Lo scorso 30 marzo stavo cucinando la cena quando all’improvviso ho avvertito una strana tensione addominale, che è subito peggiorata in forti crampi. Ho cercato di controllarli respirando profondamente, ma in pochi secondi si sono estesi a tutto il corpo. Sono caduto a terra, scosso da quelle che mi sembravano convulsioni, con le dita delle mani e dei piedi strette in una morsa. Pensavo di avere un’emorragia cerebrale, che mi fosse esploso il sistema nervoso, che sarei morto. Poi qualcosa si è allentato, sono riuscito a rimettermi in piedi e ho immediatamente chiamato il 118. Dopo aver descritto quello che mi era successo, l’operatore mi ha chiesto se avessi perso conoscenza, cosa che non era accaduta. “Le mando un’ambulanza, ma sicuramente è stato solo un attacco di panico.”
Non era possibile, perché fin dall’adolescenza sono un veterano del panico, e lo riconosco. Parestesie, senso di asfissia e derealizzazione: erano quelli i miei sintomi storici. Non ricordavo che l’elenco nosologico prevedesse i crampi. Ma il medico dell’ambulanza, quelli al pronto soccorso e il mio neurologo nei giorni successivi mi hanno fornito la stessa identica diagnosi.
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Io invece ero convinto di essere diventato epilettico, perché nel frattempo avevo avuto altri episodi identici, così ho preteso di sottopormi a un elettroencefalogramma e ho chiamato un’amica che soffre di epilessia per farmi spiegare come riconoscerla. Niente, però, faceva pensare che la mia ipotesi fosse verosimile. Quindi un giorno, esasperato, sono andato a rivedermi da solo la lista completa dei sintomi dell’attacco di panico, ed eccolo lì: “un eccesso respiratorio prolungato può anche causare crampi muscolari e rigidità ad artiglio di mani e piedi.”
Non mi sono comunque sentito sollevato. Ci ho messo anni a trovare dei sistemi per controllare gli attacchi, e se il panico cambia le regole del gioco io sono di nuovo disarmato. Perché ha così tanti effetti dietro cui nascondersi (la lista è praticamente infinita e prevede manifestazioni che coinvolgono quasi tutti i sistemi fisici e cognitivi)? Perché nel tempo possono spuntargli altre teste come l’Idra di Lerna?
“La grande varietà di sintomi,” mi ha spiegato lo psichiatra e psicoterapeuta Federico Baranzini, che esercita a Milano e ha un dottorato in Psicofarmacologia Clinica, “deriva dalle aree coinvolte nella genesi di un attacco, e in particolare dall’amigdala, che si può definire il centro di attivazione. L’iperstimolazione di quest’area produce conseguenze variegate, perché dall’amigdala partono delle fibre e delle stimolazioni—sia a livello endocrino che neurologico attraverso il nervo vago—che arrivano al cuore, alle viscere, ai centri respiratori. E questi stimoli producono una risposta che può essere più o meno intensa e più o meno ampia. Palpitazioni, iperventilazione, tremori, parestesie, nausea, svenimenti, derealizzazione; si tratta di una cascata di effetti che si differenziano ma che possiamo sintetizzare in tre aree: somatica, sensoriale e cognitiva.”
Il principio di causalità neurologica che spiega il ventaglio di concretizzazioni, però, non è in grado di rispondere a una domanda che chiunque abbia dimestichezza con il disturbo si è posto almeno una volta: perché, tra tutti i sintomi possibili, a me sono toccati proprio questi? Molti miei amici, ad esempio, sono convinti di avere un infarto durante un episodio di panico improvviso, mentre a me la tachicardia non ha mai spaventato. Altri invece sperimentano conati di vomito fortissimi, mentre io non ho mai avuto nausea. E vale lo stesso al contrario: nessun compagno di panico con cui mi sono confrontato ha lamentato parestesie, mentre io per anni, nel picco della paura, ho sperimentato mani talmente insensibili da sembrare fatte di polistirolo.
Per molti di noi la sintomatologia sfocia in una specie di identificazione, perché i sintomi comportano situazioni differenti con cui fare i conti. C’è chi fa in modo di non essere mai da solo, e chi invece soffre di più proprio in mezzo alla gente. Chi diventa claustrofobico, chi agorafobico, chi ha bisogno di parlare per distrarsi, chi perde il controllo se lo si tempesta di domande e rassicurazioni.
