Sunil Patel non aveva mai pubblicato nulla prima di decidere, nell’agosto 2012, di andare in Siria per diventare corrispondente di guerra. Prima del suo viaggio, il venticinquenne lavorava come agente ausiliario di quartiere nella Polizia di Londra, viveva con la mamma e il papà, e faceva occasionalmente volontariato nei campi per rifugiati palestinesi e curdi. Durante uno dei suoi viaggi da attivista, Sunil ha fatto amicizia con un giornalista freelance canadese un tantino più esperto di lui che gli ha promesso di portarlo in zone della Siria quasi impossibili da raggiungere tramite vie lecite a uno straniero. Era sicuramente un’idea folle, ed è andato vicino alla morte diverse volte durante il viaggio, ma vista la storia che ora può raccontare, crediamo che ne sia valsa la pena. E no, non è stato mandato lì da VICE. L’ha fatto di sua iniziativa, e noi l’abbiamo scoperto solo dopo.
Ho incontrato Carlos in un internet café di Arbil, nel Kurdistan iracheno (e ovviamente “Carlos” non è il suo vero nome). L’ho sentito per caso parlare di qualcosa che riguardava la Palestina e la Siria in una chiamata su Skype, e quando ha chiuso abbiamo iniziato a parlare.
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Carlos mi ha detto che era già stato in Siria per lavorare come fotografo freelance, e che ci sarebbe tornato presto. Gli ho risposto che stavo pensando di andarci per scrivere a proposito del conflitto, ma che non avevo esperienza come giornalista. “Sai cosa?” mi ha detto. “Ti porto io in Siria.” Non sembrava importargli che fossi un novellino.
Quella notte, Carlos si è fermato al mio ostello. Non aveva un posto dove stare né i soldi per una stanza, quindi ha dormito sul pavimento. Farlo entrare di nascosto è stato un po’ equivoco, ma ne è valsa la pena, perché abbiamo passato tutta la notte a parlare della Siria.
Ho avuto l’impressione che Carlos cercasse soltanto un compagno di viaggio. Io avevo già un biglietto di ritorno per Londra, ma siamo arrivati a un accordo: io sarei rientrato a casa, e quando Carlos fosse stato pronto per tornare in Siria mi avrebbe chiamato e ci saremmo trovati in Turchia. Da lì, mi ha spiegato Carlos, avremmo passato il confine. “Ho dei contatti,” mi ha detto. Ero un po’ nervoso, ma mi sembrava un buon piano. Non avremmo mai avuto reporter come Robert Fisk o Seymour Hersh se fossero rimasti a casa con le mamme invece di buttarsi nella mischia.
Tornato a Londra, i miei genitori non erano troppo entusiasti del mio piano di partire per un Paese nel mezzo di una guerra civile. Pensavano che sarei stato ucciso. Mia sorella era davvero arrabbiata. Ho detto loro che avevo sempre voluto fare il corrispondente di guerra, e che se mai avrei avuto una possibilità di diventare un vero giornalista, era quella. Se la gente vuole notizie, qualcuno deve riportarle. Ma a loro non interessava. Erano preoccupati. Il giorno dopo, Carlos ha chiamato. “Senti, amico,” ha detto. “Io vado. Tu vieni o no?” Nella mia testa avevo già deciso. Ho detto a Carlos che ci saremmo incontrati lì e ho prenotato il primo volo per la Turchia.
Il mio aereo è atterrato a Istanbul, e poi ho preso un bus per Hatay, dove Carlos si trovava con degli amici. Il confine siriano è a circa 40 chilometri a sud-est. Volevamo arrivarci il prima possibile, ma nessuno di noi parlava più di qualche parola di turco o arabo. Fortunatamente, abbiamo incontrato una famiglia turca che ci ha dato una mano. Ci hanno portati a casa loro e offerto del tè, e abbiamo finito per parlare usando Google Translate, scrivendo le parole sul loro computer. Abbiamo spiegato che cercavamo di arrivare in Siria. In qualche modo hanno capito e ci hanno aiutati a chiamare uno dei contatti di Carlos, che avrebbe dovuto incontrarci vicino al confine per aiutarci ad attraversarlo.
