SpongeBob è il nuovo Che?

Un venerdì pomeriggio dello scorso giugno una nuova ondata di manifestazioni a favore della democrazia ha attraversato vorticosamente il centro del Cairo. I dimostranti protestavano perché l’ultimo Primo Ministro dell’ex dittatore Hosni Mubarak, Ahmad Shafiq, era arrivato al ballottaggio nelle storiche elezioni presidenziali.

Nel mezzo dei tumulti, un giovane attivista con occhiali dalla montatura nera e il pugno alzato guidava i cori contro il vecchio regime. Era facile da individuare, arrampicato sulle spalle di un compagno, con addosso una maglietta giallo intenso su cui era raffigurata la nostra amata creatura sottomarina SpongeBob, protagonista dell’omonimo cartone per bambini.

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SpongeBob è oggi una presenza familiare in Piazza Tahrir. Gli ambulanti che vendono bandiere egiziane e magliette su cui sono stampati slogan rivoluzionari hanno quasi sempre anche magliette di SpongeBob. Il turista che arriva in piazza oggi potrebbe chiedersi se SpongeBob sia diventato—come le onnipresenti magliette di Che Guevara o le inquietanti maschere di Guy Fawkes rese popolari dal film V per Vendetta—un bizzarro simbolo di resistenza nella cultura popolare internazionale.

Shereif Elkeshta, un regista egiziano-americano che viaggia spesso tra New York e Il Cairo, ha detto di aver notato per la prima volte le t-shirt gialle durante una visita alla piazza lo scorso maggio, più di un anno dopo la rivoluzione. “Improvvisamente non si trattava più di hurriya [libertà], ath-thawra [rivoluzione] o del 25 gennaio, erano semplicemente magliette, e SpongeBob; forse è il newyorkese che è in me a parlare, ma SpongeBob? Queste persone sanno almeno cos’è SpongeBob?”

Elkeshta ha successivamente citato il fenomeno di SpongeBob in un articolo sull’incoerente situazione politica in Egitto apparso su Midan Masr, una rivista mensile indipendente. Ha scritto, “Per quale ragione [SpongeBob] non ha quantomeno in mano una molotov? O non ha il pugno alzato?”

Quindi SpongeBob è un’icona rivoluzionaria? Sembra evidente. Le magliette sono giallo acceso, colore che dà loro visibilità, come si addice alle manifestazioni. SpongeBob è un personaggio ottimista che si è guadagnato un seguito considerevole quando il cartone ha iniziato a essere trasmesso in arabo, con il lancio di Nickelodeon Arabia nel 2008.

E soprattutto, c’è il simbolismo dell’ambizione dell’uomo qualunque, ehm, spugna qualunque, che fatica per trovare il suo posto nel mondo. Wael Abbas, un famoso blogger e attivista che è stato arrestato e picchiato dalla sicurezza di Mubarak, ha detto di essere un grande fan di SpongeBob perché, “Il personaggio è un tipo semplice, un lavoratore, non è un supereroe come eravamo abituati a vedere nei cartoni animati e nei fumetti, ed è comunque circondato da amici che gli vogliono bene.”

Ma Abbas, e qualunque altro egiziano, vi può dire che non c’è alcun significato politico nelle magliette di SpongeBob. Ashraf Khalil, un giornalista egiziano-americano autore di un libro sulle sollevazioni, afferma che le magliette di SpongeBob dicono molto sul cambiamento avvenuto a Piazza Tahrir durante l’anno scorso. “Le magliette di SpongeBob vendute in Piazza Tahrir sono solo indicative del fatto che commercianti apolitici vi abbiano stabilito i propri esercizi lo scorso anno, dopo la rivoluzione, e vi espongano qualunque cosa pensino di poter vendere,” dice Khalil.

Fin dai primi giorni della ribellione, la piazza è stata il centro di un violento confronto con lo Stato autoritario. I giovani egiziani hanno combattuto e sono morti a centinaia per mantenere l’occupazione civile della piazza durante la rivolta dell’inverno 2011 contro il dittatore Hosni Mubarak, dovendo difendersi dalle squadre antisommossa e dagli sgherri in borghese a cavallo di cammelli.

Poco dopo i 18 giorni di duri scontri all’inizio della rivolta, il commercio si è rimesso in moto, e i venditori ambulanti, a lungo tenuti sotto controllo dalla polizia di Mubarak, hanno messo su i loro piccoli esercizi in piazza, iniziando col vendere bandiere e finendo con striscioni e magliette con slogan rivoluzionari. Anche oggi che Piazza Tahrir ospita un’incessante protesta contro Mohamed Morsi, il Presidente affiliato ai Fratelli Musulmani, i venditori di magliette si ritagliano i loro spazi.

