Lorenzo Declich è un esperto di mondo islamico contemporaneo. Co-traduttore dall’arabo di saggi e romanzi, ha curato libri e collaborato con diverse testate giornalistiche . Nel 2015 ha pubblicato L’islam nudo: le spoglie di una civiltà nel mercato globale.
In Italia tendenzialmente abbiamo un’informazione che procede per emozioni. I fatti invece rimangono lì, analizzati svogliatamente e male: attorno a essi si costruiscono tante cose che ben poco hanno a che vedere con essi. L’islam, il mondo islamico, la Siria e l’Iraq, il jihadismo e il terrorismo sono temi complicati, sensibili, sempre controversi, di cui solitamente si occupano in pochi e che interessano a pochi. Ma quando succede un fatto come quello di Parigi la platea si ingigantisce improvvisamente, e tutti vogliono sapere—nella maggior parte dei casi sapere qualcosa che si colleghi a una qualche altra cosa che già sanno.
Comprensibile, si dirà. Ma comunicare le conoscenze, in questi frangenti, diventa difficile perché entra in campo il mantra della “semplificazione giornalistica.” La conoscenza è ammessa solo a condizione che sia riferita a quel fatto specifico o al lasso temporale che ci separa da esso. Le immagini hanno il sopravvento sulle parole. E diventa necessario fare i conti con i tabù che la situazione impone, perché cose che fino a ieri facevano addirittura audience—l’ironia, la boutade, il politically uncorrect—oggi suonano come un oltraggio. Come se ciò non bastasse ci sono anche da affrontare torme di improvvisatori, di “portatori dei valori dell’Occidente” vestiti da giornalisti in fase agonistica.
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Venerdì sera ero a cena con dei vecchi amici, alcuni dei quali mi hanno accompagnato anche negli anni dell’università. Uno di loro fa il giornalista e ha ricevuto la notizia degli attacchi di Parigi; abbiamo acceso la televisione, abbiamo acceso i portatili, abbiamo acceso tutto e siamo rimasti lì, a cercare di capire, fino a tardi. Dopo la nottata ho deciso di spegnere.
Erano chiare molte cose fin dall’inizio—ideatori, esecutori, vittime, elementi di novità rispetto al passato—e su tante altre non si poteva far altro che aspettare. Tutto ciò che c’era in mezzo non poteva che essere rumore. Stavolta avrei provato a risparmiarmelo.
Non ci sono riuscito. Nel pomeriggio seguente, sabato, mi sono trovato in macchina sulla via Prenestina, tristemente nota, insieme a tante altre vie consolari di Roma, per il suo traffico. Ho acceso lo stereo e mi sono sintonizzato su una radio della Roma in cerca di un po’ di relax. Ma ho scoperto che la mia radio della Roma (ce ne sono un bel po’, io ascolto Rete Sport) dedicava la giornata ai fatti di Parigi. Con mia somma sorpresa ho scoperto che i conduttori erano bravi, si sforzavano di capire. Inquadravano la cosa piuttosto bene, separavano islam da terrorismo, e non solo perché Mohamed Salah—l’ala egiziana strappata alla Fiorentina, non il terrorista in fuga, Salah Abdeslam—è un campione e dentro di sé dice Allahu Akbar dopo aver fatto gol. Molto misurati, chiedevano informazioni a inviati sul posto, argomentavano di storia, di geopolitica, di società. Erano profondamente onesti nella presentazione e—credo—nello sbigottimento.
Rincuorato ho pensato, dopo un’ora di ascolto, che valeva la pena cambiare canale e cercare qualcosa di più approfondito. Sono incappato in un canale RAI, non ricordo quale, in cui un giornalista parlava di un passaporto siriano ritrovato su uno dei luoghi dell’attentato. Dava per certo che il passaporto appartenesse a un terrorista e che questi fosse un profugo “arrivato coi barconi.” Collegava l’attentato con l’afflusso di rifugiati in Europa e nonostante un’indignata rappresentante di UNHCR in Italia, collegata telefonicamente, lo invitasse a non dire spropositi o avanzare sospetti inutili, insomma a non fomentare odio ingiustificato, lui insisteva, e insisteva come dovendo intendere che il problema profughi c’era, eccome.
Su quel passaporto, che era falso e del quale si sono trovate diverse copie in giro per l’Europa, si è fatta poi molta letteratura, gran parte della quale di un complottismo insopportabile. Ma questo è di relativa importanza, qui. L’importante, la cosa da sottolineare, è che quel giornalista della RAI era approssimativo, capzioso e anche arrogante. I giornalisti sportivi di Rete Sport stavano fornendo un servizio alla comunità incommensurabilmente migliore, nonostante (o forse proprio per il fatto che) ad ogni piè sospinto ci tenessero a sottolineare di non essere specialisti in materia.
Mi sono chiesto come tutto ciò sia potuto succedere. Mi sono chiesto come molti giornalisti ci siano arrivati, nelle redazioni, e chi dia le abilitazioni professionali. Ho spento la radio, trovando meno disturbante il mio vicino di macchina il quale, almeno, aveva qualcosa di autentico—seppure orribile—da esprimere. Mentre combattevo contro di lui e altri automobilisti, niente affatto certo di arrivare a casa in un orario decente, una parte dell’opinione pubblica italiana si stava formando su temi decettivi attorno a delle sostanziali idiozie.
Alcuni giornalisti del servizio pubblico stavano sciacallando più o meno coscientemente un massacro orribile, del quale, ne ero certo, gli italiani non stavano capendo un granché.