“Si può dire che il nostro corpo, per quanto riguarda il panico, abbia davvero delle ‘preferenze’,” mi ha spiegato lo psichiatra Giampaolo Perna, direttore del Centro di Medicina Personalizzata per i Disturbi d’Ansia e di Panico. “Per capirle però dobbiamo partire da un concetto: secondo una delle ipotesi più accreditate, il panico sarebbe un disturbo del senso di benessere psicofisico. Come se il corpo, pur non presentando effettivamente patologie, fosse leggermente più vulnerabile in certe aree. C’è chi è più sensibile a livello muscolare, chi a livello gastrointestinale, chi a livello respiratorio, ecc ecc. Quindi i sintomi possono riguardare appunto queste aree, e talvolta mutare nel tempo perché il nostro corpo cambia. Però bisogna stare attenti a valutare come ‘cambiati’ gli attacchi di panico: al di là dei sintomi questi disturbi prevedono comunque delle fasi che sono bene o male sempre le stesse—un’insorgenza rapida, un picco e una sensazione di malessere e preoccupazione successivi all’evento traumatico, che solitamente porta ad ansia anticipatoria, evitamento di determinate situazioni (per non incorrere in nuovi attacchi), e auto-isolamento.”
Per il dottor Perna—ma è una convinzione molto radicata in ambito clinico—fossilizzarsi sulla diversificazione e la natura dei sintomi effettivi del panico può essere fuorviante. La ruminazione è un percorso mentale che chi soffre di ansia conosce bene: in un periodo di forti attacchi non si riesce a pensare ad altro, si cambia stile di vita per evitarli. Io negli ultimi mesi, ad esempio, ho ridotto drasticamente la mia vita sociale, e quando mi sposto devo sempre essere sicuro di avere l’auto vicino.
Tempo fa avevo letto su internet che respirare in un sacchetto di carta può ridurre gli effetti dell’iperventilazione e mitigare i crampi, quindi ho comprato online un pacco da 300 sacchetti e me ne porto sempre dietro uno. In passato avevo adottato tecniche diverse, perché diversi erano i sintomi. Farei di tutto per evitare l’insorgere di un episodio: per vergogna se sono in pubblico e perché è molto doloroso e angosciante. Ma in fondo mi rendo conto che non sto affrontando il problema, perché quando riconquisto una vita quotidiana normale, dopo mesi di sofferenza, penso di essermi gettato completamente il problema alle spalle.
“Molte persone non riescono a guarire completamente dal disturbo,” ha aggiunto Perna, “e gli episodi si ripresentano magari a distanza di anni, perché il processo terapeutico non è andato fino in fondo. Non si è riacquistato quel senso di benessere psicofisico di base di cui parlavo. Perché non si tratta di limitarsi a ‘non stare male’, ma di tornare a stare bene.”
Per cercare di riacquistare il mio, di benessere psicofisico, sto seguendo un percorso terapeutico con un medico psicosomatico da cui vado da tempo. Ma a seconda della specializzazione del professionista a cui vi rivolgete, potranno ovviamente cambiare il metodo di interpretazione del problema e i meccanismi da mettere in atto per affrontarlo.
Quello che mi preme evidenziare al di là di questo, invece, è un passaggio terapeutico che chi soffre di questo disturbo deve affrontare necessariamente: rendersi conto che attorcigliare la propria attenzione attorno alla natura dei sintomi, al loro cambiamento, ai metodi per evitare che insorgano, è un circolo vizioso senza fine.
Uscire dalla ruminazione però è difficilissimo, perché gli effetti del panico ti si piantano in testa e ti fanno adattare ad uno stile di vita che in altri momenti avresti ritenuto assurdo (il 29 marzo scorso non avrei mai pensato di passare i due mesi successivi con un sacchetto di carta in tasca).
Non so se è una sensazione comune, ma è come se dopo il primo attacco di panico da ragazzino le mie aspettative sulla qualità della mia vita fossero cambiate. Non provare quella paura, quelle sensazioni spiacevoli, mi sembrava già una grande conquista. Forse è questo il vero grande sintomo nascosto degli attacchi di panico: il terrore ha raggiunto un’intensità talmente forte da abbassare il livello delle tue esigenze. Provocando un Uroboro di rinunce autoinflitte e stasi che condiziona tutto il resto.