“U’ purc”, “Capantica” e “Lo zio”: la Società Foggiana continua a terrorizzare la città

Nel tardo pomeriggio del 5 settembre scorso, Roberto Sinesi si sta spostando attraverso il rione Candelaro, nella periferia di Foggia, a bordo di una Fiat 500L nera. Alla guida c’è la figlia, mentre in braccio a lui siede il nipotino di quattro anni.

Quando l’utilitaria raggiunge la chiesa del Sacro Cuore, un’altra vettura si affianca e la sperona — per poi scaricare, pochi secondi dopo, una raffica di colpi di mitragliatrice in direzione dell’uomo.

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L’assalto non è fatale, ma Sinesi versa subito in condizioni critiche: un proiettile si sarebbe conficcato a pochi centimetri dal suo cuore, e anche il nipote -ferito a una spalla – non sembra essere in pericolo di vita.

La banda di sicari sfreccia via, verso le campagne che circondano la città. È lì che verrà poi ritrovata la carcassa dell’auto, devastata dalle fiamme.

Agguati come questo, in pieno giorno, sono sempre più frequenti a Foggia, dove è in corso una nuova guerra per la supremazia e il controllo del territorio.

A scontrarsi in questo conflitto sanguinoso sono i clan della Società Foggiana. Una mafia ancora poco conosciuta a livello nazionale, ma che “da 35 anni a questa parte uccide e continua a uccidere.”

In poco meno di un anno, dicono le forze dell’ordine locali, solo i tentati omicidi sono stati una decina. Ci sono poi gli attentati dinamitardi e le minacce a mano armata.

L’auto sulla quale viaggiava Roberto Sinesi dopo l’agguato.

Conosciuto come lo zio, il 54enne Roberto Sinesi non è un cittadino qualunque del capoluogo dauno.

Gli inquirenti lo definiscono come il “capo indiscusso” della ‘batteria’ – l’equivalente foggiano del clan – che prende il suo cognome. Già condannato in via definitiva per associazione mafiosa, Sinesi occupa i vertici della scena criminale cittadina dagli anni Novanta.

In passato Sinesi ha stretto alleanze con la ‘ndrina di Coco Trovato, ed è anche grazie a lui che la Società ha fatto il grande salto di qualità, passando dal semplice spaccio di droga all’infiltrazione in attività imprenditoriali e al suo business più remunerativo: il racket.

In realtà il boss non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi per le strade di Foggia quando è diventato vittima dell’agguato: lo scorso giugno, infatti, era stato arrestato insieme ad altri esponenti del suo clan con l’accusa di estorsione aggravata.

Secondo la ricostruzione dei magistrati, il gruppo guidato dal boss avrebbe bloccato gli autotrasportatori di pomodori davanti all’ingresso di uno stabilimento di conserve, e li avrebbe obbligati a versare una tangente da 50 euro a testa.

Poche settimane dopo il fermo, però, Sinesi si trovava già ‘fuori’: a rimetterlo in libertà sarebbe stato un errore grossolano del GIP, il quale al posto di valutare autonomamente le prove a suo carico, si sarebbe limitato a ricopiare “acriticamente” le valutazioni dell’accusa.

Dentro e fuori dal carcere

Dopo la scarcerazione di Senesi, c’è stato l’agguato di pochi giorni fa. “A Foggia guerra di mafia vuol dire guerra di leadership,” aveva spiegato lo scorso aprile a VICE News il procuratore Domenico Seccia, fino al 2013 attivo nel tribunale di Lucera, dove ha coordinato numerose inchieste sulla Società Foggiana.

“Evidentemente, qualcuno è uscito dal carcere e ha voluto riaffermare la propria supremazia.” La rottura della pax mafiosa, che da più di un anno ha moltiplicato gli episodi di violenze, è infatti coincisa con la liberazione di alcuni degli storici boss locali.

Prima di essere colpito dal provvedimento di giugno, Roberto Sinesi era uscito dalla prigione nel marzo del 2015, dopo aver scontato una pena di sei anni e quattro mesi per associazione a delinquere e corruzione.

