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È possibile avere un ristorante e rendere sostenibile il lavoro dei dipendenti?

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Qui si lavora con orari che permettono ai pasticcieri di avere tre giorni liberi a settimana, di cui due consecutivi, inclusi sempre un sabato o una domenica.

“Nessuno vuole più lavorare nei ristoranti” è il titolo di una dozzina di articoli e un fenomeno complesso che vale anche per altri mercati professionali. Un articolo del New York Times si chiedeva infatti se il mondo del lavoro durante la pandemia fosse cambiato per sempre. Le risposte le leggeremo nei prossimi anni, ma alcune certezze ci rimangono in mano: non tutti i ristoranti sono delle cucine da incubo e il burnout non è assicurato solo perché fai il cuoco.

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Per questo, onde evitare solo di parlare dei lati negativi del mondo della ristorazione, abbiamo cercato alcuni esempi in cui pare che le cose funzionino piuttosto bene. E abbiamo chiesto a queste pasticcerie/ristoranti/catene di spiegarci come sono organizzati, com’è andata dopo il Covid e perché loro non hanno risentito così tanto del progressivo abbandono di cucine e sale da parte dei lavoratori del settore.

Non c’è un ufficio specifico delle risorse umane proprio perché, spiega Clementina, non ci deve essere una separazione tra i vari ambiti.

Di Forno Brisa parliamo con Clementina Verrocchio, coordinatrice dei negozi del gruppo. A dire il vero ne abbiamo già parlato in passato, in occasione dell’arrivo di una certificazione, Great Place To Work®, che attestava proprio che questo è, secondo i dipendenti, uno dei migliori posti in cui lavorare in Italia. Dal 2015 ad oggi, racconta Clementina, si è passati da 2 fondatori e due risorse a 39 persone. 

L’organizzazione aziendale si regge su un forte impianto ideologico o, meglio, idealista, che ha al suo interno alcune buone pratiche “che abbiamo visto funzionare bene” spiega Clementina “per esempio favoriamo la comunicazione diretta tra le persone” per evitare fraintendimenti e conflittualità “stimoliamo la richiesta di feedback nel caso in cui ci sia qualcosa di non chiaro”.

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Foto per gentile concessione di Forno Brisa

Tutto si basa poi su un modello di partecipazione attiva dove ognuno è invitato a dire la sua. Si lavora all’interno di un team di 4-5 persone dove c’è un coordinatore che conosce bene le esigenze e le caratteristiche dei suoi colleghi. Non c’è un ufficio specifico delle risorse umane proprio perché, spiega Clementina, non ci deve essere una separazione tra i vari ambiti. Ogni settimana si svolge una riunione tra team, ogni due mesi un colloquio individuale, quattro volte l’anno una riunione plenaria. È in queste circostanze che sono nati i feedback sulla soddisfazione individuale e collettiva. “Per questo non eravamo preoccupati di ottenere una certificazione, che non è un premio ma un processo in cui alla squadra vengono sottoposti dei questionari di gradimento”.

Credibilità, rispetto, orgoglio, coinvolgimento, giustizia sono alcune delle tematiche indagate da una società esterna di consulenza e people analytics presente in oltre 60 Paesi nel Mondo che assegna la certificazione: tra queste il senso di comunità, la coesione e il coinvolgimento hanno ottenuto un consenso del 97% fra le persone che lavorano da Brisa. 

“Sai quante volte ci hanno detto che noi trattiamo i clienti come se fossero numeri? In molti casi è vero il contrario, sono i clienti che trattano il ristorante come fosse casa loro”

Milano è una delle città forse maggiormente colpita dalla mancanza di persone che non sono tornate a lavorare nei ristoranti dopo il Covid. Milano è poi piena di attività dedicate all’ospitalità, non a caso proprio la Lombardia è la regione italiana con il maggior numero di ristoranti. In questa competizione accanita, c’è un’insegna che è praticamente sempre piena dall’apertura, Trippa.