A quel punto, Carlos mi ha prontamente informato del fatto che era un autostoppista esperto, avendo scroccato passaggi in tutta l’Europa dell’est, quindi abbiamo deciso di procedere in quel modo fino al confine siriano. Dovevamo essere una coppia buffa—io sono indiano, quindi non ero così sospetto, ma Carlos è un tipo bianco con i capelli neri e una macchina fotografica appesa al collo. Non so se questo abbia reso i camionisti più o meno inclini a caricarci, ma abbiamo rimediato passaggi per tutto il percorso fino alla stretta strada a due corsie fuori da Hatay. Ci sono voluti sette passaggi da altrettanti camionisti e più di tre ore per fare i 40 chilometri che mancavano al confine. Il contatto di Carlos, un tipo di nome Muhammad, ci ha accompagnati per gli ultimi chilometri fino a una cittadina chiamata Reyhanli, vicina al confine siriano.
Reyhanli è uno dei valichi di frontiera più trafficati tra Turchia e Siria, a circa 50 chilometri da Aleppo, dove il conflitto si stava facendo più duro. Mentre noi gironzolavamo cercando di orientarci, una gran quantità di rifugiati affluiva in Turchia—per sfuggire alla guerra, ho pensato.
Abbiamo attraversato il confine a piedi. Non siamo stati fermati né ci sono state fatte domande. Siamo semplicemente entrati. Dall’altra parte si accalcavano altri rifugiati, nell’attesa di passare in Turchia in macchina o a piedi. Non avevamo un interprete perché non potevamo permettercelo. Carlos non aveva più contatti, e a quel punto speravamo semplicemente di vedere in giro dei ribelli con cui potessimo parlare per farci raccontare com’era la guerra.
Proprio allora, degli uomini in uniforme militare sono venuti verso di noi. “Giornalisti!” gridavano in arabo. “Giornalisti!” “Sì, siamo giornalisti.” ho detto, in inglese. Penso che mi abbiano capito. “Vogliamo riportare le notizie. Possiamo seguirvi nelle battaglie?”
Poi è apparso un altro uomo. Era un giornalista siriano e parlava un po’ di inglese. “Non vi preoccupate,” ha detto, “Quei tizi sono dell’Esercito Siriano Libero. Potete andare con loro. Fidatevi di me, siete al sicuro.”
Ovviamente eravamo ancora un po’ incerti. Ma abbiamo capito che era la nostra unica possibilità. Quindi abbiamo pensato di andare e vedere cosa sarebbe successo.
Ci siamo stretti tutti in una piccola e scassata Toyota a due volumi. C’era due soldati davanti, armati di tutto punto, mentre il giornalista siriano, Carlos e io stavamo dietro. Il giornalista ci faceva da traduttore e ha detto che i soldati ci stavano portando alla loro base. Non c’erano segni evidenti di combattimenti in città mentre passavamo; le case erano ancora in piedi, e tutto sembrava in ordine.
Ci sono voluti 40 minuti per arrivare. Quando siamo giunti a quella che sembrava una scuola in disuso, ci hanno condotti all’interno, dove stavano una trentina di soldati e un ragazzo siriano che parlava un inglese molto migliore di quello che era venuto con noi. Ci ha detto che eravamo a Idlib. “Siete giornalisti,” ha continuato. “Ci prenderemo cura di voi. Se volete delle storie, se volete uscire con i ribelli, vi aiuterò.” Lui non era un ribelle, ma soltanto un loro amico. Poi i soldati dell’ESL ci hanno nutriti con un’enorme porzione di hummus e falafel.
Abbiamo finito per passare quattro giorni in quella zona, senza fare molto. Alcuni bambini che abbiamo incontrato nella vicina cittadina di Binnish ci hanno implorato, “Non andate ad Aleppo! Vi vogliamo bene! Non vogliamo che moriate!” Ho detto loro che neppure io volevo morire, ma pensavo stessero solo scherzando. Alla fine ci siamo spazientiti perché non c’era nessun combattimento nella zona, e una notte abbiamo chiesto a uno dei soldati dell’ESL se qualcuno poteva portarci nella Città Vecchia, sotto assedio. Ha risposto: “Certamente.”
