L’editoriale di due giorni fa di Marco Travaglio sui presunti rapporti tra trafficanti e Ong che operano nel Mediterraneo ha sollevato forti polemiche verso il direttore de Il Fatto Quotidiano, accusato da più parti di semplificare la questione e di fornirne una visione estremamente di parte e basata su fonti deboli e comunque non esplicitate.
Come ha scritto Annalisa Camilli su Internazionale, ad esempio, l’articolo di Travaglio (e la sua risposta a Diego Bianchi e alla giornalista Francesca Mannocchi) muovono delle accuse mirate alle Ong, parlando di elementi “acclarati” di colpevolezza che al momento non trovano riscontri sostanziali o definitivi altrove—se non nello scrivere di Travaglio che, però, non cita prove o evidenze per sostenerli.
Videos by VICE
Lascio il fact-checking al pezzo di Camilli, che di questi temi scrive con competenza e cura da tempo, ma non posso fare a meno di notare due cose: la prima è come per certo giornalismo italiano non conti affatto che giornalisti che si occupano di immigrazione da anni, inchieste, testate specializzate internazionali e un centro di ricerca come Forensic Architecture abbiano già scritto e trattato un dato tema e fornito elementi sostanziali e dati chiari su di esso.
E la seconda, il modo in cui questo giornalismo contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica su temi complessi e sensibili (come quello dell’immigrazione, peraltro al centro dell’azione del nuovo Governo).
La sensazione è che il lavoro giornalistico approfondito e accurato abbia molta meno forza e possibilità di trovare spazi di contenuti—giornalisticamente più deboli—come l’editoriale di Travaglio, che non ha una competenza specialistica sulla questione e ne scrive da opinionista, restando in redazione, alla luce della sua percezione e tesi, e con un lavoro di analisi poco approfondito e trasparente che non gli impedisce, comunque, di scrivere di un legame “acclarato e addirittura rivendicato” tra le Ong che operano in mare e i trafficanti. Il tutto passando al di sopra delle fonti chiare disponibili, con cui non si deve necessariamente essere d’accordo, ma che non possono essere ignorate.
È una dinamica che si manifesta spesso quando le grandi firme decidono di planare improvvisamente su temi complessi e molto dibattuti—come quelli tecnologici o scientifici, tra gli altri—restando attaccati alle scrivanie e ignorando quanto è stato prodotto in precedenza sul piano nazionale e internazionale, ma scrivendone alla luce della loro illuminante opinione.
I risultati sono di norma articoli redatti senza citare uno straccio di fonte, senza contribuire a nulla di nuovo e nello stile—tutto italiano—del “temino”. Stando sul caso di questi giorni, Travaglio può benissimo decidere di ritenere debole e non soddisfacente il lavoro di Forensic Architecture, può tranquillamente sostenere che i report e i dati dell’Ispi siano poco convincenti e che il fatto che nessuna inchiesta abbia portato in superficie fatti rilevanti sia, di per sé, non significativo. Può farlo, ma deve fornire elementi chiari per mostrare su cosa si basa il suo pensiero.
Questi giornalisti sono in una posizione di potere e di visibilità molto più forte degli altri e questo imporrebbe loro uno sforzo di trasparenza e responsabilità ancora maggiore, perché quanto da loro sostenuto avrà inevitabilmente un’eco esponenzialmente più potente di tutto il resto e una capacità maggiore di influenzare l’opinione pubblica. Questo vale in particolare per macro-temi come l’immigrazione, su cui la propaganda politica spara a cannone ogni giorno e una discussione razionale—anche oppositiva—pare impossibile.
Il rischio, altrimenti, è di inquinare ulteriormente un dibattito pubblico già dirottato dalla politica e dal suo linguaggio osceno con mezze verità, supposizioni, sospetti, sparate di tesi senza riscontro. Si rischia di fare un giornalismo tossico, in forme che fanno danni da decenni, blocca spazi e talenti prendendo però tanti complimenti e consensi, riempiendo i teatri e generando mostri.
Segui Philip su Twitter.