l nuovo disco di Daniel Lopatin AKA Oneohtrix Point Never, Garden of Delete, esce il 13 novembre su Warp. È il successore di R Plus Seven, uno dei dischi più importanti degli ultimi anni, e quindi le aspettative sono comprensibilmente alte; in fondo, parliamo pur sempre dell’uomo che, dopo gli esordi all’insegna del revival kosmische, assieme a James Ferraro ha battezzato quell’estetica hi-tech che in tempi recenti si è tradotta in una serie pressoché infinita di varianti: dal pop finto-corporate di PC Music ai distopici panorami di M.E.S.H. e giro Janus (giusto per citare due realtà che tra loro a malapena si sopportano), c’è un po’ di Oneohtrix in molta della migliore musica elettronica attualmente in circolazione – così almeno piace vederla a me.
Oneohtrix Point Never suonerà live sabato 7 novembre, come uno degli headliner di #C2C15, dove presenterà in anteprima i brani del nuovo album. Per questo motivo l’ho contattato via Skype dal mio prestigiosissimo studio in quel di via dei Castani, Centocelle, Roma (anzi Roma Est, perdonatemi). Abbiamo chiacchierato di musica, videogiochi e Star Trek: tre argomenti che, chissà come mai, quando li metti in fila suonano sempre bene.
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Noisey: La prima volta che ti intervistai era il 2009, ai tempi di Zones Without People. Su The Wire, David Keenan ti aveva appena inserito tra i padrini dell’hypnagogic pop, e nell’intervista discutemmo molto di immaginari passati e nostalgia. È ancora un argomento che ti interessa?
Oneohtrix Point Never: Il passato? Uhm, penso di sì, ma a dire il vero non sto a ragionarci troppo sopra. In quel periodo mi piaceva lavorare su suoni e materiali d’archivio e vedere cosa potevo tirarne fuori, ed è tutta roba che ancora mi piace; però non ho questa visione idealizzata del passato come un’epoca per definizione migliore del presente. Come persona non sono un tipo per niente nostalgico, e non è necessariamente la nostalgia a spingermi verso quello che è venuto prima di me, se è questo che volevi chiedermi.
Ma le echo jam le fai ancora?
Sì, certo! Quello sempre.
Ci tenevo a partire da quella nostra prima intervista perché nel frattempo sono cambiate molte cose, compresi i tuoi lavori. Nel 2013 hai prodotto R Plus Seven che, oltre a essere uno dei dischi elettronici più influenti degli ultimi anni, era sostanzialmente una specie di concept hi-tech sulla modernità, e quindi una cosa molto distante dalla “nostalgia” delle tue prime uscite. Io, per dire, lo recensii paragonandolo a uno sguardo filtrato dalle lenti dei Google Glass…
Capisco cosa intendi. Da R Plus Seven è passato un po’ di tempo e i ricordi cominciano a farsi confusi, ma quello che posso dirti è che ho sempre pensato a me stesso come a un formalista-materialista.
Ah. Cioè?
Nel senso: per me la musica non è semplicemente “suono”, ma anche e soprattutto il modo in cui questo suono si comporta, le forme che assume, la maniera in cui viene recepito dall’ascoltatore… Quindi nei miei brani ho sempre provato a… rappresentare queste forme, capisci? R Plus Seven è un disco particolare perché in quel periodo lavoravo molto assieme all’artista Nate Boyce, che mi insegnò un sacco di cose sulla scultura, o meglio ancora sulla storia della scultura. Erano delle vere e proprie lezioni, e ad ascoltarle pensai che quelli di Nate erano concetti facilmente applicabili anche al mondo della musica. Più che hi-tech, penso che R Plus Seven sia proprio un disco di sculture, di oggetti solidi, tridimensionali. Almeno, la mia intenzione era quella!
E il nuovo album come sarà?