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Arrivato a casa non ho cenato, mi sono attaccato al computer, e la mia certezza si è rafforzata. In rete ho visto all’opera una ventina di propagande diverse. Neanche i bufalari facevano in tempo a reagire alla tempesta di proclami, sottintesi, provocazioni mascherati da notizie. Ho visto anche i primi segnali della deriva autoreferenziale caratteristica dei social: facevano capolino i primi “vergogna”, i primi “è colpa vostra se.” Lavoravano già a pieno ritmo le catene di santantonio, in forma di hashtag o di bandiere da mettere sul profilo o di firme da apporre da qualche parte.
Seguendo i like e i cuoricini ho visto il formarsi di leggende destinate a divenire punti cardine di una qualche “teoria”. Ad alcuni erano arrivate soffiate dall’intelligence, da una delle tante intelligence al lavoro. Qualcuno iniziava a dire “ve l’avevo detto,” altri avevano trovato un testo che prevedeva tutto. Ho catturato il momento in cui una serie di persone o di gruppi o di entità, istituzionali o meno, hanno provato a riciclarsi, usando tutto questo pattume. E in cui categorie di persone, tradizionalmente dipinte come “pericolose,” sono diventate un po’ buone in quanto difensori dei “valori occidentali.” Ho visto ancora molto altro—sociologia della comunicazione, big data, tutto materiale per imbastire il prossimo storytelling o per avviare la prossima indagine di mercato.
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La mattina dopo è entrata finalmente in ruolo l’editorialistica e poiché la strage aveva un precedente relativamente vicino nel tempo e nello spazio—Charlie Hebdo—ho notato che gli editoriali somigliavano pericolosamente a quelli di gennaio, restituendo l’ennesimo segnale di inutilità e dannosità di tutta questa baracca.
Certo, i giornalisti più responsabili avevano iniziato a titolare “Cosa è successo a Parigi” e altri avevano tentato una lista delle bufale. Circolava anche qualche buona infografica. Si vedeva che dietro a queste cose c’era fatica, lavoro, ma eravamo ben lontani dallo stabilire cosa fosse successo davvero e il rumore certamente non stava aiutando i più accurati.
La politica però si era già mossa: bombardiamo.
Era in partenza, quindi, anche il treno delle prese di posizione: le convinzioni più profonde di ognuno—che in tutto questo agitarsi nessuno si era sognato di mettere in discussione—venivano a galla. Si aveva insomma la sensazione che tutto ciò che si doveva scrivere o vedere era stato scritto o visto. Ce n’era per ogni gusto, d’altronde: a due giorni dagli attentati di Parigi la voce di Wikipedia che li descrive era già presente in una quarantina di lingue, fra cui il latino (Impetus Lutetiae Novembri 2015) e l’esperanto (Atencoj de novembro 2015 en Parizo). C’è stato anche chi, forte dell’esperienza di Charlie Hebdo, ha avviato un progetto per spiegare ai bambini cos’è un attentato.
Sì, in questo caos sono emersi anche molti ragionamenti sensati. Due o tre di questi hanno ottenuto l’attenzione che meritavano. Più spesso un’attenzione molto superiore a quella che avrebbero meritato in un ecosistema meno inquinato. Non so se è un buon risultato.
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È il pomeriggio inoltrato del 16 novembre e mi avvio verso la biblioteca del Senato, dove è in programma un convegno di Limes che si intitola “Traffici e terrorismo. Come i traffici illegali contribuiscono a finanziare alcuni gruppi terroristici a livello globale.” La cosa, come dice Lucio Caracciolo che modera l’incontro, era stata organizzata da tempo ma capita in questo momento particolare ed è tanto più importante per questo motivo. E lo è, in effetti.
Escono fuori ragionamenti semplici ma chiari. Ad esempio il Presidente del Senato, Pietro Grasso, dice più o meno che il gruppo Stato Islamico è un’organizzazione criminale che trova nell’islam una “copertura ideologica.” Non dice il contrario, cioè ad esempio che il gruppo Stato Islamico è “un’organizzazione di ispirazione religiosa che trova nei traffici linfa vitale.”
Per me questo è un bel segnale. Una rivoluzione copernicana, quasi. Mi fa capire che c’è chi ha capito. È una visione che piega in maniera molto sintetica cosa sia in gioco in Medio Oriente oggi e che, se messa a fuoco e a frutto a tutti i livelli, sarebbe in grado di determinare politiche di contrasto efficaci. Tutti—il “grande pubblico”—dovrebbero esserne messi a parte, in queste ore.
Qualche speranza c’è, penso. A dire questa cosa è la seconda carica dello Stato e uno che di crimine organizzato se ne intende, non un troll pagato dai russi o un blogger malese che va di moda fra gli hipster di Seattle. Ma leggo le ANSA riguardanti l’intervento di Grasso al convegno e di queste sue specifiche affermazioni non trovo traccia. Fortunatamente si riporta la frase, importante, del procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi: “Le organizzazioni terroristiche fanno ampio uso di traffici illeciti e viene costruito un apparato ideologico per giustificare e rendere accettabili quelle attività.”
Mi chiedo quanti italiani abbiano saputo che questo convegno c’è stato, e quanti di questi abbiano la pur vaga idea di cosa si sia discusso. Non mi sembra poi che si siano dette cose così difficili da capire. Certo, l’ANSA forse non ne avrebbe parlato se il convegno si fosse tenuto il 12 novembre. Ma vista la montagna di spazzatura accumulatasi a partire dal 13 il risultato mediatico del lancio è pressoché lo stesso: da zero siamo arrivati a quasi zero. Non è moltissimo.
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