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Pietro Cairoli. Foto di Martina Leo, per gentile concessione dell’intervistato.

Pietro Caroli è proprietario del locale al 50% con lo chef Diego Rossi. “Io mi occupo sia della parte amministrativa che gestionale. La sostenibilità lavorativa di Trippa è stato il mio pallino sin dall’inizio”. Caroli non viene dalla ristorazione e questo sembra, stando ai risultati, un grande vantaggio. “Lavoravo in una multinazionale, dove processi, metriche e statistiche erano all’ordine del giorno. Ho cercato di portare un po’ di organizzazione aziendale in un posto che nasceva quasi come una trattoria di famiglia”. 

Come ci racconta, ogni risultato viene ottenuto con il tempo perché “creare un ambiente lavorativo motivante e poco stressante, non è per niente facile” e non è neppure una prerogativa di tutti. “Noi siamo riusciti perché abbiamo una domanda estremamente più alta rispetto alla nostra offerta di coperti. Abbiamo potuto dettare noi le regole. Soprattutto in una città come Milano dove ci sono tanti ristoranti, chi non riesce ad emergere è schiavo delle esigenze dei clienti”. Parliamo ad esempio di prendere prenotazioni a tutte le ore, evitare il doppio turno, far rimanere clienti ben oltre l’orario di chiusura, tenere il personale per ore senza far nulla: insomma lavorare senza ottimizzazione. “Sai quante volte ci hanno detto che noi trattiamo i clienti come se fossero numeri? In molti casi è vero il contrario, sono i clienti che trattano il ristorante come fosse casa loro. Arrivando in ritardo o cambiando il numero dei commensali senza avvisare ad esempio”. E in fondo lo sappiamo bene, perché anche noi siamo stati quei clienti. Peccato che questi comportamenti poi qualcuno li paga, e spesso sono proprio i dipendenti. 

Da Trippa oggi ci sono, oltre a Pietro e Diego, 10 risorse. “Con il personale non abbiamo avuto grosse difficoltà. Abbiamo persone che sono con noi fin dall’apertura. Il problema semmai sarà dal 1° ottobre perché ci hanno annunciato un aumento folle delle bollette.” Mentre parliamo Pietro ripete spesso la parola famiglia perché è una situazione che interessa diversi dipendenti, oltre a lui. “Conciliare famiglia e lavoro non può essere un problema, altrimenti la ristorazione diventa un passaggio per chi ha bisogno di arrotondare. È chiaro che tutti vorrebbero mettere a letto i figli anziché lavorare la sera, ma è vero anche che questo mondo ha bisogno di professionisti”.  

Io non sono abituata alla gerarchia, per questo non la applico

Anche a Roma i ristoranti sono tantissimi, sia tra le insegne storiche che le nuove aperture. Claudia Martelloni rappresenta una piccola realtà, ma non per questo gestita “come si è sempre fatto” che nel 99% dei casi vuol dire “male”. Ha cominciato da autodidatta, poi ha lavorato in un locale e infine ha aperto la sua pasticceria, Charlotte Pasticceria, che nel giro di pochissimi mesi ha riscosso molto successo in città. Il fatto di non aver fatto la classica gavetta presso qualche nome famoso ha influito positivamente sul suo modo di gestire l’attività. “Io non sono abituata alla gerarchia” mi dice “per questo non la applico. Chiaro che ci sono ruoli diversi, ma nulla che mi faccia pensare che io posso fare come mi pare, oppure che non devo lavare i piatti. Non è necessaria una gavetta di sofferenza per imparare. Per me trattare le persone con rispetto è scontato, mica mi devo sforzare”. 