Esce tra poco. Quando lo sentirai, ti farai un’idea…
È stato già presentato come il tuo disco “rock”, quindi sono curioso. Mi chiedo anche quanto possano aver influito alcune tue recenti collaborazioni, tipo quella con A. G. Cook, il boss di PC Music…
Lui è un grande: per me, dal punto di vista della melodia, della scrittura e della produzione dei brani, è un tipo veramente unico. Anzi, è proprio per quello che mi è venuta l’idea di collaborare con lui. Il fatto è che ogni tanto sento come il bisogno di uscire dal recinto della musica elettronica e di tutti quei blocchi sonori astratti, per confrontarmi col pop, col rock, col metal, insomma con tutto quanto conservi traccia di “forma-canzone”, se capisci cosa intendo. E A. G. Cook le canzoni le sa scrivere alla grande, è proprio un tipo talentuoso… Avremmo anche voluto proseguire la collaborazione, magari in vista di qualcosa di più sostanzioso, ma poi ci siamo ridotti a un brano nato tra scambi di mail e conversazioni via chat.
A. G. Cook e tutto il giro PC Music hanno anche tutto un lato molto concettuale, parodistico… Ti interessa anche quello?
A volte sì. Non sempre, però. Cioè: è sempre molto istruttivo osservare qualcuno che attorno al suo lavoro riesce a formulare un concetto, a disegnare un mondo a sé: a volte lo trovo stimolante, a volte no, ma è senza dubbio un indicatore di quanto A. G. sia interessante come persona, oltre che come artista. Ha proprio un sacco di immaginazione…
E invece come procede il tuo lavoro come compositore di colonne sonore per il cinema? L’ultimo film a cui hai collaborato se non sbaglio è Partisan, giusto?
Giusto. Mah, il lavoro per il cinema… Sai com’è: devo mangiare anch’io! Quando svolgo queste commissioni [Commissions è anche il titolo di due EP usciti nell’ultimo anno e mezzo per Warp, ndr], non sono proprio “lavori alla Oneohtrix Point Never”. È un po’ come quando i compositori classici scrivevano inni per la chiesa.
Un lavoretto come un altro, dici.
Qualcosa del genere. Naturalmente è un lavoro che provo a svolgere nella maniera migliore possibile, e spero anche di riuscirci—almeno ogni tanto. Ma è comunque un’occupazione strana, particolare, perché nel cinema ci sono un sacco di figure coinvolte, e la musica è solo un ingrediente tra i tanti. Però quando va bene, le colonne sonore sono anche un’occasione per sperimentare soluzioni nuove o cose che normalmente non tenteresti mai.
Mi chiedevo: hai mai pensato di scrivere colonne sonore per videogiochi?
Molte volte. Ma dovrei prima imparare come si deve i meccanismi di quel mondo lì. Ci sono già tantissimi sound designer in giro, e mi affascina il modo in cui per esempio riescono a integrare musica e rumori d’ambiente, che è tra l’altro un indizio su come potrebbe suonare la musica del futuro; in effetti una cosa che mi intriga parecchio è il modo in cui in determinati videogames la musica accompagna le diverse aree di gioco: quindi magari prima hai un ambiente in cui c’è solo un suono vergine e puro, poi cambi situazione e quel suono lentamente si inspessisce e cresce, poi cambi ancora e diventa qualcos’altro… Sono tutte soluzioni da cui potrebbero trarre giovamento anche musicisti che di videogiochi non si sono mai interessati, se ci pensi.
Tu comunque sulla tua etichetta Software hai pubblicato un disco di David Kanaga…
Un altro grande.
…Che oltre a essere un compositore di musiche per videogame è anche un vero e proprio teorico, nonché una delle figure più affascinanti attualmente in circolazione. Non solo come musicista, dico.
Sì, David non si accontenta di essere un virtuoso e di partecipare dal di dentro alla scena dei videogames; come dici tu è un teorico, un profondo conoscitore dei meccanismi alla base dell’esperienza videoludica. Lui sull’argomento ha anche scritto tanto, ha una visione molto ampia che l’ha portato a ragionare su come la musica, i rumori, i silenzi, interagiscono con noi in un ambiente fluido, roba molo affascinante…
Tu con i videogiochi come te la cavi? Ti piace parlarne?
Mi piace tantissimo parlare di videogames, ma di sicuro non sono ai livelli di David!
E come giocatore?
Anche qui, non sono un granché. Non riesco quasi mai a finire un gioco, e quando capita è sempre perché ho scelto la modalità per principianti.