Appena prima della mezzanotte, un comandante ci ha portati nella città di Jabal al-Zawiya, un’ora di macchina a est. Ricordo di aver pensato: Ora viaggiamo con un comandante. Le cose si faranno serie. Ci saranno battaglie tutto il giorno.
Jabal al-Zawiya si trova sulle montagne, e abbiamo passato la notte in una piccola casa di fango su una collina. Era piena di vecchi. Indossavano equipaggiamenti militari ed erano armati fino ai denti. Ricordo di aver visto quello che sembrava un appendiabiti con appesi degli M-16. Le bombe esplodevano in lontananza. Oltre ai vecchi, c’era anche un giovane siriano che aveva studiato letteratura inglese all’università, e che tra- duceva per noi.
Il giorno seguente, l’ex-studente ci ha portati in giro, e abbiamo intervistato alcune persone colpite dalla guerra, compreso un uomo che aveva perso la figlia undicenne una settimana prima, quando un missile lanciato da uno dei caccia di Assad aveva colpito casa sua. La nostra guida ci ha portati in un’altra cittadina vicina e ci ha mostrato i resti di una casa che gli shabiha—dei miliziani fedeli ad Assad—hanno bruciato. Siamo entrati nell’edificio annerito e abbiamo fotografato il fotografabile.
Tuttavia, eravamo un po’ delusi. Non eravamo ad Aleppo, dove avevano luogo i veri combattimenti, e volevamo andarci. Volevamo vedere da vicino le bombe che sentivamo esplodere. Così un paio di giorni dopo, un comandante dell’ESL si è offerto di portarci più vicino al fronte, in un’altra base dei ribelli alla periferia della città. Ho detto “Sì, amico, siamo pronti ad andare,” ed è partito con Carlos e me in macchina, noi tre soli.
Abbiamo passato cittadine che erano state completamente distrutte: la maggior parte delle strutture erano state bombardate e stavano crollando, e le poche case rimaste in piedi erano state completamente saccheggiate. Erano città fantasma.
Un paio di ore più tardi, il comandante ci ha lasciati a una base dell’ESL appena fuori Aleppo. C’erano circa 25 ribelli, e il comandante ha ordinato: “Domani portate questi ragazzi ad Aleppo. Vogliono davvero andare a vedere la guerra.” Detto questo, se n’è andato.
Nessuno dei soldati parlava inglese, ma abbiamo fatto del nostro meglio. Non ci hanno offerto cibo come i ribelli di Jabal al-Zawiya. Qui la situazione era ovviamente un po’ più difficile. Avevano visto più combattimenti e avevano lottato contro le forze di Assad per mesi, come era evidente dal loro atteggiamento burbero. Però, in un certo senso, erano comunque amichevoli. Per tutta la notte abbiamo sentito le bombe esplodere sopra e dentro Aleppo, che si trovava a circa 20 chilometri.
Poster di Assad insanguinati dopo una battaglia a Bab al-Nasr.
Al mattino, tre soldati dell’ESL ci hanno portati nel centro di Aleppo. Avevo sentito che tutti gli accessi alla città erano bloccati dalle forze di Assad quindi mi aspettavo che avremmo dovuto in qualche modo sgattaiolare oltre le linee nemiche. Ci immaginavo abbassati sul sedile posteriore a evitare i colpi dei cecchini. Ma non è stato così. Abbiamo semplicemente guidato fin dentro la città. Tutto era ridotto in macerie—gli edifici ancora fumanti per i bombardamenti, interi isolati cadevano a pezzi. Ma in alcune strade c’erano dei negozi aperti, e alcuni civili che si facevano tranquillamente gli affari loro. A intervalli di qualche minuto sentivamo un missile o un colpo di mortaio esplodere da qualche parte.
Quelli dell’ESL ci hanno lasciati davanti a una grossa casa nel centro di Aleppo. C’erano molti combattenti dell’ESL sia dentro che fuori, correvano sparando con degli AK-47. Stavano provando a prendere uno dei cecchini di Assad, che si trovava in un edificio dall’altra parte della strada che rappresentava la linea di demarcazione tra le truppe di Assad e l’ESL. Questa linea era formata da file di palazzi controllati dall’ESL, devastati dai colpi dei missili. I palazzi dalla parte della strada dell’esercito regolare erano relativamente intatti.
