È passata più di una settimana dalla finale di Sanremo, il turbine dei meme si è affievolito e tutti possiamo riprendere le nostre vite come se niente fosse successo. Forse. Tarek Iurcich, conosciuto come Rancore da quasi quindici anni, è vestito tutto di nero, compreso il cappello, ha l’aria di chi non ha ancora capito bene cosa è successo e sfoggia un sorriso leggero da fanciullo.
Si siede di fronte a me e a voce alta inizia a raccontare. Con “Eden”, Rancore ha lanciato una pietra miliare sul cammino dell’hip hop italiano: per la prima volta in settant’anni di Festival, un pezzo rap ha vinto il premio dedicato al miglior testo in gara.
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Con “Eden”, Rancore ha lanciato una pietra miliare sul cammino dell’hip hop italiano: per la prima volta in settant’anni di Festival, un pezzo rap ha vinto il premio dedicato al miglior testo in gara
“È un passo importante, per il rap italiano ma in generale anche per Sanremo. Da una parte c’è la conferma come nuovo linguaggio, anche da parte di enti che da settant’anni fanno proprio questo: ricevere ed elargire riconoscimenti ufficiali. D’altra parte, avendolo fatto una volta, Sanremo lo può rifare”. L’impresa che Rancore ha davvero compiuto quest’anno, quindi, è stata quella di creare un precedente, tracciare l’inizio di un sentiero che per molto tempo sembrava essere essenzialmente interdetto.
C’è da chiedersi allora cosa sia cambiato, perché quello che non c’era adesso c’è, perché solo ora il rap italiano è stato “visto” da un pubblico che lo ha ignorato per così tanti anni. Secondo Rancore è una questione di tempi e di cose che cambiano, ma è anche merito del rap stesso e della sua versatilità; la capacità di adattarsi al contenitore e cambiarlo dall’interno. “Devi essere come acqua, amico mio, esattamente come diceva Bruce Lee“, mi spiega Rancore per illustrare la sua piccola ma grande rivoluzione.
“Devi saper cambiare te stesso secondo il contenitore, anche se è vero che poi ne sarai sempre parte, nel momento in cui riesci a inserirti. A volte, quindi, il contenuto può modificare il contenitore”. Non è la prima volta che questa citazione compare nei suoi testi, ed è bello e importante che ritorni in un momento così significativo; penso ad esempio a “Rhymebox #1“, in cui sentiamo proprio la voce di Bruce Lee che come un mantra ci ricorda in quale direzione procedere.
La spinta che ha portato Rancore a partecipare quest’anno al Festival da solista—ricordiamo che l’anno scorso aveva partecipato in un featuring con Daniele Silvestri e la sua “Argentovivo”—e a mettere se stesso sul palco insieme a tutto il suo passato e la sua complessità è stata la necessità di dire un qualcosa che non poteva essere ulteriormente rimandato.
“Era il momento di mandare un certo tipo di segnale, quindi ho deciso di diffonderlo.”
“Era il momento di mandare un certo tipo di segnale, quindi ho deciso di diffonderlo in un posto grande: non dovevo sentirmi in colpa se il messaggio non veniva recepito, ma avrei dovuto sentirmici qualora non ci avessi nemmeno provato.” Rancore mi parla di una spinta dalla natura quasi inspiegabile, un motivo che non è mai stato superficiale, ma “che andava oltre me stesso”, mi dice, “non per portarmi energia, anzi, a volte proprio per togliermela”.
Il messaggio di “Eden”, però, come dice la canzone stessa, è criptato: Questo è un codice, ci spiega fin dall’intro, insistente, come una ricetrasmittente che invia un messaggio al di là dell’oceano. Allo stesso modo dei poeti ermetici, di cui Rancore assorbe le influenze dando loro nuova vita e significati—“se loro usavano la pochezza delle parole, io uso la ‘tantezza’!”—, così anche la rivoluzione che ci viene narrata in “Eden” passa attraverso un codice, quello della mela e della scelta.
