A un certo punto i miei amici hanno iniziato ad essere seriamente coinvolti in alcune cose musicali di stampo, diciamo, trasversale: indie rock e simili. Le riviste pompavano i gruppi, noi li si ascoltava, i concerti si riempivano. Credo sia sempre stato così, ma è stato solo da metà degli anni novanta che queste cose hanno iniziato ad essere considerate un vivaio da cui prelevare artisti per svecchiare il concetto di canzone italiana così come scaturisce dal Festival di Sanremo.
Nel 1996 Elio e le Storie Tese arrivano al Festival di Pippo Baudo in modalità spoof, e tirano fuori un secondo posto. Non è la prima volta che succede, anzi il caso è clamorosamente simile a quello che portò sul podio Renzo Arbore negli anni ottanta con “Il Clarinetto” (e lui che si giustificava con frasi tipo “ma meno male che non ho vinto, sai, passavo di qui e m’han piazzato sul palco”). Ma Renzo Arbore era Renzo Arbore, già personaggio televisivo di ultrasuccesso; Elio era abbastanza grosso da andare tra i big ma non abbastanza grosso da far pensare che avrebbe sbaragliato il festival a forza di gag. Cosa più importante, Elio era un artista che faceva strage tra i giovani. Ai tempi sembrò una rivelazione, a conti fatti era la loro morte artistica: poteva andare molto peggio. L’anno dopo è già diventato un cliché, con l’organizzazione che prova a bissare chiamando un gruppo demenziale a caso (Pitura Freska) per far divertire il popolino e pescare qualche spettatore under-45: una sciagura. Lo stesso anno s’affaccia tra i big anche Carmen Consoli. Carmen Consoli è la Laura Pausini dei fan dei Marlene Kuntz: nasce a Sanremo ma con piglio alternative.
[NOTA: quando parlo di alternative mi riferisco a un aggettivo caduto ormai in disuso, che identifica un certo tipo di musica sulla base di come viene venduta al pubblico che la compra. Era comunissimo sentire parlare di alternative fino a metà anni novanta: era musica rock da grandi numeri, spesso su major, basata su un vaghissimo concetto di ribellione e reazione al sistema, vero o fittizio che fosse. In Italia la cosa che meglio si conforma alla definizione, negli anni Novanta, è la roba che esce su Mescal.]
Carmen Consoli era la prova che l’alternative a Sanremo funziona in pieno. Trombata prima della finale, la sua “Confusa E Felice” inizia a scalare le classifiche fino a creare un fenomeno di costume a cui aderiscono decine di migliaia di ragazzi manco troppo giovani, e in quegli anni ha l’aspetto di un sabotaggio di Sanremo messo a punto da dentro il sistema, alla Hitler. C’è comunque una differenza piuttosto chiara, in quegli anni, tra una Carmen Consoli ed un Vasco Rossi, anche lui seppellito in fondo alle classifiche sanremesi con Vita Spericolata: il suo è già il giovanilismo da stadio degli anni successivi, quello del vendersi senza raccontarla, a complessità zero. Carmen Consoli, invece, è una che a Sanremo ci sta con l’aria di quella che si fa il giro nei bassifondi. Ci sta, sia chiaro, e ci sta anche che “Confusa E Felice” sia tutto sommato una buona canzone pop con tutti i crismi. A Sanremo, o dopo Sanremo, ce la fai se hai la canzone.
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Il “miglior” gruppo alternative che abbia mai calcato il palco di Sanremo sono i Subsonica. Non è che siano migliori in senso assoluto, ma sono stati i migliori al Festival, poco ma sicuro. Ci arrivano con il secondo disco e il loro miglior pezzo fino a quel punto, una ballatona a cassa dritta intitolata “Tutti I Miei Sbagli”. Niente di eccezionale, sia chiaro, ma è un modo decente di buttare un beat sopra una canzone italiana senza svaccare né la canzone né il beat (per trovare un altro esempio di dance sensata a Sanremo bisogna tornare indietro di una dozzina d’anni, al Tullio de Piscopo di “Andamento Lento“). Il pezzo si piazza bassino in classifica ma inizia a vendere un sacco, porta i Subsonica tra i primi uno gruppi del giro alternative italiano e crea un mastodontico precedente per chi, da qui in poi, si è messo in testa che si può essere alternative, andare a Sanremo, non perdere la faccia e svoltare la carriera. Ahio.