Ma Sinesi non è l’unico leader della Società Foggiana che negli ultimi anni si è diviso fra il carcere e il proprio ‘feudo’.

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Il 31 luglio 2014 Rocco Moretti, detto U’ Purc (Il Porco) e capo della batteria rivale, era stato scarcerato una prima volta: di nuovo libero dopo aver passato i precedenti 25 anni dietro le sbarre a scontare una condanna per omicidio. Moretti era infatti stato ritenuto uno dei responsabili della strage del Bacardi, il circolo foggiano dove il 1 maggio 1986 furono uccisi quattro pregiudicati di un clan rivale.

La libertà di Moretti, però, non dura a lungo. Pochi mesi dopo la scarcerazione per il boss scattano nuovamente le manette. Su di lui pende infatti un altro processo per associazione mafiosa – nel quale è stato condannato a nove anni in secondo grado – e gli inquirenti temono che possa darsi alla fuga nell’attesa che la Corte Suprema esprima il suo giudizio.

Il boss rimane dietro alla sbarre fino allo scorso aprile, quando un vizio di forma gli regala nuovamente la libertà. Dalla sentenza di primo grado del processo per mafia sono ormai passati tre anni: un tempo troppo lungo per la legge, che porta a scadenza i termini della carcerazione preventiva.

Così, in un colpo solo, i due acerrimi rivali attraversano ancora una volta le ‘porte girevoli’ del carcere, per ritrovarsi fianco e fianco per le strade della città.

Pompe funebri e agguati: come è nata la rivalità tra batterie

Quella tra i Moretti-Pellegrino e i Sinesi-Francavilla è una faida che affonda le radici nella metà degli anni Duemila. All’epoca, appena uscito dal carcere, Sinesi stringe un patto affaristico con quello che fino ad allora era stato un boss rivale, Federico Trisciuoglio. L’obiettivo dei due è quello di monopolizzare il settore delle pompe funebri, imponendo il pizzo alle ditte concorrenti e cercando di avvantaggiare le proprie.

Dall’accordo, però, rimane escluso il clan di Moretti, terzo polo di vertice della Società Foggiana. Nonostante la sua permanenza in carcere, Il Porco riesce comunque a imporre il suo diktat al braccio destro Antonio Vincenzo Pellegrino, detto Capantica.

La batteria deve riconquistare un posto al tavolo che conta e, dove non arriva la diplomazia, bisogna usare la forza. Dalla sua cella Moretti riesce anche a dare indicazioni riguardo al piano di ammazzare il figlio di Sinesi, Francesco — un piano poi non portato a termine.

Nel maggio del 2007 la tensione tra i due gruppi raggiunge l’apice. Pellegrino è vittima di un attentato omicida dal quale si salva per pura fatalità. Un uomo a volto coperto raggiunge Capantica, lo fa inginocchiare e gli punta la pistola alle tempie. Il killer preme il grilletto, ma l’arma si inceppa. Approfittando dello stupore del sicario, Pellegrino si alza e lo mette in fuga.

Quell’episodio fa scatenare una lunga serie di agguati e ritorsioni placate solo dalle successive operazioni di Polizia.

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Chiusa quella fase sanguinaria, Foggia vive diversi anni di beata convivenza tra i clan. Gli assetti sembrano essersi ristabiliti e i clan si concentrano sui soliti affari: droga, estorsioni e riciclaggio.

Adesso, però, l’equilibrio sembra essersi rotto definitivamente. La pace è stata devastata dai numerosi agguati che anche hanno portato alla morte di alcuni esponenti della Società. Ultimo in ordine temporale è quello a danno di Sinesi, il quale è stato nuovamente arrestato il 9 settembre, pochi giorni dopo il tentato omicidio.

Con l’ingresso in cella dello zio, la massima allerta colpisce ora il rivale, Rocco Moretti. Come riportano le cronache locali, a Foggia è scattato il codice rosso e si teme che le batterie stiano preparando nuove ritorsioni. Tanto che le forze dell’ordine sarebbe pronte a potenziare la sorveglianza nei confronti di Moretti, oggi in cima alla lista dei soggetti a rischio.


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