Ma so che comunque sei molto affascinato dalle qualità psichedeliche dell’attività videoludica…
Assolutamente sì. Se ci pensi, immergersi in un videogame assomiglia un po’ a quando guidi su un’autostrada per tre ore di fila: non solo perdi il contatto della realtà, ma cambia la percezione del tempo, viene a cadere il nesso che sta tra te e l’oggetto che hai di fronte, si altera il modo in cui ti rapporti alle forme, alle cose… È fondamentalmente un’esperienza onirica, più che psichedelica in senso stretto.
Il mio amico Marco Caizzi ama parlare di “videogiochi esperenziali”: videogiochi cioè in cui “l’esperienza” in quanto tale prende il sopravvento sulla dimensione meramente competitiva. In un suo articolo a riguardo, utilizzava come esempio proprio un tuo brano, quello ispirato ai giochi danmaku…
“Bullet Hell Abstraction”, certo, quello che sta su Commissions II. Sì, i danmaku, con tutti quei proiettili che arrivano da tutte le parti, a un certo punto diventano una cosa totalmente ipnotica, solo forme e suoni in movimento… È un’esperienza talmente potente che, anche se muori (sono giochi difficilissimi), alla fine non conta. Ma più in generale, quei videogiochi in cui ti perdi tra ambientazioni desolate e labirinti infiniti di forme e colori, hanno avuto un grandissimo impatto su di me. Non solo come musicista, ma anche come persona: sono… alienanti, certo. Ma mi danno sempre questa sensazione di calore, di immersione… a loro modo, sono come rassicuranti.
So che sei anche un fan di Star Trek – Deep Space Nine…
Ahahah, è vero!
Il che mi ha reso felicissimo, perché sono un grandissimo fan anch’io. Però mi ha sempre dato l’idea che Deep Space Nine sia una serie sottovalutata, almeno in Italia…
Sul serio? Com’è possibile? È la migliore!
Magari mi sbaglio, non so. Però il motivo per cui ho tirato fuori Deep Space Nine, è perché è una serie che in qualche misura condivide diversi aspetti con quel tipo di esperienza di cui parlavi a proposito dei videogame. Per dire, è l’unico Star Trek che si ambienta in una stazione spaziale invece che su un’astronave, e c’è questa dimensione “sospesa” che mette come in un angolo l’avventura vera e propria…
È vero: la situazione è più importante dell’azione. Un classico di Deep Space Nine, è che tu esplori tutti questi conflitti politici tra pianeti diversi e lontani, senza che però questi pianeti li visiti mai. Rimane tutto… “sospeso”, come dici tu. Non so cos’è che mi attira verso questo tipo di materiali… Penso di avere una naturale inclinazione ad alienarmi da se stesso, sai com’è: mi piace perdermi dentro cose che mi allontanano dalla realtà.
Perché la realtà non è di tuo gradimento?
Assolutamente no: sono totalmente pessimista, specie per quel che riguarda i destini dell’uomo. È anche uno dei motivi per cui la politica “vera” non mi interessa.
Sul serio? Eppure mai come negli ultimi tempi la musica indipendente (specie quella elettronica) è tornata prepotentemente a occuparsi di politica…
Mettiamola così: prendi le notizie che ti arrivano dalla televisione, o su internet, o sui giornali… È un flusso talmente continuo e mediatizzato, da perdere qualsiasi contatto con la notizia in quanto tale. Sono più come delle metafore, no? E quindi la mia reazione istintiva, una volta che mi trovo davanti una notizia, è che questa non sia effettivamente una cosa reale. A volte non sono nemmeno notizie vere! E allora preferisco provare quel tipo di esperienza in un ambiente di fantasia, come per esempio può essere Deep Space Nine.
È una funzione di evasione che la fantascienza ha sempre avuto, in effetti. Naturalmente quando non si tratta di fantascienza engagé, mettiamola così.
Mah, evasione… In Deep Space Nine ci sono anche degli aspetti prettamente filosofici, eh? Anche se, su quel versante, forse la serie migliore di Star Trek è Next Generation.
Be’ ma tutto Star Trek è un immenso testo di filosofia…
Certo che sì. Mi ricordo che quando cominciai a leggere testi di filosofia “vera”, capitava sempre che pensassi: “ehi, è come in quell’episodio di Star Trek!”. Ma più che un testo di filosofia, Star Trek è proprio un… vacuum, una situazione di “vuoto”. E io preferisco abitare quel vuoto piuttosto che la realtà.
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