate per questioni di spazio e chiarezza.

Cos’è il Singular They o “‘They Singolare”

Licia Corbolante si occupa di gestione e ricerca terminologica, localizzazione, localizzabilità, qualità linguistica e comunicazione interculturale. Da anni cura il blog terminologiaetc, in cui ha scritto un lungo post sul Singular They, indicato dal dizionario americano Merriam-Webster come parola del decennio 2010-2019.

“Quando [per esempio] Sting canta ‘If you love SOMEBODY, set THEM free’ usa il cosiddetto singular they. È una particolarità della grammatica inglese che prevede che in alcuni casi si usino pronomi di terza persona plurale (they, them, theirs, themselves/themself e l’aggettivo possessivo their) per riferirsi a una singola persona,” mi spiega Corbolante.

“Si usa il singular they quando l’antecedente è un pronome indefinito come somebody, someone, anyone, no one, everybodynobody oppure a person. Inoltre, si può usare il singular they anche per riferirsi genericamente a una persona il cui sesso non si conosce o non è rilevante, ad esempio ‘ask a friend if THEY could help’, oppure se non si vuole, non si può o non si deve specificarlo, ad esempio ‘the police said that the victim knew THEIR killer’.” In sostanza: è vero che il pronome they corrisponde alla terza persona plurale in inglese, ma è altrettanto vero che quando utilizzato in questi contesti assume un significato generico singolare, da cui il nome ‘singular they’.

Tutto ciò si va ad aggiungere—al contrario dell’italiano—all’infinità di parole, sostantivi (friend vs. amica/o) e attributi (good vs buona/o) senza distinzione di genere dell’inglese.

Ma che c’entra tutto questo con le persone non-binary? C’entra molto, perché la particolarità del singular they ha aperto nel XXI secolo, come conferma Corbolante, a un terzo uso. Ovvero, ovviare “alla distinzione del genere grammaticale che in inglese riguarda quasi esclusivamente i pronomi di terza persona singolare.”

Corbolante mi fa un esempio pratico, ‘Robin called to say that THEY’re not feeling well and THEY’re not coming to the party,” e aggiunge che “la novità rispetto ai due usi già descritti è che il pronome they non fa riferimento a una persona generica o non identificata, come negli usi ‘tradizionali’, ma riguarda una persona specifica e nota, la cui identità è conosciuta, ma che ha scelto di non identificarsi né come ‘he’ né come ‘she’. L’indicazione sull’uso dei pronomi è stata poi formalizzata nella frase ‘My pronouns are they/them’, molto usata sui profili social.”

Le persone non-binary italiane inseriscono il Singular They nelle bio, ma utilizzano diverse alternative nella lingua italiana

Un altro esempio di frase in bio può essere “My pronouns are they/them (he/him in binary languages)”: questa ricalca la bio Instagram di Gabe* (@nonbinarygabe), 22 anni, persona non-binary.

“Nelle lingue che prevedono opzioni neutre scelgo sempre queste,” spiega. “In Italiano invece né i pronomi maschili né quelli femminili sento giusti per me, ma in mancanza di un’opzione neutra, ho scelto il minore dei mali: i pronomi maschili, perché quelli femminili mi causano disforia [il malessere percepito da una persona che non si riconosce nel sesso assegnatole alla nascita].”

Ma esistono molte altre casistiche. Per esempio, Arianna* (@mandragoraofficinarum), 23 anni, non-binary, mi spiega che in italiano utilizza sia “lui” che “lei” in maniera casuale. “Per me il maschile e il femminile linguistici, e parlo unicamente per me nel contesto della mia nonbinarietà, perdono completamente di senso,” chiarisce. “Poi ci sono anche persone non-binary che utilizzano lo schwa, altre che decidono di usare i pronomi che hanno utilizzato sin dalla nascita, o ancora altre soluzioni, e tutte sono sempre valide.” E su questo è concorde anche Gabe.