Alla fine lo scontro a fuoco si è esaurito, e i tipi che ci avevano portato lì se ne sono andati—non prima di averci presentato ad altri dell’ESL e aver fatto presente che avevamo bisogno di un posto dove stare.
“Allora, la situazione è questa,” ci ha spiegato più tardi uno dei ribelli. “Siamo qui per diventare martiri. Vogliamo aiutare i siriani. Se domani arriva un carro armato e mette la nostra gente in pericolo, andremo là fuori anche a rischio della nostra vita.” Si è strofinato il mento e ha fatto una pausa. “E sono sicuro che voi non vogliate rischiare la vostra vita. Noi moriremo per la causa di Allah. Non penso che voi lo vogliate.”
Io ho pensato: Porco cazzo. Siamo appena stati lasciati nel mezzo di una zona di guerra. Il nostro accompagnatore se n’è andato, e non tornerà. Che cosa faremo se questi tipi non ci permetteranno di rimanere con loro?
Lo scontro con il cecchino si era concluso, e il combattente ci ha portati a fare un giro a piedi per gli isolati vicini nella parte della città controllata dall’ESL. Ci ha mostrato palazzi distrutti dai caccia di Assad e un’ambulanza cui avevano dato fuoco. Poi ci ha portati in una piccola moschea, all’ingresso della quale c’era un cadavere. Era un poliziotto morto, uno degli uomini di Assad. Un paio di settimane prima aveva provato a lanciare una granata sulla moschea ma gli era esplosa in mano. I ribelli avevano lasciato lì il corpo, che era diventato viola e giallo. La puzza era orribile. È stato lì che ho pensato: Ok, non dovrei essere qui.
La nostra guida dell’ESL ci ha portati poi in un enorme centro commerciale. Al piano terra c’erano ancora negozi che vendevano beni di prima necessità come cibo e dentifricio, ma il secondo piano era un completo relitto. Non c’era nessuno in giro, e resti di cibo vecchio e spazzatura erano sparsi ovunque. Le finestre erano sfondate e tutti i negozi erano stati saccheggiati. Sembrava abbandonato, a parte i materassi dove i ribelli riuscivano a schiacciare un pisolino tra le battaglie.
Una volta dentro, il nostro anonimo nuovo migliore amico ci ha spiegato che ci sarebbe stata una battaglia lì vicino nel giro di poche ore, e che avremmo avuto una visuale migliore salendo ai piani alti. La sua unità aveva ricevuto informazioni sul fatto che uno dei carri armati di Assad sarebbe passato su quella strada, e gli avrebbero teso un’imboscata. Io ho detto che avrei voluto salire al piano più alto—il decimo—per fare delle foto. “Puoi stare, se vuoi essere colpito da un cecchino,” ha risposto. Ma ha aggiunto che il settimo piano sarebbe stato sicuro e ci ha fatti salire prima di raggiungere i suoi commilitoni. La vista era fantastica. Carlos e io abbiamo scattato alcune foto dei ribelli che correvano per le strade, preparandosi all’imminente battaglia.
Erano passate tre o quattro ore senza che accadesse nulla. Abbiamo fumato un po’ il narghilè. Ormai ero convinto che la presunta battaglia fosse il risultato di informazioni sbagliate. Carlos era sceso al piano terra per fare qualche foto in più, lasciandomi al settimo piano di questo centro commerciale abbandonato.
A quel punto ho pensato: Siamo in un palazzo molto grande, e il governo mira a colpire i ribelli, che ovviamente hanno usato questo palazzo come quartier generale per un po’. Quindi questo palazzo potrebbe essere bombardato da un momento all’altro.
Forse le mie viscere l’hanno sentito prima delle mie orecchie: un caccia è passato sfrecciando mentre lo stavo pensando.
Un fortissimo rumore, come di tuono, è esploso dall’alto. Il mio istinto aveva smesso di funzionare. Sapevo che era una bomba, ma sono rimasto lì, esterrefatto.