E le magliette vanno a ruba, in parte grazie alla popolarità di SpongeBob in Egitto, che per coincidenza ha iniziato a crescere esponenzialmente nel periodo successivo allo scoppio della rivoluzione. Il personaggio ha ispirato dozzine di gruppi su Facebook, compreso almeno uno che lo nominava per la presidenza nella storica elezione dell’anno scorso, e una sdolcinata canzone pop in arabo, “Ana SpongeBob”, del cantante egiziano Hamada Helal. Il video, realizzato senza risparmiare budget, al momento ha raggiunto quota 5,9 milioni di visualizzazioni su YouTube; Helal vi canta, con indosso un costume di SpongeBob, “Io sono SpongeBob” a una festa per bambini.

Basta fare un paio di isolati a piedi nel centro del Cairo per assistere con i propri occhi alla proliferazione di gadget di SpongeBob. Ogni due passi, venditori ambulanti propongono giocattoli e adesivi, e i negozi vendono magliettine e cappellini di SpongeBob per bambini. Alcuni dei vestiti sono importati dalla Cina, altri sono prodotti dalla mastodontica industria tessile nazionale. 

Un venditore, Islam Muhammad Ibrahim, 24 anni, che vendeva vestiti a una bancarella, mi ha spiegato che il personaggio è così popolare che lui si stampa le immagini da internet a casa sua, a Giza, ne fa degli stencil e crea i suoi vestiti per bambini. Mi ha mostrato una felpina bianca con la scritta “SpongeBob” in blu. Mi ha detto che quel giorno ne aveva vendute dieci.

La SpongeBob-mania ha anche provocato, l’anno scorso, l’ira di un opinionista musulmano conservatore, Sheikh Nabil Al-Awadhi, che ha usato un programma sulla tv satellitare per condannare la spugna gialla, accusandola di spingere i ragazzini a vestirsi e comportarsi in modo effeminato.

Quindi si può dire che ci sia un collegamento indiretto tra SpongeBob e la rivoluzione, nel senso che le sollevazioni hanno trasformato Piazza Tahrir da grande rotatoria vuota a roccaforte della rivoluzione, e infine in un centro del commercio ambulante.

Elkeshta la vede come una trasformazione dello spazio urbano: “Qualcuno mi ha detto, ‘La ragione fondamentale per cui abbiamo fatto una rivoluzione è che al Cairo non abbiamo parchi pubblici,’ ed è un’affermazione che mi è piaciuta molto. In qualche modo, penso che sia vero. Si trattava davvero di persone che reclamavano semplicemente un po’ di zone pedonali in una delle città più folli del mondo.”

Ma un ragazzo che vende magliette di SpongeBob per adulti in vari colori a Tahrir, oltre a magliette che commemorano la rivoluzione, vede il suo lavoro come collegato, per vie traverse, con le sollevazioni. Gli attivisti accampati nella piazza sono suoi “amici e fratelli” dice, sporgendosi oltre la transenna che corre lungo il marciapiede per mostrarmi il buco di un proiettile delle forze di sicurezza. “Un sacco di gente è morta, qui,” ha detto.

Sicuramente SpongeBob non ha nulla a che fare con la rivoluzione, dice, ma sostiene che il resto della sua merce è diverso, e mi mostra come esempio una maglietta con scritto “25 GENNAIO: IL GIORNO IN CUI CAMBIAMMO L’EGITTO”. “Vendiamo magliette perché la gente si ricordi della rivoluzione,” ha detto. E, tra l’altro, “È meglio che vendere solo ai turisti.”

Ma questo non fa di SpongeBob un simbolo politico. Come molti altri, il blogger e attivista Wael Abbas sospetta che l’onnipresenza delle magliette abbia più a che fare con aspetti economici che con aspetti politici. “Si tratta di cose commerciali, di commercializzare tutto, di commercializzare la rivoluzione,” dice.

Abbas si chiede se le magliette siano il segnale di una sorta di apatia, di uno strisciante malessere post-rivoluzionario. Sostiene che a parte “l’ondata commerciale del vendere la rivoluzione, vendere i poster, vendere le fotografie delle manifestazioni e tutto quel genere di cose, la gente non è [più] molto interessata alla rivoluzione, perché adesso ci troviamo di fronte una realtà e vogliamo cambiarla.”