Ma perché spesso il ‘they singolare’, soprattutto sui giornali, è stato tradotto con “loro”? Corbolante risponde: “L’errore principale è ritenere che ci sia una corrispondenza biunivoca tra inglese e italiano. Penso ad esempio alle traduzioni letterali della richiesta di uso del ‘singular they’ viste in titoli come ‘Sono non binaria, datemi del loro’ oppure ‘Né lui né lei, datemi del loro’ che hanno portato a grossi fraintendimenti: molti hanno concluso che ‘loro’ fosse un pronome allocutivo di cortesia e quindi che si trattasse di pretese di estrema formalità e reverenza. Nel mondo anglofono domandare l’uso del ‘singular they’ equivale invece a chiedere di usare un linguaggio che non faccia distinzione di genere.”

Secondo Gabe e Arianna, chi divulga informazioni, come per esempio i media, dovrebbe chiedere più spesso consulenza a chi conosce l’argomento—tra cui le persone interessate. “La disinformazione è molto ampia, non solo quando si parla di persone non-binary, ma in generale.” Basta pensare più in generale alle persone transgender, per cui “vengono fatti ancora tantissimi errori, soggettivati aggettivi, usati pronomi a caso, anche all’interno dello stesso articolo,” chiosa Gabe.

Modi per aggirare il maschile generico e rendere più inclusiva la lingua italiana

In contemporanea, però, l’attenzione per un linguaggio maggiormente inclusivo sta trovando sempre più spazio. Al momento, ci sono almeno due fenomeni che lo confermerebbero.

Il primo è quello che le persone non-binary che ho interpellato osservano ogni giorno: sempre più persone stanno sperimentando escamotage grafici e/o linguistici per superare gli automatismi del maschile generico in italiano.

Del superamento del maschile generico si discute almeno dagli anni Ottanta, quando la linguista Alma Sabatini propose un uso non sessista della lingua. Per esempio, utilizzando il femminile sovraesteso—al posto del maschile sovraesteso—quando un gruppo è formato in maggioranza da donne. Un’alternativa plausibilmente valida, attualmente utilizzata in altre lingue, ma che non risolve la questione quando si contano all’interno di un gruppo persone non-binary.

Nella scrittura online, soprattuto negli spazi online personali, gli escamotage al momento più utilizzati sono: l’asterisco egualitario di genere, lo schwa (proposto da Vera Gheno, che avevamo intervistato qui), la x, la @, la u…

Escludendo schwa e u, che hanno un suono proprio, di tutte queste soluzioni, soprattutto nel parlato, si riconosco però i limiti. Per esempio, Arianna mi racconta che nello scritto utilizza spesso l’asterisco ma, dato che nel parlato non è leggibile, preferisce elidere le vocali finali.

Il secondo fenomeno, che analisi di mercato confermano strettamente legato al primo, riguarda invece l’attenzione che sempre più realtà e aziende pongono su dettagli e linguaggio quando devono pubblicizzare qualcosa o comunicare un messaggio.

A confermare questa tendenza è Ruben Vitiello, traduttore, localizzatore ed editor di TDM magazine, che ha redatto una guida dettagliata al linguaggio inclusivo nella lingua italiana. Mi racconta che la prima volta che un cliente gli ha chiesto di evitare “per quanto possibile il maschile sovraesteso” è stata circa cinque anni fa. “Credo che presto diventerà una buona pratica diffusa, una sorta di standard di settore, ma esisteranno sempre le eccezioni. La comunicazione attenta al genere non è diversa dalla comunicazione di per sé: c’è chi la cura molto, chi abbastanza e chi per niente, e continuerà a essere così.”

In questi casi schwa e asterischi sono meno richiesti, e il lavoro consiste—quando l’obiettivo è rivolgersi a un gruppo eterogeneo o a un ‘tu anonimo’ senza voler utilizzare per forza il maschile—nell’individuare ove è possibile “espedienti grammaticali e sintattici specifici per l’italiano che intervengano su tutti gli elementi con distinzione del genere: sostantivi, aggettivi, participi passati, articoli e anche pronomi,” per dirla con Corbolante.

