Il sound designer di Detroit Rod Modell cominciò a produrre musica elettronica sperimentale negli anni Ottanta, appena prima che la techno prendesse il sopravvento. Ma la sua musica rimase nascosta fino all’inizio del nuovo millennio, quando si fece notare come metà del duo Deepchord (ormai il suo progetto solista da un po’ di tempo), che mettevano insieme la sua ossessione per le sonorità ambient con un beat dub drogato che molti si affrettarono a paragonare agli amati berlinesi Basic Channel.
Nei quindici anni che seguirono ha pubblicato venticinque anni sotto svariati nomi e collaborando con vari artisti—Echospace, Waveform Transmission—con cui condivide un punto di vista particolare con atmosfere di loop infiniti con beat che suonano come il battito di un cuore a riposo. La sua ultima uscita, Ultraviolet Music, è il suo ultimo album per l’etichetta scozzese Soma (che di solito ospita techno più potente fatta dai proprietari Slam o da Funk D’Void, H-Foundations e, ah già, i Daft Punk).
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Godetevi i settanta e passa minuti che compongono il secondo disco di questo doppio album, anche se, come ci ha spiegato Modell stesso nell’intervista che segue, la divisione è una semplice questione di comodità. Il tempo è un concetto astratto.
THUMP: Il nuovo album è doppio, ma la tua musica sembra spesso tendere all’infinito. Come fai a decidere quando un pezzo è completo? Riesci a decidere quanto far durare un loop, una canzone o un album?
Deepchord: La maggior parte delle tracce partono da pezzi di 4560 minuti che vengono editati per l’album. È una cosa molto difficile per me. Mi piace creare un loop e lasciarlo suonare per ore o per giorni in casa mia. Inoltre parto sempre dalle parti ambient quando creo una canzone. Non comincio mai da un beat o una linea di basso. Queste cose vengono aggiunte all’ultimo minuto e sono la parte meno importante, sono solo un metronomo per gli elementi ambient. In un mondo perfetto, un album potrebbe durare dodici ore e non ci si accorgerebbe nemmeno che sta suonando. La buona musica incasina la percezione del tempo delle persone. Vedo ogni canzone come una piccola scultura sonora che si può idealmente mandare in loop per sempre a volume basso.
Si dice che questo album sia un ritorno ai suoni narcotici dei tuoi lavori precedenti. È stato un processo naturale o era tua intenzione?
Non ho forzato nulla. Registro a un ritmo piuttosto regolare di 23 canzoni al mese. Le registro e poi le archivio, e ogni anno o due metto insieme una compilation di quelle che preferisco. A volte mi ritrovo con una pila gigantesca di musica ambient. A volte c’è più roba in 4/4. Ma mentre la faccio, non cerco mai di creare un suono o uno stile particolare. Lascio semplicemente che le cose mi escano spontaneamente, e magari un anno dopo ho solo ambient, o solo dance, ma spesso è più roba che sta nel mezzo.
Il titolo mi sa molto di alternative/new wave anni Ottanta (o forse mi ricorda solo gli Ultravox). A quei tempi eri già attivo nella scena di Detroit. In che modo quelle sonorità hanno influenzato la tua produzione successiva nel campo della techno?
Sì, ha quel feeling in effetti. A dir la verità, se c’è stata un’ispirazione per Ultraviolet Music, è stato il piano etereo e ciò che sta intorno a noi ma noi non possiamo vedere. Tipo le onde radio e il mondo spirituale. Nel periodo in cui feci queste registrazione, ero in fissa con le stazioni radio a onde corte, trasmettitori abbandonati, cose del genere. Mi piaceva il tema dei “fantasmi nei cavi”. Penso che Ultraviolet Music rappresenti questo. Le cose che ci stanno attorno che stanno fuori dalla nostra normale percezione. Questo è anche un buon modo per descrivere l’ideologia dell’album. Ci sono molti field recordings processati che si intrecciano sullo sfondo e piccoli eventi sonici che l’ascoltatore non si rende conto di stare ascoltando. Esperimenti psicoacustici a tempo di cassa. In fondo io non sono che un sound designer ambient dagli anni Ottanta. Creo atmosfere soniche in cui perdersi. Ho molto di più in comune con artisti come gli Hafler Trio ed etichette come Staalplaat che con la techno. Negli anni Ottanta, facevo “musica” assurda manipolando radio a onde corte e drone fatti con macchine analogiche autocostruite.
In qualche momento, sono stato adottato dalla fratellanza techno. Negli anni Ottanta, a nessuno piaceva quello che producevo. Era molto inusuale. E poi spuntò la scena techno a Detroit, attorno a me, e avevano tutti una mentalità molto aperta e amavano le cose uniche e diverse. Mi accolsero nella loro famiglia e all’improvviso avevo un pubblico. Mi invitavano a suonare ai loro eventi. Per cui io cerco di restituire il favore e dare loro una cassa in 4/4 e una linea di basso. Mi sento in debito verso la techno. Senza la techno, sarei un eremita che vive da qualche parte in campagna, a creare suoni con generatori di toni e pedali per un pubblico di nessuno.
Pur senza considerarmi un artista techno, la techno mi ha dato una piattaforma su cui esibire i miei dipinti sonori. La “gente techno” è straordinaria. Sembrano abitare un piano di coscienza diverso. Apprezzano cose che l’umano medio non apprezza. Sembrano illuminati. Se la techno fosse esistita negli anni Sessanta, sarebbe stata senza dubbio la colonna sonora della Factory di Andy Warhol. I Velvet Underground non avrebbero avuto alcuna possibilità.
