Cultura

La verità è che noi sardi siamo campioni dell’orgoglio masochista

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Ricordo ancora le prime volte che ho lasciato la Sardegna per viaggiare verso il resto d’Italia. Il viaggio era breve: un’oretta di aereo ed ero a Roma o Milano. Una volta atterrato sulla terraferma, però, provavo lo shock di diventare un’altra persona. 

Essendo nato e cresciuto a Sassari, mi consideravo un ragazzo di una città di provincia come molte altre in Italia. Eppure, per chi scopriva la mia provenienza, la categoria mentale più adatta a definirmi era spesso “tizio che viene da una terra indecifrabile e selvaggia, dove ci sono i banditi, tantissime pecore e tutti parlano come Willie dei Simpson.” 

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A volte capitava che qualcuno mi dicesse, a mo’ di complimento, che non ero come si immaginava i sardi. Per quieto vivere lasciavo perdere, e spesso mi trovavo a fare una risata “autoironica” davanti all’ennesima battuta a tema pastori o sequestratori.

Ed è proprio questa reazione a essere un po’ il problema. Perché noi sardi siamo affetti da una gigantesca sindrome di Stoccolma che ci porta a essere particolarmente gentili con chi ci tratta male e ad affezionarci ai nostri sfruttatori. L’esempio più recente l’abbiamo visto nell’estate della pandemia, quando la Sardegna si è trasformata in un focolaio di COVID-19 a causa dei tanti arrivi da altre zone d’Europa, nonché alla mancanza del rispetto delle più basilari norme di sicurezza in varie discoteche. 

Una puntata del programma Report ha messo in evidenza che il governo regionale, su richiesta di grossi locali, accettò di ritardarne appositamente la chiusura così da evitargli il pagamento di penali per la cancellazione di dj set con ospiti internazionali. In altre parole, la salute poteva essere sacrificata per aiutare imprenditori che da sempre trattano la Sardegna in modo classista e paternalista, o tutelare le fortune di proprietà che passano per i paradisi fiscali

Proteggere gli interessi dei privati a discapito della collettività non avviene solo in Sardegna, certo; ma è indubbio che ci piacciono le storie d’amore con l’imprenditore venuto da fuori che promette lavoro e ricchezza. Peccato che di solito non finisca mai bene.

Negli anni Sessanta è stato il turno delle industrie petrolchimiche o dell’alluminio, che ci hanno fatto diventare una delle regioni più inquinate d’Italia—nonostante ai sardi piaccia raccontarsi la favola della “terra incontaminata.” In seguito è arrivato il turismo da rapina, quello che offre ai residenti soprattutto posti di lavoro poco qualificati e mal pagati. Da popolo di operai, dunque, ci siamo adattati senza troppi problemi a diventare un popolo di camerieri.

A volte non c’è nemmeno bisogno di promettere nulla per intortarci. La Sardegna ospita da sola il 61 percento delle servitù militari italiane, pari a 350 chilometri quadrati, da cui i sardi non hanno nulla da guadagnare. Questa ingiustizia viene tuttavia accettata nelle migliori delle ipotesi con rassegnazione, nelle peggiori con una punta di orgoglio masochista. A cadenza regolare, infatti, qualche alto ufficiale ricorda l’importante ruolo strategico di queste basi militari; e chissà che qualche residente non si senta davvero onorato nel vedere la propria isola scelta per questo compito. 

L’evoluzione storica della Sardegna non è poi così diversa da quella di tante altre ‘colonie’ sparse per il mondo, per secoli amministrate tenendo in considerazione esclusivamente gli interessi del colonizzatore. Raggiunta poi una qualche forma di indipendenza o autonomia, queste terre continuano sotto forme più o meno subdole a essere sfruttate. D’altronde, se non sei abituato ad autogovernarti, è dura diventare davvero padrone del proprio futuro, ma anche del passato e della propria memoria storica. 

Basta pensare al culto per la Brigata Sassari, il corpo di fanteria composto da soli isolani che combatté in prima linea durante la Prima Guerra Mondiale sugli Altipiani del Carso. Molti sardi sono orgogliosi fino al fanatismo di questi soldati che si distinsero per il proprio coraggio. In realtà, gli eroici fanti erano in buona parte poverissimi contadini e pastori analfabeti che non avevano mai lasciato il proprio villaggio, mandati a morire sulle montagne del Friuli per una guerra che non gli apparteneva e di cui avrebbero volentieri fatto a meno.

A questo proposito c’entra anche una questione più generale: come si fa a non essere affetti da un atavico complesso d’inferiorità, dopo che per secoli l’isola è stata raccontata attraverso gli occhi di chi la sfruttava, e i suoi abitanti descritti come poveri ignoranti?

Questa insicurezza prende tante forme. Nel mio caso, ad esempio, ogni volta che avevo degli ospiti stranieri su Couchsurfing desideravo i loro complimenti su quanto fosse bella la Sardegna, come se avessi bisogno di sentirmelo dire da uno straniero per crederci davvero. Ma chissà, forse questo mio senso di sudditanza è comune a tante altre periferie italiane e non riguarda solo noi isolani. 

Va detto che questa insicurezza il sardo la manifesta anche nell’atteggiamento esattamente opposto, ossia l’orgoglio spropositato delle proprie origini e della propria terra—la cui forma più evidente è l’onnipresente bandiera dei quattro mori che sventola a un concerto o una manifestazione.

Questo senso di diversità dal resto degli italiani, in Sardegna può prendere forme decisamente imbarazzanti: il governo regionale è convinto di sconfiggere il coronavirus perché abbiamo costruito i nuraghi (anche se gli esperti parlano più scientificamente di un “particolare assetto genetico”); mentre un gruppo Facebook vorrebbe creare una compagnia aerea 100 percento sarda a suon di collette.

Il campanilismo ha anche dato origine al filone “un mare così bello non lo trovi da nessuna parte,” motivo per cui i sardi a volte sono convinti di fare un favore ai turisti nel permettergli di visitare l’isola per poi trattarli come polli da spennare.

Non manca neppure il complottismo di chi sostiene la fantarcheologia, partendo dal presupposto che gli archeologi vogliano tenere nascosto ai sardi il loro glorioso passato: tipo che la Sardegna era in realtà Atlantide, con assoluta certezza la patria del mitico popolo degli Shardana o il luogo di nascita del presidente argentino Juan Domingo Perón. Persino il latino, nel caso in cui non lo sapeste, deriverebbe dal sardo.

Purtroppo a noi sardi piace indignarci e protestare per cose prive d’importanza come un ciondolo a forma di pecora, ma mai altrettanto calorosamente per essere ancora oggi una terra dove lo “sviluppo” ha la forma di nuove carceri di massima sicurezza, fabbriche di bombe o speculazioni sul solare

E mentre nel mondo si riflette sull’opportunità di rimuovere statue che ricordano un passato controverso, a Cagliari la centralissima statua del viceré sabaudo Carlo Felice, famoso per aver represso sanguinosamente i sardi e dato il via alla deforestazione selvaggia dell’isola, è vestita di rossoblu per festeggiare le vittorie più importanti del Cagliari e viene difesa dai suoi cittadini. 

Da queste piccole cose capisci che noi sardi avremmo davvero bisogno di andare collettivamente in terapia, anche se per ora non ne abbiamo nessuna intenzione. Perché in fondo, siamo davvero affezionati alla nostra personalissima sindrome di Stoccolma.

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