“Eden” nasce dunque come una canzone cifrata che si svela solamente alle orecchie di chi ascolta ed è è pronto a capire, a iniziare un viaggio nel mare dei riferimenti e delle citazioni del rapper. E la musica diventa così un modo per essere liberi di esprimersi “in un momento secondo me dittatoriale”, adoperandola come strumento per raggiungere e conservare la verità al riparo da chi non è pronto ad accettarla. “La musica diventa una rotta per tornare a quell’isola nascosta dove c’è il tesoro e dove non solo posso andarci io, ma posso indicare a qualcuno—se sa ascoltare, se sa capirmi o ha la stessa isola mia—come arrivarci”, afferma molto sicuro di sé.
Il desiderio di lasciare indietro se stessi, e usare il rap per parlare di quello che c’è al di fuori di sé, è un elemento ricorrente nella storia di Rancore e della sua musica. Parlando, cerchiamo di trovare insieme le radici di questo allontanamento da sé che ha lo scopo di arrivare a diventare “il medium delle cose normali, della vita”, come mi dice sorridendo.
“Eden” nasce come una canzone cifrata che si svela solamente alle orecchie di chi ascolta e di chi è pronto a capire, a iniziare un viaggio nel mare dei riferimenti e delle citazioni.”
Discutiamo dell’importanza di mettere da parte il proprio ego, che più di ogni altra cosa ti rinchiude dentro te stesso e non ti fa vedere il mondo all’esterno. “È bello parlare un po’ con le cose, perché poi le cose parlano, e uno dei modi per dare loro voce è dire loro ‘voglio scrivere di te’. Se c’è un pensiero che ripeto sempre ai ragazzi che lavorano con la creatività è che, se c’è un modo per accenderlo ‘sto mondo, senza dargli fuoco, ma accenderlo del giusto fuoco, è proprio quello di provare a raccontarlo”.
Uno degli esempi più vividi di questo approccio allo storytelling è “Seguime”, il secondo brano del disco omonimo uscito del 2006, ormai quasi quindici anni fa. Luce in faccia / nasci da una pancia / cominciano a formarsi i primi denti per chi mangia / cominci a formulare i primi versi con la bocca. “Seguime” inizia così, e in 4 minuti e 39 secondi narra una vita che il Rancore quindicenne ricalca sulle storie di chi allora lo circondava, a partire dalla sua famiglia.
“Sembra che stia descrivendo la vita ipotetica di qualcuno, invece ho semplicemente preso la mia età, l’ho mischiata a quella dei miei genitori e dei miei nonni, e poi ho raccontato una storia che prendeva questo soggetto per portarlo in 4 minuti dall’inizio alla fine di questa vita immaginaria, come una macchina del tempo… ma anche come un susseguirsi di cose scontate e di banalità, visto che poi l’esistenza in realtà non è così. Questo dimostra che la consapevolezza di quei miei quindici anni era piuttosto circoscritta”.
Al capo opposto di questo percorso, come a tracciarne i confini, c’è “Skatepark” da Musica per bambini, l’ultimo disco uscito nel 2018. Lì ritorna l’io lirico di Rancore in tutta la sua potenza: ha di nuovo quindici anni in un parchetto, e quanto è vero che si skata meglio quando lo skatepark è vuoto, posso sbagliare senza che nessuno mi veda, posso farmi male ma posso anche essere bravo.
“Ormai sono talmente frantumato che non mi interessa se mi continuate a frantumare, tipo, prendere il coraggio di andare a Sanremo fregandosene.”
A partire dalla frase Non ho più tanta pazienza come quando provavo quei varial, torna il concetto espresso anche in “Eden” per cui ci può essere unità solo in uno stato di grazia e di integrità, come l’Eden appunto; o come l’infanzia. “Più cresci e più ti dividi da una parte di te, più sei piccolo e più sei unito”: Come l’Eden, prima del ta-ta-ta (prima della rottura) / Quando il cielo era infinito / Quando c’era la festa e non serviva l’invito.