I Bluvertigo, già di loro, non erano i Subsonica. I Subsonica erano un retaggio—probabilmente—peloso e senza troppa prospettiva storica di certi nuovi suoni che stavano scombinando il mercato del pop nella seconda metà degli anni Novanta; i Bluvertigo erano un retaggio peloso e senza prospettiva storica di roba che spopolava a metà anni Ottanta; principini dell’alternative italiano da metà anni novanta in poi, già coinvolti in qualche collaborazione col giro grosso (Battiato), partecipano a Sanremo in modalità autocertificazione. Il brano si chiama “L’Assenzio” e parla (credo) di stonarsi come un tordo e ammirarsi allo specchio, cioè in pratica parla di essere Morgan Castoldi e del fatto che è figo essere Morgan Castoldi e, anche se a volte non è figo esserlo, non è figo in un modo molto figo. L’assenzio è sostanzialmente l’ultimo atto pubblico dei Bluvertigo come gruppo, che da lì a poco si scioglieranno per dare modo ad Andy di diventare una versione ipertrofica dei dj che organizzano le serate anni ottanta per quarantenni, e a Morgan di diventare il più agghiacciante e patetico personaggio televisivo del nuovo millennio.
Segue una fase di crisi dell’alternative a Sanremo, che segue per certi versi una crisi del Festival in se stesso e (di conseguenza) della canzone italiana in generale. Le edizioni dal 2002 al 2007 mettono in scena un campionario di artisti minori a cui tengono bordone artisti alternative minori e scialbi: Zero Assoluto, Timoria, Negrita, Negramaro e simili (ma anche, per dire, Neffa o Eiffel 65) sono una specie di razza mista sanremese che operano in un territorio di confine per cui l’alternative s’è mischiato col mainstream e ha generato nuovi fenomeni un po’ da classifica e un po’ no a cui tutto finisce in merda –per dire una Syria sul palco con pezzo new age scritto da Jovanotti al confronto sembra aver capito molte più cose di tutti gli altri. Da cui la possibilità che la strategia della tensione evolutiva messa in piedi da Jovanotti nel pop dagli anni novanta in poi abbia toccato il festival tutt’altro che marginalmente, ricordiamo anche “Più Sole” cantata da Nicky Nicolai. Del resto Jova è sempre stato un po’ all’avanguardia nel portare questo feeling alternativo nella musica mainstream. La tensione tra gli artisti alternative, in ogni caso, esplode in diretta nell’edizione del 2008 (anche questa vittima di un processo di rimozione collettiva, fatto salvo il culo di Lola Ponce). Al dopofestival condotto da Elio e Lucilla Agosti si assiste ad un battibecco artistico nel quale Frankie Hi-NRG e Zampaglione si accusano a vicenda di morte artistica. Frankie Hi-NRG è fermo discograficamente da allora e sta per tornare in scena al Festival in partenza; Tiromancino ha fatto un disco nel 2010 e un paio di horror brutti.
Va a finire che mentre l’alternative si spacca su queste cazzate, il Festival va incontro alla sua prima rivoluzione copernicana. Il Festival del 2009 è un’edizione particolarmente triste per due motivi: il primo è che è il primo Sanremo vinto da un cantante uscito fuori dai talent, nella fattispecie Amici, nella fattispecie Marco Carta. Il secondo motivo è che non fosse stato per Marco Carta, il festival sarebbe stato sbaragliato da “Luca Era Gay”, la prima vera poviata di Povia. In realtà c’è un terzo motivo per cui Sanremo 2009 è triste: la partecipazione degli Afterhours. Manuel Agnelli si sente investito da tempo (diciamo dal Tora! Tora! in poi) del ruolo di portavoce di una generazione a cui peraltro non appartiene: è lui ad inaugurare la gloriosa stagione del Sanremo affrontato con toni di sfida e sguardo torvo.
