Il gioco di Giulio è quello di toccare punti estremamente tradizionali e quasi dimenticati della cucina umbra in forme, consistenze, tecniche e temperature senza schemi
In un paese umbro di 200 anime che si dipana su un’unica strada e che una volta era palcoscenico di mulini e frantoi, ha aperto da poco un ristorante che non ti aspetti certo in una frazione di Foligno. UNE è un ristorante di alta cucina incastonato in un vecchio mulino-frantoio del 1600 con vista sulla torre di Capodacqua di Foligno: praticamente il centro del mondo -almeno per quanto lo intendevano fino al Medioevo.
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Fino a qui, mentre scrivo e vi immagino leggere, non scommetterei mai di avervi incuriosito molto: un ristorante di alta cucina in un posto sconosciuto, lo capisco, non è certo la notizia che vi cambierà la giornata. Ma le cose cambiano se inseriamo nella narrazione un giovane cuoco che per anni è stato il responsabile della creatività da Disfrutar a Barcellona, uno dei ristoranti più creativi al mondo.
Giulio Gigli, 34 anni, durante il primo lockdown si è convinto a tornare nella sua Foligno e aprire qualcosa che raccontasse i prodotti e le ricette umbre, lette in chiave estremamente personale e insieme estremamente tradizionale.
“Quando sono tornato,” mi dice all’esterno del suo ristorante, “ho capito che mi sarebbe piaciuto aprire qualcosa di mio. Bisognava solo trovare il posto.” Il posto lo trova: un casale rustico in cui Giulio e la sua compagna Lucile Kopczynski, che si occupa della parte gestionale, hanno creato due anime: una al piano terra più spartana e una soppalcata con tovaglie bianche. Il tutto con volte e mattoni a vista di 500 anni fa. “Abbiamo deciso di chiamarlo UNE, che significa acqua nell’antica lingua umbra: questo posto che sembra un paesino era in realtà il punto da cui partiva l’acqua che andava ai mulini. Oggi porta l’acqua direttamente a Foligno.” Insomma era un posto molto importante per cui serviva una torretta da cui infilzare chiunque provasse a occuparlo.
Insieme al casale, Giulio si è ritrovato anche con un bel pezzo di terreno che sta già diventando il futuro orto di UNE. “Abbiamo iniziato con un piccolo orto dimostrativo,” mi dice indicandomi delle foglie di cavolo gigantesche. “L’idea è di produrre quanto più possibile per sostentare il ristorante.”
Mi racconta anche che da quelle parti se compri o affitti uno stabile, ti viene assegnato anche un pezzo di bosco. “Vedi quegli alberi laggiù? Quelli vicino alla parte più alta?” Ho detto di sì, e spero di averci visto giusto. “Quello è il pezzo di bosco che mi hanno dato: lo fanno perché così hai la responsabilità di tenerlo come si deve e curarlo.” Questa cosa del bosco l’ho trovata poetica, etica e magnifica.
Trovatelo voi un ristorante fine dining che vi piazza come prima portata uno spicchio d’aglio
Giulio ha in curriculum di tutto rispetto: è passato per le cucine de Il Pagliaccio a Roma (due stelle Michelin), da quelle di Le Cheval Blanc di Yannick Alléno in Francia (al momento chiuso, NdR), dal tristellato Benu a San Francisco fino a Disfrutar a Barcellona, quinto migliore ristorante al mondo secondo la 50 Best Restaurants. Da cui ha sgraffignato anche alcuni colleghi di sala e di cucina che si è portato a Capodacqua.
Sono qui a mangiare a pranzo, in mezzo alla settimana: quasi tutti i tavoli si riempiono a uno a uno di persone del posto, ma anche di turisti. C’è una signora straniera che si gode un piatto dopo l’altro studiandoli con attenzione. Vi ricordo che non è dietro l’angolo: ci vieni apposta da queste parti.
Tutti parlano di sostenibilità. Io non so cosa significhi sostenibilità per davvero, ma so che quasi nessuno la insegue come si deve. Perché è dura ed è quasi impossibile
Mi siedo al bancone, osservo i ragazzi e le ragazze finire i piatti, mentre Fabrizio Olimpieri, responsabile di sala e della cantina, mi versa vini umbri uno dietro l’altro, uno più interessante dell’altro. “La cantina la stiamo costruendo piano piano, ma quasi tutte le referenze abbiamo deciso che dovessero essere naturali,” mi dice Fabrizio.
