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Tre ragazze italiane sono state arrestate e poi rilasciate, in Francia, a seguito di una manifestazione di migranti e attivisti No Borders tenutasi lo scorso 23 gennaio a Calais.
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Tremila persone arrivate dal resto del paese – ma anche da Inghilterra, Belgio e Germania – si erano radunate nella Giungla per mostrare solidarietà alle circa 5.000 persone che vivono la propria quotidianità ‘costrette’ nel limbo dell’accampamento più famoso d’Europa.
Sabato scorso, il corteo No Borders ha sfilato fino alle reti di protezione del porto e della zona in cui sostano i camion. Per disperdere la manifestazione, la polizia ha sparato gas lacrimogeni — tuttavia, un gruppo di manifestanti è riuscito ad aggirare i controlli ed entrare nel porto raggiungendo la nave The Spirit of Britain, un traghetto diretto alla città inglese di Dover.
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Alcuni di loro sono riusciti a salire sulla nave, restandoci per alcune ore. Gli attivisti raccontano che il gruppo di persone rimasto giù è stato caricato più volte dalla polizia francese.
Alla fine 35 persone sono state fermate: tra loro anche tre ragazze italiane che vivono, lavorano e studiano a Parigi.
Nello Stato di Emergenza francese
Martina, Ornella e Valentina sono dunque le prime “vittime” italiane dello stato d’emergenza proclamato dal presidente francese Hollande il giorno dopo gli attentati di Parigi, e prolungato per altri tre mesi a fine novembre.
Lo stato d’emergenza dona ampi poteri ai prefetti e alla polizia, facilita il fermo amministrativo, permette di fare perquisizioni in casa senza il mandato di un giudice, estende l’uso degli arresti domiciliari e dell’obbligo di firma.
Le tre ragazze italiane sono state fermate a margine della manifestazione, sono state trattenute alcune ore in una stanza del CRA di zona a Calais e poi trasferite in quello di Lille. I CRA sono l’equivalente dei CIE italiani, i centri di identificazione ed espulsione per cittadini non comunitari.
Ma Ornella, Martina e Valentina sono cittadine comunitarie, italiane, vivono, studiano e lavorano a Parigi. Martina e Valentina sono due studentesse torinesi iscritte all’università francese, Ornella lavora e studia nella capitale.
VICE News ha parlato con loro poche ore dopo il rilascio, avvenuto mercoledì sera.
“Finalmente siamo fuori, ora stiamo meglio,” raccontano. “Eravamo in sette, ci ha prese la polizia di frontiera al porto, siamo state un’ora in una stanza senza che ci venisse notificato nulla. Ci hanno fatte uscire solo quando abbiamo minacciato di fare pipì per terra, dato che non ci permettevano di andare in bagno.”
Nel CRA di Coquelles-Calais le ragazze hanno trascorso un giorno e una notte. “Ci hanno preso le impronte digitali su tutte e dieci le dita delle mani. I poliziotti ci dicevano che avevamo danneggiato le reti di protezione del porto e la barca. Parlavano degli attivisti No Borders come di criminali e a un certo punto ci hanno fatto pressione, dicendoci che un migrante era morto per colpa nostra. Volevano farci sentire in colpa di essere stati solidali con loro e di aver provocato un morto,” accusano.
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Dopo 24 ore i quattro francesi che erano trattenuti con loro sono stati rilasciati, mentre loro tre sono state trasferite al CRA di Lille — nonostante il procuratore, nel frattempo, avesse fatto cadere le accuse a loro carico.
Con lo stato di emergenza, però, è il prefetto ad avere pieni poteri. “Per il procuratore potevamo essere rilasciate, per il prefetto no,” spiegano, “e ci ha dato un foglio di via perché prese in flagranza di reato e senza una casa in Francia. Due bugie in un colpo solo.”
I ‘CIE’ francesi, visti dall’interno
“Quando arrivi nei CRA ti danno una coperta,” raccontano le ragazze a VICE News, “dentro faceva molto freddo. Noi ne abbiamo chieste tre e le abbiamo date anche agli altri, perché alcuni non le avevano. Ti danno anche una mini-saponetta tipo quelle che ti danno in albergo, ma non ti dicono che te la devi far bastare per cinque giorni.”
