Na zdorovie!
Il mio bicchierino di vodka rimane sospeso a mezz’aria. Intorno al tavolo, il silenzio e facce perplesse. Passano secondi che sembrano minuti. Finalmente qualcuno ha il coraggio di dirmi: “In Russia non diciamo na zdorovie. Quello è uno stereotipo occidentale”.
Ed è così che comincia il mio primo pasto a Mosca. Non racconto l’aneddoto solo per il criterio dell’imbarazzo, ma anche perché emblematico dell’atteggiamento con cui ho approcciato questo viaggio: un’accozzaglia di stereotipi in testa, la voglia di smentirli e allo stesso tempo la voglia di non smentirli. Quando sono stata invitata dall’Hotel Metropol a passare tre giorni a Mosca nella mia mente sono passate, in successione, le seguenti immagini: ricchi russi che bevono vodka. Ricchi russi che bevono vodka e scucchiaiano caviale. Ricchi russi che bevono vodka, scucchiaiano caviale e brindano urlando Na zdorovie!
Una volta appurato che in Russia non brindano così, non mi restava che appurare la veridicità degli altri due.
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Il primo pasto in realtà non è stato un vero pasto, bensì una cerimonia del tè. Perché sì, in Russia esiste un preciso cerimoniale del tè, che in città questo è l’unico hotel a proseguire, senza limiti di giorno e di orario (volete una cerimonia del tè a mezzanotte? You’re welcome).
Una tradizione ottocentesca che, tra scintillii di argento e ceramiche finemente decorate, propone agli ospiti i tradizionali pancakes (bliny) da accompagnare a caviale, piccoli sandwich, petit fours, un tè nero versato direttamente dal tradizionale samovar d’argento e ovviamente un bicchierino di vodka per cominciare perché, beh, perché no. Il tè è arrivato in Russia intorno al 1300 come regalo degli ambasciatori della Cina: per diversi secoli è rimasto un privilegio da ricchi per poi, con l’abbassarsi del prezzo, affermarsi come bevanda del popolo e simbolo del senso di ospitalità.
Piccola introduzione storica per capire dove ci troviamo. L’hotel Metropol è stato costruito nel 1905. In oltre un secolo di storia questo edificio imponente, a pochi passi dalla Piazza Rossa, ha ospitato alcuni dei personaggi più importanti e famosi del Novecento: da Bernard Shaw – amava le zuppe di verdura – a Michael Jackson – si portava dietro il suo chef personale – da Mao all’assassino di John Kennedy, Lee Harvey Oswald, che ha passato 3 mesi nella stanza 2219. Si dice che Edward Snowden si nasconda proprio qui, in una delle 365 camere. Mentre fanno fare il tour dell’hotel al nostro gruppetto di giornalisti internazionali alziamo la mano a turno cercando di prendere di sprovvista la nostra guida, una placida signora russa di mezza età, chiedendole “What about Snowden?”. Lei sorride criptica e si limita a dire che sì, la sua intervista più famosa è stata fatta qui, ma no, nessuno sa se sia ancora qui dentro.
La grandeur del Metropol è appannata dal tempo, ma non meno affascinante: cupole liberty di vetro, fontane di marmo, stucchi dorati. In mezzo a una tale opulenza è difficile non sentirsi allo stesso tempo assurdamente privilegiati e allo stesso tempo oscuramente colpevoli. Altra celebre tradizione qui è la colazione. Servita in una sala art dèco al cui centro spicca una fontana di marmo – dove una volta gli ospiti potevano pescare i propri pesci – viene servita al suono di un’arpa (proprio così: c’è sempre qualcuno che suona un’arpa. Ci tengono a ripeterlo in ogni comunicato stampa). Il buffet – sicuramente il più ampio e magnificente che abbia mai visto – spazia dalle specialità halal al congee cinese, e include ovviamente delizie russe come i bliny, pancakes cicciotti dai ripieni dolci e salati (preferito personale: quello con il cottage cheese) e il caviale perché, beh, se ho imparato qualcosa dai miei giorni a Mosca è che il caviale non è mai abbastanza. Una colazione così, dove potresti mangiare cibo sufficiente a sostentarti per una settimana (e alcol: vino frizzante simil-prosecco ghiacciato e gratuito), costa “solo” 70 euro per gli ospiti esterni.