È un allenamento che chiunque può fare, anche se magari all’inizio non verrà automatico trovare soluzioni alternative. ‘“Possiamo usare sostantivi collettivi, tipo ‘umanità’, ‘personale’ o ‘corpo docente’. Possiamo prediligere parole neutre di per sé come ‘persona’. Abbiamo poi pronomi neutri tipo ‘chi’, ‘coloro’ e ‘chiunque’, ma anche la perifrasi, che è un’arma potente ma a doppio taglio: espressioni come ‘ti diamo il benvenuto’ o ‘è uno dei tuoi contatti su Facebook’ sono sensibilmente più lunghe di ‘benvenuto’ o ‘siete amici su Facebook’,” continua Vitiello. “Bisogna sempre trovare l’equilibrio tra neutralità, chiarezza, economia e naturalezza. Non deve diventare un incubo e nemmeno una lotta senza quartiere al maschile sovraesteso: a volte è meglio quest’ultimo che una perifrasi artificiosa o difficile da comprendere.”

Le persone alleate sono le benvenute

In tutto questo, chiedo a Vitiello se pensa che tra qualche anno ci saranno meno persone “arrabbiate” quando in una didascalia o altrove ‘incontreranno’ schwa o simili. Pensa di sì, ma “non tante di meno.”

Prende a esempio i femminili professionali. “Se ne parla ciclicamente almeno da 40 anni, eppure ancora oggi quando una donna dichiara di voler essere chiamata ‘direttrice’ invece che ‘direttore’, o viceversa, se ne discute per giorni in modo partigiano, come se fosse un argomento inedito.”

Aggiungendo che “di certo l’attenzione al genere diventerà sempre più comune,” e “prima o poi avremo anche in Italia persone non binarie anche in ruoli apicali” (come è successo nel 2021 a Owen Hurcum in Galles).

In ogni caso, a prescindere da tutto, la soddisfazione di Gabe e Arianna per la diffusione dei pronomi in bio è palpabile. Secondo Gabe, servono da promemoria nel “non dare per scontati i pronomi di una persona soltanto osservando il suo aspetto, il modo in cui parla, si comporta,” in quanto “se ci chiedessimo per prima cosa i pronomi al momento delle presentazioni con persone sconosciute, si eviterebbe molto misgendering.”

Arianna, inoltre, ricorda che “fino a qualche tempo fa, solo le persone transgender e non-binary esplicitavano i loro pronomi in bio—e questo poteva renderle ancor più visibili ad aggressori—mentre adesso le cose stanno poco a poco cambiando grazie anche alle persone alleate alla comunità, che aiutano a ‘normalizzare’ la pratica.”

Nessuno è chiaramente obbligato a mettere i propri pronomi in bio. Anche perché magari si potrebbe non essere nelle condizioni di rendere nota la propria identità di genere; o in “questioning”, ovvero in una fase in cui si sta cercando di capire la propria identità di genere.

Probabilmente, ad oggi la discussione su un linguaggio più inclusivo è più aperta che mai. 

Il successo del singular they insegna che riutilizzare materiale linguistico esistente può velocizzarne nuovi usi, ma non per questo bisogna a prescindere demonizzare vari e più o meno inediti tentativi di cambiamento. Piuttosto, parliamone. 

Del resto, succede da sempre: la lingua cambia, è cambiata, e continuerà a cambiare. E affermare che “la lingua italiana è fatta così da sempre” non ha granché senso. 

Pertanto, vorrei lasciarvi con una interessante considerazione di Vitiello: “Ci abitueremo a ‘ministrə’ come abbiamo fatto per ‘ministra’? Chi può dirlo, ma trovo stimolante che molto dipenderà da noi.”

E questo vale—temi sociali riflessi nella lingua compresi—anche per tutto il resto.

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*I cognomi non sono stati indicati, usando in sostituzione i profili social.