Di recente ho finito di leggere per la seconda volta Ufociclismo, Tecniche illustrate di cartografia rivoluzionaria, scritto da Cobol Pongide e pubblicato da D Editore. Se volete approfondire l’ufologia radicale—da cui arriva l’ufociclismo—questo è l’articolo giusto per voi. Ma l’ufociclismo non c’entra (più) nulla con l’ufologia, non vuol dire cercare dischi volanti in bicicletta. Inizialmente—sulla base di uno spunto comparso sul secondo numero della rivista Men in Red—l’ufociclismo era l’andare a giro di notte, in bicicletta, imitando il comportamento degli oggetti volanti non identificati. Era una performance. Poi, dopo un periodo di abbandono, l’ufociclismo è stato recuperato ed è diventata una disciplina di esplorazione urbana con la bicicletta usata per riscoprire la città, la sua storia, i suoi quartieri e i rapporti tra questi quartieri.
Ufociclismo, Tecniche illustrate di cartografia rivoluzionaria—in mezzo alla spiegazione del metodo ufociclista applicato all’esplorazione di Roma—racconta un ciclismo resistente e ribelle, deciso a non arrendersi alla supremazia della macchina e capace di immaginare società e città diverse da quelle attuali.
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Ero molto affascinato da tutto ciò, perché io non so andare in bicicletta. La storia sulla mia incapacità di andare in bicicletta potrebbe essere stata esagerata da mio padre—che la racconta con gran divertimento in ogni occasione—ma alla fine ho deciso io stesso di adottarla sia in qualche modo in polemica contro la già citata figura paterna, sia perché in effetti l’ultimo incontro tra me e una bicicletta è avvenuto qualcosa come venti anni fa. Ho allora contattato Pongide per capire un po’ come se la passano i ciclisti urbani in grandi città come Roma, e perché queste città ce l’abbiano tanto con loro.
“Il cittadino perfetto è quello che in città ci lavora e basta, che produce e poi—da buon pendolare—se ne va più lontano possibile”
“Le città sono avverse alla bicicletta perché è un mezzo troppo lento per abbandonare la città stessa,” ha spiegato Pongide a Motherboard in un’intervista telefonica. “Mentre noi viviamo sempre di più in città respingenti, in città sempre più votate all’uso esclusivamente turistico del centro, a politiche di allontanamento di chi staziona, al design ostile. Il cittadino perfetto è quello che in città ci lavora e basta, che produce e poi—da buon pendolare—prende il suo treno, la sua automobile, il suo aereo, il suo pullman e se ne va più lontano possibile. La bicicletta è avversata perché ha questo ruolo ancora centripeto rispetto a politiche centrifughe.”
Ma questo da solo non spiega l’odio che la grande città ha per la bicicletta. “Oggi abbiamo un robot che dal cielo ci dice come muoverci,” ha continuato Pongide. “Noi siamo delle interfacce che mettono in contatto un satellite con la nostra automobile e ci spostiamo senza sapere che strada stiamo facendo.” La bicicletta, invece, permette di creare itinerari alternativi, di sfruttare scorciatoie, strade pedonali, contromani, backdoor. Di hackerare la città. “La bicicletta combina l’attraversamento della città con la sua percezione, con la capacità di capire esattamente dove stai andando e di poter fare delle scelte consapevoli.”
Poi, la bicicletta non ha bisogno di carburanti, ha un rapporto diverso con l’ambiente rispetto al motore a scoppio. E invita naturalmente alla socialità. Ogni anno a Roma viene organizzata la Ciemmona—la critical mass no borders e interplanetaria—e nel 2019 è stata a tema ufologico. “Le critical mass sono grandi gruppi di ciclisti che occupano la strada imponendo un tempo diverso alla città, un tempo che non è più quello automobilistico,” ci ha spiegato Pongide. Per dirvi come sono ridotto io: ho partecipato a critical mass, ma stavo a piedi. Comunque, alla Ciemmona 2019 ”settemila ciclisti da tutta Europa hanno invaso Roma bloccando per tre giorni questa città ostaggio delle automobili,” ha proseguito Pongide. “È stato un momento di festa che non sarebbe stato possibile se fossimo stati chiusi all’interno dell’abitacolo.”