Lo stereotipo del russo arricchito, che in vacanza in Italia si sporca di tartufo la giacca di Prada, ci spinge a pensare che qualsiasi esperienza di lusso a Mosca sia economicamente inaffrontabile. Non è così. Prendiamo il Beluga. Dopo essere andata al teatro Bolshoi a vedere l’opera (ho dormito circa metà del tempo, a mia discolpa ero in hangover) mi sono diretta insieme ai miei compagni di viaggio verso il Beluga alle undici e mezza di sera. Teoricamente si trova a pochi passi dal teatro, praticamente ci siamo persi tra stradine in cirillico e neve ghiacciata che ci cadeva in testa. Abbiamo chiesto consiglio al primo passante che conoscesse l’inglese e lui ci ha avvertito che stavamo andando verso “the most expensive restaurant in town”.
Di primo acchito potrebbe sembrare così. Il ristorante, pluripremiato da tutte le principali guide di settore, è di un’eleganza non (troppo) strillata, arredato con opere d’arte commissionate su misura dal proprietario, Alexander Leonidovich Rappoport – Man of the Year per GQ Russia, avvocato con uno studio internazionale e 16 ristoranti sparsi in tutto il paese – e illuminato da lampadari di cristallo di Boemia. Ai tavoli sono seduti signori incravattati e donne che hanno preso un po’ troppo sul serio quella faccenda della chirurgia plastica. Il menu è focalizzato sul caviale, di circa 36 tipi diversi, declinato in vari piatti o proposto in purezza.
La Russia è entrata in una fase di riscoperta dei prodotti tipici, delle tradizioni, del gusto di mangiare local
Se ordinate il pregiatissimo beluga iraniano potreste spendere dai 100 ai 400 euro (una cinquantina di grammi), ma se vi limitate a un oscietra con 11 euro avete un assaggio – 25 grammi su un cucchiaio di argento – e uno shottino gratuito di vodka da sollevare verso la tomba di Lenin, che potete vedere dalle vetrate, chiedendogli “Era davvero questo che ti aspettavi?”. In menu ci sono anche veri e propri piatti come le tagliatelle con salmone e caviale a 18 euro o deliziosi mix semi-vegetariani quali i carciofi con pastiglie di caviale pressato.
Rappoport, seduto al tavolo con noi, ci insegna come mangiare il caviale. “Sarebbe meglio mangiarlo in purezza, ma va bene anche con pane bianco e burro. Oppure con i cetrioli. Le donne qui lo mangiano con i cetrioli, per non ingerire carboidrati” spiega, più o meno nello stesso momento in cui io me ne servo la quinta fetta. La vodka è davvero l’accompagnamento tradizionale al caviale: questo non era uno stereotipo. Noi beviamo Snow Leopard, di cui vengono prodotte circa 20.000 bottiglie all’anno, distillata 6 volte e quindi straordinariamente buona e pulita al palato – e, almeno apparentemente, senza l’effetto martellata della vodka da discoteca. È familiarmente conosciuta come la vodka degli oligarchi.
Negli ultimi anni, complici le sanzioni europee e le controsanzioni (argomento di cui parleremo più approfonditamente in seguito) la Russia è entrata in una fase di riscoperta dei prodotti tipici, delle tradizioni, del gusto di mangiare local dopo anni in cui le cucine più apprezzate erano quelle straniere. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica aprivano solo ristoranti che avessero un appeal anche solo vagamente straniero, come reazione a sessant’anni di soviet cuisine e oscurantismo culinario. Ora, invece, si assiste a un nuovo moto di orgoglio gastronomico. E anche la scena enologica è in fermento.