“Quello che ricordo di quando ero più piccolo, o comunque del periodo dello skateboarding, tra i dodici e i diciotto anni, è che per provare un solo trick ci si stava delle ore, e lo stesso avveniva per imparare a rappare: rimanevamo per strada a fare freestyle per secoli interi. Era un modo per trovare se stessi, per entrare talmente tanto dentro di sé da scoprire degli aspetti che non avevi mai visto prima”. Crescendo, invece, le problematiche cambiano, e si è costretti a lasciar andare qualche parte di sé per difendersi dagli altri.
A volte, addirittura, si può arrivare sino a fare il giro completo, e trovare il coraggio per dichiarare: “Ormai sono talmente frantumato che non mi interessa se mi continuate a frantumare, tipo, prendere il coraggio di andare a Sanremo fregandosene. Se prima provavo i varial per ore e ore, adesso vado a fare il contest e sticazzi. Nel peggiore dei casi mi spacco una gamba”. La costanza di Rancore, dunque, ha solo cambiato forma: si è trasformata in coraggio e ha fatto il giro, per ridere ancora una volta di se stessi e mettersi in gioco.
“Se riesci a vedere la tua vita sia come regista sia come attore, che è la cosa più complicata da fare, hai forse modo di vivere tutto come un gioco, e hai anche la possibilità di ridere un po’ insieme al tuo destino, perché il tuo destino ride spesso di te”, questo è quello che mi dice quando parliamo del video di “Eden”, in cui Rancore si ritrova catapultato in una realtà digitale, dentro un videogioco.
“Sotto sotto forse la vita è un po’ un teatrino. Se tu guardi un film o un’opera teatrale non puoi dire se il personaggio ha sbagliato o ha agito al meglio, è come se fosse già un po’ tutto parte di un grande quadro.”
Torna così il tema della scelta e dell’errore: “Io ho sbagliato tantissimo in vita mia, ho preso un sacco di scelte sbagliate e ho fatto tantissima fatica a recuperare un po’ degli errori fatti, anche quelli più gravi. Come dico nel pezzo, ogni scelta crea ciò che siamo, quindi è importante capire quanto sotto sotto la vita sia un po’ un teatrino. Se tu guardi un film o un’opera teatrale non puoi dire se il personaggio ha sbagliato o ha agito al meglio, è come se fosse già un po’ tutto parte di un grande quadro”.
La musica per Rancore, e la scrittura soprattutto, è tante cose tutte insieme, difficili e complesse perché nate e cresciute in un luogo di sofferenza e di domande, in cui non era sufficiente alzare lo sguardo e accettare la realtà per quella che era. Bisognava per forza prendere una pala e scavare per raggiungere la verità, o semplicemente alzare lo sguardo verso la luce del sole. “Parlare della luce sicuramente è un po’ come trovarla dentro di sé, nella propria essenza, scoprirne un pezzettino in più”, mi dice a proposito di “S.U.N.S.H.I.N.E”, un pezzo molto importante del 2015, uscito in un EP e realizzato con DJ Myke. Basta scrollare i commenti di YouTube sotto il video della canzone per capire l’impatto che ha avuto quando è uscita, la sua forza terapeutica.
La musica per Rancore, però, è anche una macchina del tempo: “Non so come spiegare, io devo stare attento a quello che dico. È una vita che penso di scrivere un testo in cui sostengo che diventerò ricchissimo. Credimi, quando metti in rima le cose si avverano come se fossero formule magiche!”. Ridiamo un po’, ma torniamo subito seri, perché stavolta parliamo veramente del luogo in cui è nato e dove vive ancora, e la definizione che mi dà di questo posto che è il Tufello—un quartiere popolare di Roma—è quanto di più vicino ci sia a una definizione della sua stessa musica:
“A me il Tufello ha dato la casa, la sensazione di quotidianità, una casa intesa come giornata. Casa intesa come stare insieme a qualcuno per fare qualcosa, ma anche dove stare da soli a pensare. Casa intesa come gruppo di persone, casa intesa come me stesso, casa intesa in tutti i modi: come cortile e come labirinto. Il quartiere diventa la mia Springfield o la mia Gotham City. Ci sono i buoni i cattivi: c’è ogni cosa”.
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