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Foto per gentile concessione di Charlotte Pasticceria
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Foto per gentile concessione di Charlotte Pasticceria

Da Charlotte Pasticceria si lavora con orari che permettono ai pasticcieri di avere tre giorni liberi a settimana, di cui due consecutivi, inclusi sempre un sabato o una domenica. Durante le festività le ore di straordinario ci sono e vengono regolarmente pagate. “Non che mi manchino le richieste di aprire più giorni, ma voglio avere una vita. E voglio che ce l’abbiano pure le persone che lavorano qua. È per questo che non ho voluto fare i lieviti: non mi sveglierò mai alle quattro di notte per fare i cornetti. All’ora di pranzo chiudiamo un’ora e mangiamo tutti insieme al tavolo. Potrei lasciare aperto e mangiare a turni in cucina, ma sarà davvero quell’ora a cambiare la vita di questo negozio?”. 

All’apertura di Charlotte Pasticceria Claudia ha cominciato da sola in pasticceria con un aiuto, e suo fratello Alessio al banco, adesso in laboratorio sono in tre. Questa piccola bottega però corrisponde molto all’immagine di chi l’ha aperta, quindi come fa una persona esterna a non sentirsi una mera esecutrice? “Cerco di scegliere persone che siano in sintonia con il mio modo di vedere la pasticceria e di coinvolgerle sempre di più. Da poco è uscito un dolce realizzato interamente da Francesco. E così l’ho pubblicizzato ai miei clienti”. Per arrivare a questo punto ha fatto tanti colloqui “Non ho mai avuto problemi né quest’anno né l’anno scorso a ricevere curricula. Tutti quelli a cui ho proposto i nostri orari mi hanno risposto che sarebbero stati disposti a lavorare molto di più, quasi non ci credevano”. 

Mi aspettavo in questo periodo molte richieste di aumento di stipendi. E invece meno dell’8%. Ci chiedevano, invece, più regolarità nei turni per poter organizzare meglio il tempo libero

La storia di Berberè è un altro caso studio interessante. Creato dai fratelli Matteo e Salvatore Aloe, oggi il progetto conta 250 risorse di 28 nazionalità diverse dislocate su diverse città italiane. “La prima regola è sempre la trasparenza e la coerenza” spiega Matteo “Il nostro non è un franchising, tutte le persone sono assunte direttamente. Però stiamo diventando grandini, quindi per loro stiamo lavorando su un sistema di welfare funzionale alla miriade di differenze che ci sono tra i dipendenti, che vada incontro all’inflazione e al costo della vita. Faccio un esempio: a Roma i dipendenti usano molto la macchina, a Milano i mezzi pubblici. Regalare dei buoni benzina non sarebbe d’aiuto per tutti”.

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Foto di Alberto Blasetti, per gentile concessione di Berberè

Anche da Berberè c’è una specifica organizzazione aziendale, incontri di gruppo e survey anonime. Da quest’ultima, come riporta Matteo “Mi aspettavo in questo periodo molte richieste di aumento di stipendi. E invece erano meno dell’8%. Ci chiedevano, invece, più regolarità nei turni per poter organizzare meglio il tempo libero e comunicazioni più fluide tra i vari reparti”. 

Da Berberè c’è un ufficio risorse umane composto da tre figure. “Io mi sono laureato in economia e la mia tesi si occupava della mancanza di cultura manageriale nella ristorazione. In Italia ci sono molte imprese famigliari, oppure con l’oste che è anche proprietario. Ma in questo settore ci vogliono le competenze. Noi non abbiamo mai pensato di fare da soli”. Con 12 anni di storia alle spalle, il rischio è che chi arrivi oggi non entri nelle dinamiche consolidate. “Abbiamo i nostri manuali, dal giorno 1 insegniamo come gestire la sala o il lievito madre. Tutti hanno la possibilità di crescere. Il 90% dei nostri store manager ha cominciato da cameriere”. Ogni cambiamento però va fatto seguendo un iter organizzato, badando alla sostenibilità anche economica dell’azienda. “Io continuo a dire che è un lavoro stupendo” dice in controtendenza “ci si può divertire lavorando insieme, l’importante è giocare secondo le regole”. 

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