La zona principale di produzione vinicola è la Crimea. Se prima per i russi il lusso era il soviet champagne – una robaccia dolce e frizzante – ora si parla di uve, zone di produzione, varietà locali. La consapevolezza sta crescendo (“Non come una volta, quando i ricchi si facevano il vin brulè con il Petrus” scherza il giornalista Gennady Jozefavichus, nostra preziosissima guida in città) e più trendy, comunque, rimangono i vini italiani.
Sarebbe meglio mangiare il caviale in purezza, ma va bene anche con pane bianco e burro. Oppure con i cetrioli
Le pareti del ristorante Wine and Crab, ad esempio, sono decorate con i nomi di vini italiani preceduti da un hashtag: #recioto #valpolicella #prosecco eccetera. Il ristorante è specializzato in granchi e vini – non ve lo aspettavate, eh? – e nasce per volontà di un investitore petrolifero che voleva ‘piazzare’ la sua cantina, una robina di circa 1000 bottiglie.
Altro trend moscovita sono i vini naturali. Con la differenza che, se in Italia vini naturali è sinonimo di pareti finto-scrostate, sgabelli di legno e metallo e musica indie, a Mosca il ‘tipico’ wine bar è Big Wine Freaks, che noi paragoneremmo a un locale fighetto in zona Brera a Milano. È qui che, una sera, facciamo le tre di notte, bevendo vini splendidi da ogni parte d’Europa, confermandomi l’ulteriore stereotipo che i russi bevono tanto e regalandomi il peggior hangover della mia vita.
La mattina dopo, per fortuna, c’è la colazione del Giovedì Grasso. Ho la fortuna di capitare a Mosca nella settimana della Maslenitsa, quella che precede la quaresima, il che significa – per qualche associazione a me imperscrutabile – che si mangiano blinis tutta la settimana. In versione sottile o cicciotta, con grano saraceno o frumento, da accompagnare a salmone affumicato, panna acida, pickles – qui si mette sottaceto tutto, dalle melanzane alle mele – uova sode sbriciolate, oppure in versione dolce con latte condensato e altre delizie quali i pine cones, piccole pigne sotto sciroppo.
A prepararci un tale salvifico banchetto è il Savva , il ristorante aperto nel 2015 all’interno del Metropol. Lo chef Andrey Shmakov è estone ma ha ereditato la passione per la cucina dalla nonna siberiana e l’ha contaminata con esperienze in giro per l’Europa, tra cui il Noma. “Certo, dire local non ha molto significato qui, se pensi a quanto è grande la Russia e a quanto diversi siano i suoi ambienti e il suo clima. Ma esiste il concetto di stagione, quello sì. Le generazioni più giovani capiscono il fine dining e comprendono il lavoro che sto facendo qui”.
Sempre in onore della maslentisa lo chef ci prepara il kpulibiac, una torta salata di pesce riservata alle festività. Ma non pensate alle dimensioni da ‘torta salata’ del rotolo Buitoni della Coop: questa è grande come un salmone e scintillante di burro in ogni singola squama.
Shmakov definisce la sua una cucina ‘contemporary russian‘ e i suoi sono piatti di un’eleganza delicata e leggera, che però non contrasta con l’ambiente a dir poco magnificente – affreschi sul soffitto, colonne di marmo e un atrio istoriato di vetro. La vera chicca è il menu chiamato Russian Set, un viaggio indietro nel tempo tra piatti come Anatra stufata con ciliegi e pane al grano saraceno e strutto, oppure Anguilla glassata al kvas con crocchette di patate, sottaceti, cottage cheese e salsa gribiche.
Sulla tavola si materializzano, come per magia – una magia che ho imparato a considerare piuttosto normale, a Mosca – bicchierini di khrenovukha, vodka infusa con il rafano. Il mio stomaco provato dall’hangover inizia a borbottare. Ma se c’è una cosa che ho imparato a Mosca, è che i russi non dicono Na zdorovie!, ma comunque non ti permettono di rifiutare un bicchiere di vodka.
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