I pedoni attraversano la città solo per fare gli ultimi cento metri tra l’automobile e l’ufficio—o tra l’automobile e il negozio dove fare acquisti—desiderosi di tornare il prima possibile a essere automobilisti. Invece la bicicletta si oppone alla progressiva distruzione (anche ecologica) degli spazi pubblici, all’idea che lo spazio principale della nostra vita sia quello privato e che l’esterno sia solo uno sfortunato ma necessario collegamento tra due spazi privati. “L’automobile è l’anello di congiunzione che lega uno spazio chiuso a un altro spazio chiuso,” ha spiegato Pongide. “Ed è anch’essa uno spazio chiuso.” L’automobile è uno spazio privato mobile, e forse è per questo che gli automobilisti vivono con tanta rabbia qualsiasi minaccia che rischi di danneggiare il loro mezzo. “Nella città in cui tutto ti è ostile, in cui non hai nulla e neanche hai quasi più diritti, quello spazietto chiuso è l’unica cosa tua,” ha aggiunto.
Quali sarebbero le soluzioni per rendere le città più a misura di ciclista e, magari, di essere umano (cioè, non di macchina)? Pongide ci ha per esempio parlato delle controverse piste ciclabili, a volte viste come riserve (per proteggere i ciclisti) a volte viste come ghetti (per isolarli), ma comunque sempre viste in funzione del dominio dell’automobile nella città. “La pista ciclabile è il modo per dare meno fastidio possibile alle automobili.” La pista ciclabile è una resa, mentre bisognerebbe riprenderci la strada, sottrarla all’automobile. Secondo Pongide, questo è possibile grazie a un sistematico disincentivo dell’automobile—con tassazioni e divieti—a un potenziamento estremo del servizio pubblico (che dovrebbe essere gratuito, o meglio interamente finanziato dalle tasse) e a incentivi per le biciclette, almeno per chi (anche fisicamente) può usarle.
“Riscrivere le mappe mentali e le mappe materiali è la prima cosa di cui hai bisogno per pensare a un mondo diverso”
Perché—ha giustamente precisato Pongide—la bicicletta non è per tutti, non è “il mezzo del futuro” in senso assoluto e anche se ha potenzialità assenti in altri veicoli, non le esprime se non attraverso un uso consapevole. La figura del rider—la bicicletta piegata alla gig economy—è probabilmente la miglior dimostrazione che la bicicletta non può da sola, per magia, riscrivere il futuro e salvarci della città neoliberista. “La più grande invenzione del capitale è sicuramente la scoperta che qualsiasi energia umana, anche quella più critica, possa essere presa e messa al servizio del capitale stesso,” ha spiegato Pongide. “Il capitalismo è onnivoro, ed è questo che lo ha reso in questi 200 anni il sistema di produzione più efficace ed efficiente.” Per riuscire a cambiare la città, la bicicletta deve essere sostenuta da politiche e da discipline. Anzi, da ufodiscipline.
L’ufociclismo, di cui Pongide presenta una serie di “ricognizioni” nel suo libro, serve a questo. Serve a riscrivere le mappe delle città perché “riscrivere le mappe mentali e le mappe materiali è la prima cosa di cui hai bisogno per pensare a un mondo diverso, a un mondo che funzioni in maniera diversa.” Per creare queste mappe alternative, l’ufociclismo parte dagli strumenti creati dalla psicogeografia, una disciplina nata negli anni Cinquanta allo scopo di spiegare gli effetti emotivi e psicologici degli ambienti umani, le loro “atmosfere.” Ma perché “ufo”ciclismo? Perché l’ufociclismo è il ciclismo sottratto alla pratica capitalista: come l’ufo è l’oggetto non identificato, e quindi indisciplinato e indisciplinabile, così l’ufociclismo è un “ciclismo non identificato.”
“Andrebbe messo ‘ufo’ davanti a ogni pratica,” ha concluso Pongide. “Se ami fare scalate dovresti fare l’ufoscalatore, se ami il calcetto dovresti fare l’ufocalcetto… dovresti sottrarre la pratica che ami a quella immediata identificabilità che sennò la rende disponibile al controllo del capitale.”
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