Anch’io sono cresciuto nei dintorni di Detroit e pensavo di aver sentito ogni aneddoto su Electrifying Mojo che esiste. Ma tu hai raccontato di recente di averlo sentito suonare lo stesso loop per più di venti minuti. Come è possibile che una cosa del genere sia passata per radio?
Andai in estasi quando lo sentii. Fu un completo cambio di paradigma per me. Potrebbe essere stato il momento in cui capii che la musica non doveva essere presentata nella tradizionale forma canzone da tre minuti e mezzo. D’improvviso, il potenziale di questa scoperta mi investì. Per la prima volta sentii la voglia di produrre musica. Quando pensavo che la musica esistesse solo in canzoni da quattro minuti, non mi interessava. Mi aprì la mente a un nuovo spettro di possibilità. Spero che altri abbiano avuto la stessa illuminazione.
Sono sicuro che alcuni ascoltatori l’abbiano odiato. Probabilmente pensarono fosse impazzito, ma fu spettacolare. So che è stato detto più e più volte ma quel tizio (Mojo) era vent’anni avanti rispetto ai suoi contemporanei, e penso che la stazione radio l’avesse capito e gli concedesse più libertà nella programmazione.
Hai espresso molte volte il tuo distacco da Detroit, chiamandola un luogo negativo. Hai notato dei segni del rinascimento di cui tutti parlano?
L’unica cosa che ho visto è quello che sta facendo Dimitri Hegemann [padrone della Tresor] con la sua Detroit Berlin Connection, che è una buona cosa. Penso che possegga le abilità e le idee giuste per farla funzionare. A volte dobbiamo guardare i vecchi problemi con occhi nuovi per trovare una soluzione, ed è quello che sta facendo lui. Ho fiducia in lui e nella sua squadra. Ma Detroit non è molto recettiva alle idee nuove, per cui vedremo quanto lontano arriverà. Ho più fiducia in Dimitri che in Detroit.
A parte quello, non ho visto nessun rinascimento. Il più grande rinascimento di Detroit è avvenuto a metà anni Novanta quando Dennis Archer era il sindaco della città. Lui cambiò il panorama cittadino più di chiunque altro. Negli anni Ottanta, il gigantesco teatro Fox di Detroit era un cinema porno. La città assomigliava a una zona di guerra distopica, post-apocalittica. Credo mi piacesse di più così. Quando Archer fu eletto sindaco, ripulì la città, cominciò i nuovi progetti di edilizia popolare nel centro, e di conseguenza riportò la gente verso l’interno. Da quando Archer se n’è andato, Detroit è tornata in uno stato di disperazione. Ora stiamo cercando di far ritornare le cose a un livello a metà della gestione Archer. È troppo deprimente per me. Auguro a tutti buona fortuna.
Tutti ti chiedono qual è il tuo set up in studio. Te lo risparmierò, a meno che non ci sia qualcosa in particolare che tu ci vuoi raccontare rispetto a quest’ultimo album.
Non ne parlo molto perché sinceramente penso che non faccia alcuna differenza e anzi sia solo dannoso. All’inizio ne parlavo, e notavo che questo aveva un’influenza negativa sugli artisti che stavano iniziando a fare questo tipo di musica. Pensavano: “Ah, ecco, mi serve tutta quella roba per fare questa musica”, e non c’è niente di più falso. Puoi registrare un album grandioso con un synth usato da 150 dollari e dei pedali Electro Harmonix da quattro soldi.
O succedeva quello, oppure mi trasformavano in un tecnico. Se menzionavo una certa macchina, mi arrivavano email da gente che mi chiedeva come usarla o come ripararla o cose così. O la gente pensava lo dicessi per vantarmi. È insopportabile.
Negli anni Ottanta e Novanta avevo un sacco di roba, e quando gli artisti hanno cominciato a fare concerti con un laptop ho pensato che fosse una figata. Era il futuro. Sono un sound designer, non un musicista, e questa realizzazione mi ha aperto delle porte. Posso fare cose che i musicisti non possono o non dovrebbero fare. Si presta troppa attenzione alla strumentazione ultimamente, mentre bisognerebbe concentrarsi sul prodotto dell’arte, non sugli strumenti che si usano. Immagina un’intervista su Artforum con un grande scultore a cui vengono rivolte esclusivamente domande su che martello e scalpello ha usato. Sarebbe quantomeno bizzarro.
Le parole “nello stile dei Basic Channel” sembrano seguirti dappertutto. Ti dà fastidio? C’è o c’è mai stata una reale connessione tra di voi?
Mi dà un po’ fastidio, perché non è del tutto vero. Ho grande rispetto e anche reverenza per il loro lavoro. Non voglio mancare di rispetto. Loro hanno portato le cose a un livello che la gente di Detroit non poteva nemmeno immaginare. Specialmente la loro roba senza beat. Penso che la mia musica comprenda così tante influenze ben più grandi, e nessuna parla mai d’altro che dei BC. Le soundscape costruite su sample di Wolfgang Voigt mi hanno influenzato probabilmente tre volte di più. E l’ambient anni Novanta. Steve Roach è stato un’influenza maggiore. Manuel Göttsching / Ashra sono stati importantissimi. Brian Lustmord è stato estremamente influente. E penso che Bandulu mi ha insegnato più cose sull’incorporazione di elementi dub di quanto abbiano fatto i BC.