Un secondo dopo è caduta un’altra bomba, seguita da un altro tremendo scoppio che mi ha risvegliato dal torpore. Ho afferrato la mia roba e ho iniziato a correre giù dalle scale. Gridavo il nome di Carlos perché non avevo idea di dove fosse, o addirit- tura se fosse vivo. L’ho trovato in fondo alle scale, terrorizzato. Probabilmente avevo il suo stesso aspetto.
Al piano terra del centro commerciale, i negozianti si davano da fare per raccogliere la merce dalle loro botteghe in modo da non lasciare esche per gli inevitabili sciacalli. Gran parte dei ragazzi dell’ESL si era già messa al riparo, eccetto i due ribelli che erano rimasti al piano terra con noi.
Sono passati un paio di minuti senza che facessero fuoco, abbastanza per far sì che tutti si rilassassero un po’. Carlos ha iniziato a ridere, e io ridevo con lui, nel modo in cui a volte si fa dopo che è successo qualcosa di davvero terribile.
La cosa che ho sentito dopo è stata bam! E improvvisamente la gente ha iniziato a urlare. Mi sono girato e ho visto uno dei ragazzi dell’ESL accanto a noi disteso a terra, con la testa sanguinante. Il suo cranio era stato spaccato in due da un grosso detrito caduto dal piano superiore, appena crollato. Un minuto prima, era in piedi a un metro e mezzo da me. Ora giaceva a terra, e stava morendo dissanguato. Ho tirato fuori una maglietta dalla borsa e ho provato a fermare il sangue, ma l’ha impregnata. Ha perso conoscenza mentre altri soldati dell’ESL arrivavano correndo, trascinavano il suo corpo in strada, e lo caricavano su una jeep.
“È un martire, ora,” mi ha detto in inglese uno dei ribelli.
Un ufficiale della polizia siriana morto fuori da una moschea ad Aleppo.
Quella notte, un soldato dell’ESL che avevamo incontrato nel centro commerciale ci ha portati nella base dei ribelli in un’altra parte della città, dove avremmo potuto dormire al sicuro. Questi nuovi combattenti dell’ESL erano super gentili. Ci hanno addirittura dato un materasso dicendo, “Rimanete quanto volete. Vogliamo che i giornalisti scrivano della guerra.”
Il giorno dopo, fortunatamente, è stato molto più tranquillo. Il nuovo campo comprendeva un media center gestito dai ribelli, con accesso a computer e a internet. La connessione non era molto buona, però, e un gruppo di giornalisti siriani stava monopolizzando le attrezzature. Ho scritto velocemente un pezzo e l’ho mandato a un redattore dell’Indipendent a Londra, assieme ad alcune foto che avevo scattato. Non avevo ancora pubblicato nulla, ma speravo che avrebbero accettato la storia. Uno dei giornalisti siriani mi ha sottratto il computer prima che ricevessi una risposta.
I ribelli ci hanno poi portati a Salaheddin, un quartiere di Aleppo che gli uomini di Assad e l’ESL si sono contesi per settimane. La zona era devastata, e quasi tutti i palazzi erano stati distrutti. Era difficile immaginare che lì avesse vissuto qualcuno fino a poco tempo prima.
Al calare del buio, i rumori dei colpi sono ripresi e non sono cessati fino al giorno seguente. A quel punto mi ci ero abituato e sono riuscito a dormire tra le esplosioni. A un certo punto durante la notte ho alzato la testa, mi sono reso conto che nessun altro era sveglio e ho pensato, Fanculo, torno a dormire.
Il nostro terzo giorno ad Aleppo è stato piuttosto noioso, a parte l’avvistamento di un altro cadavere. Eravamo in mezzo a una battaglia nel quartiere di Bab al-Nasr. Circa 20 combattenti dell’ESL stavano cercando di stanare un cecchino arroccato su un palazzo, e un ribelle l’ha preso. Non ho assistito al momento in cui è accaduto il fatto, ma ho visto il tipo che gridava dopo essere stato colpito. Tutti quelli sulla scena hanno aiutato a trascinarlo su un pick-up, dove è morto poco dopo.
