Sono stato nella panetteria di Milano che non ‘riesce a trovare dipendenti’

In questi giorni, come accade circa ogni sei mesi più o meno dai tempi del governo Monti, si è tornati a discutere di un tema diventato un grande classico: i giovani italiani fancazzisti che non vogliono lavorare.

La causa scatenante stavolta è stato un pezzo pubblicato un paio di giorni fa su Linkiesta, firmato dal direttore Francesco Cancellato e dal titolo “A questo annuncio non risponde nessuno: dove sono finiti tutti i disoccupati?”, in cui si raccontava la “surreale vicenda” della panetteria Pattini di corso Garibaldi a Milano, che dopo aver affisso un mese fa un cartello con scritto “cercasi personale” (per cinque diverse mansioni) non avrebbe avuto fortuna. Stando alle dichiarazioni del titolare riportate nel pezzo, i pochi presentatisi dopo aver inviato il CV avrebbero infatti rifiutato, preferendo continuare a prendere il sussidio di disoccupazione o perché residenti in zona Loreto, reputata non sufficientemente vicina al luogo di lavoro.

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L’articolo de Linkiesta è stato ripreso subito da MilanoToday—che titola “Una panetteria del centro offre cinque posti di lavoro: i curriculum arrivano ma tutti rifiutano”—e da lì è finito su tutte le maggiori testate nazionali.

Ora, forse ricorderete la notizia (uscita prima sul Resto del Carlino, poi rilanciata da un indignato Gramellini sul Corriere) dell’albergo di Castel San Pietro Terme, vicino Imola, che non riusciva a trovare una cameriera. In quel caso, Alessandro Gilioli dell’Espresso aveva fatto una telefonata al titolare, scoprendo che questi non aveva messo annunci di lavoro su un sito o un giornale. Aveva fatto invece un post sul suo profilo Facebook, senza parlare del tipo di contratto o della retribuzione o dare contatti, e poi aveva raccontato a un giornalista di non aver ricevuto candidature sufficienti—giornalista che a sua volta aveva innescato la bolla del nonostante-tutti-i-disoccupati-in-Italia-nessuno-che-voglia-fare-questo-lavoro (dopo l’uscita della notizia, l’albergatore ha ricevuto almeno 100 CV).

Volendo capire se il caso di Pattini fosse in qualche modo collegato a questo filone o se la situazione sia effettivamente così surreale (“Forse, allora, ha ragione chi dice che ai giovani non interessa la stabilità,” è una delle ipotesi di Cancellato su Linkiesta) ieri pomeriggio sono andato alla panetteria.

La panetteria Pattini.

La panetteria è moderna, in una posizione abbastanza centrale e con una clientela molto varia composta da studenti, signore di mezza età e uomini in giacca e cravatta. All’interno, quando arrivo, oltre a questi ultimi ci sono anche alcuni ragazzi che consegnano i loro CV. Da quando è uscita la notizia, mi dice un dipendente, il locale riceve continue chiamate da parte sia di giornalisti che di aspiranti lavoratori.

“Il giornalista ha visto il cartello e ha voluto saperne di più. Sembrava che fosse finita lì e invece no… non mi aspettavo tutto questo, si vede che l’argomento interessa,” mi dice il titolare quando lo incontro qualche ora più tardi e gli chiedo del clamore giornalistico. Angelo Pattini gestisce cinque attività in tutta la città, e come apprendo le posizioni lavorative non riguardano un unico punto vendita: “sono aperte per tutti e cinque i negozi, e sulle vetrine di tutti e cinque c’è lo stesso cartello.”

“Abbiamo ricevuto un mare di curricula,” mi racconta, aggiungendo che erano quasi tutti di stranieri. “A sentire giornali e televisione sembra che tutti muoiano di fame; visto dalla mia parte, i cavoli a merenda: sembra che gli italiani questi lavori non vogliano più fare.” Ipotizzando che spesso per gli annunci di lavoro che non ottengono risposte il problema di fondo sia economico, provo a chiedere al titolare della retribuzione. Pattini dice di adottare la paga sindacale (“anche perché qui ci fanno sempre controlli, non si può più fare quello che si vuole come una volta”), e di avere due tipi di contratti, “quello della panificazione e quello dell’interazione.”

Nonostante questo, aggiunge, “subiamo una serie impressionante di rifiuti.” Poi fa uno degli esempi riportati altrove sulla stampa: quello del barista di 55 anni che alla fine del mese di prova ha lasciato per evitare di perdere i 700 euro di disoccupazione. “Oltre ai 700 euro fanno qualche lavoretto, e preferiscono avere la disoccupazione sicura,” dice Pattini.

Alcuni ragazzi lasciano i loro CV per lavorare.

In ogni caso, sembra che il suo cruccio maggiore non sia trovare lavoratori e basta, ma trovare lavoratori italiani disposti a svolgere queste professioni (“Non so dove andare a prendere gli italiani. Il 40 percento dei giovani italiani sono disoccupati: ma dove sono? Chi li vede?”). Se mi conferma che grazie all’annuncio ha appena assunto tre ragazze italiane, aggiunge infatti che “trenta dipendenti su sessanta sono stranieri” e che quattro giovani italiani assunti lo scorso anno sono poi andati a Londra, “dove fanno lo stesso lavoro.”

“Se fossero italiani sarebbe meglio,” continua citando “quello che fa il Ramadan—una volta ti mandavano a fare un bagno, ora non si può più—o l’egiziano che non può più maneggiare lo strutto di maiale e non va a prendere un prosciutto in cantina.” “Ma io mi sono adeguato, ci vado abbastanza d’accordo, li ho capiti,” dice riferendosi ai dipendenti musulmani.

Quando gli chiedo un ultimo commento, risponde: “Io non intendevo dire che gli italiani non hanno voglia di lavorare: non hanno più voglia di fare questi lavori. Presto anche i tramvieri diventeranno stranieri.”

Per capire qualcosa in più, dopo essermi congedato dal gestore di Pattini ho anche contattato Claudio Superchi—segretario generale della FLAI, la sezione della CGIL che si occupa dei lavoratori di panetterie e pasticcerie, per la Lombardia. “Ho appena letto l’articolo e sto indagando per capire se quest’azienda sia associata a noi e che tipo di contratti fanno,” mi spiega al telefono quando mi dico dubbioso sulla dinamica che porterebbe a rinunciare a una paga minima di 1400 euro per i 700 della disoccupazione. “Possiamo aiutarli a trovare personale ma bisogna vedere che tipo di contratti vengono proposti e soprattutto perché gli si preferisce un sussidio di disoccupazione,” che comunque dura pochi mesi.

“Da quanto ho capito mi sembra che il problema sia più che altro quello della difficoltà a trovare lavoratori italiani,” aggiunge Superchi. “Ma un lavoratore è un lavoratore,” commenta, rifiutandosi poi di entrare nella polemica—che definisce “assolutamente sterile”—sugli italiani che non hanno voglia di lavorare.

Dopo aver provato, senza risultati, a rintracciare persone che avessero inviato il loro CV a Pattini e poi rifiutato il posto, non ho trovato elementi paragonabili alla vicenda della cameriera di Castel San Pietro Terme. Ma quello che posso dire con sicurezza è che della retorica dei giornali sulle questioni di lavoro—a differenza dei panettieri—potremmo fare volentieri a meno.

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