I menu degustazione sono due: “Acquedotto”, da cinque portate (45 euro) e “Relazioni”, da sette portate (60 euro). Il gioco di Giulio è quello di toccare punti estremamente tradizionali e quasi dimenticati della cucina umbra in forme, consistenze, tecniche e temperature senza schemi. Il primo piatto che mi piazza davanti -oltre agli aperitivi: un peperone tondo in conserva ripieno di baccalà. Il baccalà è tipico della zona, non per la presenza del mare, ovviamente, ma perché questa è terra di commerci. Insieme al peperone arriva un cannolo di hummus di ceci neri e uno spicchio d’aglio gigante.
“Questo è l’aglione: un aglio grandissimo che rimane dolce: non è come un aglio normale. Accanto c’è il suo fiore in conserva e sotto ajo blanco, una zuppa fredda fatta con aglio, mandorle, olio e aceto di sambuco.” In bocca mi esplode il sapore dell’aglio confit, morbido, dolce, mentre punte di acidità si mettono a ballare in bocca. Trovatelo voi un ristorante fine dining che vi piazza come prima portata uno spicchio d’aglio e vi rende pure dipendenti.
Il pranzo prosegue tra dimostrazioni mirabolanti di scarto zero (c’è un piatto dove viene usato tutto di una patata locale, con in più della pelle avanzata da una trota, che viene soffiata), di pesci del territorio come la trota fario, di utilizzo del giardino del ristorante (c’è malva e spinaci selvatici dappertutto e Giulio ci fa degli gnocchi insieme a funghi selvatici) e di ricette della tradizione riviste a modo suo. “Questa è terra di piccioni. E da queste parti il piccione si fa ripieno.” Così ha pensato bene di prendere un piccione, riempirlo DI CIAUSCOLO e accompagnarlo con la commovente Giardiniera della nonna, che gli ha passato la ricetta.
L’Umbria c’è anche se non la vedi: viene messa all’interno di sferificazioni, viene toccata con ingredienti che più locali non si può e rispettata nelle ricette di famiglia, ma tutto viene elaborato da una testa che viaggia a mille.
“Questa è la nostra cheesecake,” mi dice Giulio mettendomi davanti un piatto di spumette molto carine, ma assolutamente lontane da una qualsivoglia idea di cheesecake si possa avere. “È praticamente tutta a base di carota: succo, chutney e praliné. Per fare quella salsa che vedi sotto mi è venuto in mente di usare una macchina per fare il cioccolato. In pratica hai la consistenza grassa del cioccolato in bocca, ma è succo puro di carota.” Inutile dire che è stata una delle cheesecake migliori mai assaggiate.
“Tutti parlano di sostenibilità,” mi dice Giulio. “Io non so cosa significhi sostenibilità per davvero, ma so che quasi nessuno la insegue come si deve. Perché è dura ed è quasi impossibile. Ogni giorno ti svegli e chiami cinque persone diverse. E magari non hanno nemmeno la quantità che ti serve. È frustrante. Però cosa devi fare? Prendere in giro te stesso e i clienti? Quelle persone non hanno solo il massimo degli ingredienti locali. Quelle persone sono gli ingredienti locali. Non è solo il fungo del bosco accanto o il piccione che da queste parti abbonda. Sono le relazioni, la fiducia e la ricerca che fanno una cucina di territorio.”
Mentre finisco il pranzo ripenso a qualche ora prima, quando il mio treno si fermava alla stazione di Foligno, e Lucile, che mi aspettava in stazione, mi scriveva: “Ti dispiace se lungo la strada andiamo a prendere la farina in un mulino?”. Allora siamo entrati in questo mulino con macina a pietra, dove la proprietaria ci ha mostrato orgogliosa la parte più antica, risalente al 1300.
UNE racconta l’Umbria facendo sentire la voce di quella signora e di tutti questi personaggi nei piatti. Mi sa che è questo che si dovrebbe intendere con cucina del territorio.
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