Quella sera, tornati alla base, abbiamo incontrato un ragazzo incaricato delle comunicazioni radio per l’ESL. Ha parlato con noi in inglese, spiegandoci che i ribelli usano tutti walkie-talkie e che questo è un grosso problema. Le truppe di Assad possono sintonizzarsi con facilità sulle loro frequenze.
Nel nostro quarto giorno ad Aleppo sono stato svegliato intorno alle sette di mattina da un’esplosione. Hanno sganciato un altro paio di bombe e poi è tornata la calma.
Sono uscito per vedere cosa fosse successo. Un missile aveva colpito un parco giochi distante circa 30 metri dalla nostra base lasciando un enorme cratere nel pavimento. Un altro missile aveva strappato la facciata alla casa di un signore.
Lì accanto si era radunato un gruppo di siriani. Carlos e io siamo andati a vedere. Alcuni dei giornalisti francesi che stavano alla base sono venuti con noi, insieme a dei militanti dell’ESL. Metà della casa era andata, e i suoi vicini si erano radunati nel cortile. I giornalisti francesi stavano intervistando delle persone, quando improvvisamente la folla di siriani ha iniziato a raccogliere pietre per poi lanciarcele addosso.
“Ah, voi francesi bastardi!” ha gridato qualcuno. “Voi occidentali pezzi di merda! Non vi importa di noi!” Poi la gente si è rivolta ai ribelli, lanciando pietre contro di loro. “Andatevene,” ci hanno detto “e portate l’ESL con voi!”
(Un tipo dell’ESL mi ha successivamente tradotto con esattezza quello che avevano detto; pur non essendo in grado di capire le loro parole al momento, avevo intuito che il succo era che non ci volessero tra i piedi.)
Non lo sapevo allora, ma i civili ad Aleppo vengono colpiti a causa della loro vicinanza a una base dei ribelli. Quindi ci sono tensioni tra i civili e l’ESL. Più tardi, ho visto un gruppo di uomini dell’ESL che picchiavano un negoziante che aveva chiesto loro di scendere dal suo tetto. Aveva paura che un caccia potesse bombardare il suo negozio. I ribelli sono scesi e l’hanno preso a pugni e calci, poi l’hanno chiuso nel negozio.
Tornando alla folla: la gente stava gridando agli uomini dell’ESL lanciando pietre, e quelli dell’ESL gli gridavano di rimando, mentre i giornalisti francesi riprendevano tutto. Ci sono molti cittadini ad Aleppo che non appoggiano completamente l’operato dell’ESL. Non sostengono neppure l’operato di Assad. Ovviamente ci sono anche tanti altri che sostengono l’ESL. Semplicemente non tutti. Lo spettro delle posizioni è vario e complesso.
Un combattente dell’ESL, dopo essere stato colpito al ventre da un cecchino, a Bab al-Nasr.
Tutto è andato completamente fuori controllo durante il pomeriggio. Prima, la nostra guida ci ha portati in un paio di quartieri devastati per vedere altre battaglie. In uno di essi, abbiamo incontrato un ragazzo di 18 anni, un americano di origini siriane. Ci è venuto incontro e ha iniziato a parlare con un forte accento americano. Ha detto di essere della Virginia e di essere venuto in Siria per unirsi all’ESL e aiutare a uccidere Assad. “Secondo te lascio che la mia gente venga assassinata senza fare nulla?” ha detto. Non ha voluto dirci il suo nome.
A questo punto ci ha presi in consegna un’altra guida dell’ESL, che ci ha portati a una base dove è stata intervistata per Agence France-Presse. Gli ha detto un mucchio di cazzate. Quando il giornalista francese gli ha chiesto se si procuravano le armi dai contrabbandieri che entravano attraversando il confine turco, la nostra guida ha risposto: “Oh, quali armi? Quelle armi? Non le prendiamo dal confine. Le armi che abbiamo sono le stesse che avevamo nell’esercito prima di disertare. Usiamo ancora le stesse armi.” Mi sembrava una cazzata incredibile.