Nella fattispecie, il progetto degli Afterhours si chiama Il Paese È Reale: non vanno a Sanremo a promuovere il loro disco ma ad illuminare una scena alternative italiana che nel frattempo era diventata “indie”, e da quel momento in poi certificata esistente anche per il grande pubblico. Il quale, dopo aver gradito gli Afterhours a Sanremo, potrà acquistare una compilation con dentro un pezzo degli Zu. Sia quel che sia la cosa va a finire nel migliore dei modi: il pezzo degli Afterhours viene trombato alle eliminatorie e si aggiudica il premio della critica, ed è così che scopriamo, nel febbraio del 2009, che gli Afterhours piacciono ai giornalisti musicali. Dei gruppi presenti nella raccolta solo uno partecipererà al festival per conto suo.
C’è ancora spazio per un paio di colpi di classe, invero. Saltata l’edizione 2010 (nella quale l’indie è presente per interposta persona, nel senso che il pezzo di Irene Grandi è scritto da Francesco Bianconi), nel 2011 si fanno spazio a tentoni i La Crus. Che in realtà non esistono più da tre anni—è del tutto probabile che, semplicemente, Mauro Ermanno Giovanardi non avesse ancora (nel 2011) la possibilità di presentarsi al Festival nella sezione big usando il suo nome—e si riuniscono appositamente per la kermesse. Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, ma Io confesso è una cosa che musicalmente sta sopra al 98% delle canzoni portate a Sanremo, una roba anni sessanta un po’ oscura alla Scott Walker, con le debite proporzioni. Secondo per la critica, ben piazzato in classifica, tra i più passati in radio. Ha un suo senso. Sicuramente più dei Marlene Kuntz l’anno successivo, forse l’autogol più clamoroso di tutta la storia dell’alternative a Sanremo.
I Marlene annunciano la partecipazione con un comunicato. Non l’ho copiato ma è delirante, ne trovate ancora stralci in giro per la rete. In buona sostanza la partecipazione di Godano a Sanremo è in parte un modo di mettersi in gioco come gruppo, sfidare le convenzioni e non sedersi sugli allori, in parte una secca denuncia dello snobismo elitario di chi s’è rifugiato in una nicchia e ha paura di perdere il proprio pubblico –o del pubblico stesso, chi lo sa. La questione è più complessa, naturalmente: ponendo che i Marlene Kuntz abbiano un contributo da dare al mondo dopo Il Vile, la roba più piaciona e melodica a cui hanno messo mano (tipo il pezzo con Skin, per capirci) avrebbe sì e no la speranza di piazzarsi tra il sesto e il decimo posto in un’edizione scarica. Per assicurarsi che il proprio atto politico non cada nel vuoto delle cattive intenzioni, in ogni caso, il gruppo sale sul palco con un pezzo orrendo intitolato Canzone per un figlio che gli vale l’eliminazione alla prima occasione e le pernacchie di quasi chiunque. A posteriori c’è quasi da ammirarne lo spirito: manco dandosi fuoco sul palco avrebbero potuto fare peggio.
Siamo a oggi. L’ultimo Sanremo ha visto il grande ritorno di Elio e le Storie Tese, ancora al secondo posto; Bianconi ha scritto due pezzi a Chiara Galiazzo, uno più orrendo dell’altro. Dei Marta Sui Tubi è quasi criminale avere un’opinione; tre mesi prima del Festival il cantante Giovanni Gulino ha fondato Musicraiser, il Kickstarter italiano per musicisti grazie al quale Moltheni ha potuto fare questo. Per il futuro non sappiamo dire. Quest’anno l’alternative è presente in forze, sia nella sua forma più pura (i Perturbazione) sia nelle mille declinazioni “post-“, gente tipo Sinigallia (mandato, immagino, da Tiromancino a ri-sfidare Francesco di Gesù). Una nuova generazione di vecchi che scalpita da sotto, tipo Il Pan del Diavolo trombato alle selezioni per le nuove proposte ma The Niro che ce l’ha fatta; i Bloody Beetroots con Gualazzi al posto di Dennis Lyxzén, e su questa credo che sia impossibile rilanciare. Fino al febbraio 2015, almeno.
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