“Altra cosa: non ci sono orologi alle pareti, perdi il contatto con la giornata. Stare lì dentro ti disconnette dal tempo,” dicono le ragazze.
Molti migranti non parlano francese, così Ornella, Martina e Valentina hanno cercato di fornire una traduzione di base: “In quei tre giorni [le ragazze sono state fermate lunedì e rilasciate mercoledì, ndr] abbiamo cercato di fare traduzioni per tutti. Loro non sapevano neanche di poter avere un avvocato d’ufficio perché nessuno glielo dice. Ora lo sanno.”
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Dopo quasi tre giorni nel CRA, il prefetto di Pas-de-Calais ha ribaltato le accuse mosse dopo il fermo di sabato. Le ragazze, cui era stato anche prospettata l’emissione di un foglio di via che le avrebbe costrette ad abbandonare la Francia, sono state scagionate.
Per Ornella si tratta di un lasso di tempo troppo lungo: “Ci hanno messo quattro giorni a verificare che vivevamo a Parigi e che eravamo italiane? Che non potevamo stare in un centro di identificazione per non comunitari? È una follia,” spiegano.
La solidarietà arriva dall’Italia
Dall’Italia si era mossa una campagna di solidarietà per chiedere la loro liberazione, che ora prosegue per domandare la messa in libertà di sei migranti arrestati durante il corteo di sabato. Lunedì era circolato in rete un appello scritto dal collettivo milanese Off Topic, dal centro sociale Torchiera, dal circolo dei Malfattori e firmato da altri spazi e associazioni, titolato spirit of freedom.
Martedì pomeriggio c’è stato un tweetstorm all’account dell’ambasciata italiana di Francia con l’hashtag #CalaisFreedom4All e lunedì primo febbraio a Milano alle ore 18 ci sarà un presidio davanti al consolato francese.
Secondo Ornella, dopo gli attentati il clima in Francia è peggiorato, “il livello di pressione e repressione è altissimo. Le assignation à résidence, simile ai nostri arresti domiciliari, è diventata preventiva: se hanno il sospetto che farai qualcosa, ti sbattono in casa con obbligo di firma.”
Le ragazze ringraziano per il supporto arrivato dall’Italia, e lanciano un appello: “Chiediamo a tutti di continuare a manifestare: se siamo andate a Calais è perché era giusto essere lì e stare al loro fianco […] Ora abbiamo scoperto cos’è la detenzione, cosa vuol dire perdere la libertà. Dentro ci sono ancora sei migranti fermati con noi. E poi tutti gli altri, quelli che non abbiamo incrociato in questa storia.”
Cos’è la Giungla di Calais, oggi
La Giungla di Calais, una delle barriere d’Europa, è il varco d’ingresso verso la Gran Bretagna per i migranti, che quotidianamente cercano di raggiungerla nascondendosi nei cassoni dei tir o nelle navi.
Nel tentativo di superare questa barriera, secondo il sito Calais migrant solidarity, sono morte 24 persone durante il 2015. A Calais si muore ad ogni età e in diversi modi.
Sono stati gli abitanti del villaggio a iniziare a chiamare l’accampamento Giungla, riferendosi alla traduzione della parola “foresta” dal persiano. La Giungla è una vasta distesa di terra e fango dove si dorme in baracche di legno, container e tende. Una precarietà fatta per durare il più a lungo possibile e resistere a pioggia e vento, abbondanti e frequenti da quelle parti, soprattutto in inverno.
Attorno al villaggio gira anche una comunità di persone solidali e si è creata una certa complicità tra attivisti, migranti e una parte degli abitanti di Calais. Tra le reti attive da più tempo c’è quella di Passeurs d’hospitalités. I tentativi di sgombero o di allontanamento della polizia sono frequenti — l’ultimo è avvenuto la notte di lunedì 18 gennaio.
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