Ha anche raccontato al giornalista francese la storia di come, durante la giornata, avesse preso parte a una battaglia in cui ha fatto saltare in aria otto carri armati. E io ho pensato: Di quali cazzo di carri armati sta parlando? Ero stato con lui tutto il giorno, e l’unico veicolo che aveva quasi fatto saltare in aria era la sua macchina, che aveva riempito con il combustibile sbagliato. Quando gli abbiamo chiesto delle spiegazioni, ci ha detto: “Be’, siete voi a non averli visti.” Ma era una cazzata. Comunque capisco, credo. È propaganda, l’ESL pensa di doverne fare il più possibile per convincere la gente che stanno battendo Assad, per farli passare dalla loro parte.
Dopo l’intervista, abbiamo ricevuto una chiamata: pare che fosse stata bombardata una panetteria e dovevamo andare all’ospedale dove stavano soccorrendo le vittime. Ci sono voluti 15 minuti per arrivare là e ci siamo ritrovati davanti uno spettacolo terrificante. L’“ospedale” sembrava ricavato da un piccolo hotel.
All’esterno c’erano sette o otto corpi allineati lungo la parete. Erano coperti con delle lenzuola, con le braccia e le gambe irrigidite che sporgevano da sotto il tessuto. Di fianco, una donna piangeva disperata sul corpo di suo figlio. I cronisti le si accalcavano intorno.
Lì ho capito che forse non ero tagliato per fare il giornalista. Non riuscivo ad avere la faccia tosta necessaria per farle una foto. Alla fine, ne ho fatte un paio, ma era straziante.
Dentro, la gente si trascinava in una confusione di corpi massacrati. La maggior parte delle vittime era cosciente e respirava, ma c’era sangue dappertutto. Avevano un tubo con cui cercavano di aspirare tutto il sangue dal pavimento. I dottori cercavano di curare tutti in una volta, ed era evidente che stessero passando un momento orribile—soprattutto quando cercavano di curare un uomo la cui testa perdeva sangue a fiotti.
Non avevo mai visto nulla di simile e non riuscivo a sopportarlo, quindi sono tornato fuori. Ma fuori la situazione non era migliore. Era arrivato un camion, e un gruppo di uomini stava caricandoci dentro il corpo di un giovane. Uomini e donne piangevano.
Un altro uomo è entrato con la figlia tra le braccia. Sanguinava dalla testa. Lui stava singhiozzando e sembrava sul punto di crollare a terra dalla stanchezza e dal pianto. Qualcuno ha preso sua figlia e l’ha portata dentro; l’uomo è collassato.
Come si può fare la cronaca di una cosa del genere? Cosa avrei dovuto fare, chiedere alla gente, “Ehi, tu, come ti senti a proposito?” Avrebbero risposto, “Oh, sai, penso di stare bene. La panetteria è stata bombardata, mia figlia è morta…” Era tutto così raccapricciante. Volevo solo andarmene di lì.
Il piano mio e di Carlos era di stare in Siria per sei settimane. Questo era il nostro quarto giorno ad Aleppo, ed è stato in questo ospedale che ho deciso che dovevamo andare via. Ma Carlos non voleva. “Ci stiamo comportando come dei cazzo di codardi,” ha detto. “Domani mattina andrà meglio.”
Poco dopo essercene andati dall’ospedale, anche Carlos ha perso la testa. Abbiamo lasciato la panetteria ed eravamo in macchina con uno dell’ESL. Volevamo tornare al media center, ma l’autista ci ha detto che era stato attaccato dagli aeroplani di Assad durante la giornata e che non era più sicuro per noi stare lì. Mentre eravamo in viaggio, partivano colpi di mortaio ogni due minuti.
Improvvisamente, è apparso un caccia proprio sopra la nostra auto. Il nostro autista, terrorizzato dall’eventualità che potesse spararci, ha deviato in una minuscola viuzza. Ci siamo nascosti lì, sperando che non ci individuasse.
Pensavo che fossimo al sicuro, ma all’improvviso Carlos ha iniziato a dare i numeri. “Merda! Merda!” gridava, “Verranno a prenderci! Dobbiamo uscire dalla macchina.”
E io ho detto, “Tu sei completamente fuori di testa! Questo non servirà a nulla. Se vedono un uomo bianco con una macchina fotografica che corre da solo in giro per la strada, ti colpiranno con tutte le bombe che hanno.” Questo l’ha calmato.
I dottori lottano per salvare i feriti dopo che le truppe di Assad hanno bombardato una panetteria ad Aleppo.
Quella notte, visto che il posto dove stavamo era stato distrutto, siamo stati portati in un alloggio sicuro per i giornalisti alla periferia di Aleppo. Era lì che stavano i giornalisti francesi e gli inviati del New York Times. Noi non sapevamo nemmeno della sua esistenza.
Sono venuti con noi altri quattro giornalisti, e durante il tragitto siamo scampati per miracolo all’attacco di un caccia di Assad che ha iniziato a seguire il nostro taxi, e uno dei cronisti con cui mi trovavo gli ha fatto una foto con il flash. Il pilota ha risposto tornando indietro in picchiata e sparando due missili sull’autostrada. Ci hanno mancati, ma l’autista del nostro taxi ha quasi avuto una crisi isterica. Non potevo davvero credere che stesse succedendo un’altra volta. Sono stati i dieci secondi più assurdi della mia vita.
L’autista del taxi ha iniziato a gridare al tipo che aveva fatto la foto, e pensavo che sarebbe scoppiato a piangere da un momento all’altro. E ho chiesto a Carlos: “Vuoi ancora rimanere in Siria?” Alla fine, ha ammesso che ce ne saremmo dovuti andare.
Siamo riusciti ad arrivare all’alloggio, e il giorno dopo il signore siriano che gestiva il posto ha organizzato un taxi che ci sarebbe venuto a prendere per portarci fuori da Aleppo. Ma quando è arrivato, Carlos e io non avevamo abbastanza contanti. Io avevo portato con me solo 5.000 lire siriane circa (meno di 60 euro) e me ne erano rimaste soltanto 800. L’autista ha detto che non erano abbastanza per portarci fino in Turchia. Ha detto che per quella somma ci avrebbe portato fino alla città di Azaz. Non era tanto lontano da Aleppo, ma a noi interessava solo andarcene da lì, quindi siamo saliti.
Arrivando ad Azaz, era evidente che la città era stata completamente annientata dalla guerra. Ma lì abbiamo trovato un altro taxi. Non avevamo soldi, e ha detto che ci volevano 20 dollari per arrivare al confine. Ho finito per fare un baratto, dandogli il mio iPod per un passaggio.
Quando siamo finalmente tornati al confine turco, tre soldati dell’ESL dalla parte siriana non volevano lasciarci passare. Erano gentili ma irremovibili. Apparentemente, eravamo entrati illegalmente in Siria e per questo non potevamo uscirne legalmente. I nostri passaporti non erano timbrati. Ci hanno detto che saremmo dovuti tornare indietro dove avevamo preso il taxi e trovare un altro modo per passare in Turchia.
L’unica scelta che avevamo era accettare un passaggio per Azaz con altri uomini dell’ESL che erano amici delle guardie di confine. Ci hanno portati lì e poi ci hanno aiutati a rimediare un altro passaggio da Azaz a un punto del confine dove sarebbe stato più facile entrare di nascosto—un’arida distesa di terra con sopra uno stabilimento industriale.
Il tipo che ci ha lasciati lì si è girato verso Carlos e me e ha detto, “Ok, ci siamo. Ora correte e basta!”
“E se dei soldati turchi decidono di spararci a raffica?” ho chiesto.
“Per questo dovete correre!” ha detto.
Cagandoci addosso, abbiamo attraversando questo lembo di deserto per cinque minuti. Siamo riusciti a tornare a Kilis, in Turchia. Non era proprio come essere tornato a Londra, ma il semplice fatto di avere ancora i coglioni e di indossare calzini mi riempiva il cuore di gioia. Ma soprattutto, ero felice di non essere più in Siria. Non volevo più fare il giornalista. Pensavo che forse mi sarei buttato in politica.
A Kilis ho controllato la mia e-mail per la prima volta da quando eravamo arrivati ad Aleppo. Il redattore dell’Indipendent—quello a cui avevo inviato il mio unico dispaccio e alcune foto—aveva risposto. Il suo messaggio diceva che, sfortunatamente, avrebbero dovuto rifiutare la mia storia. Ed è così che è iniziata e finita la mia carriera di corrispondente dalle zone di guerra.