Per qualche ragione, negli ultimi dieci anni la percezione pubblica dello skaterboard sembra essere cambiata. Gli skater in TV non sono più disgustosi e offensivi, ma giovani uomini da ammirare che costruiscono skatepark. Eppure un tempo lo sport, o la cultura direttamente associata allo sport, era vista più come un vero pericolo.
Un paese in cui questo discorso è particolarmente vero era la Germania dell’Est degli anni Ottanta, prima della caduta del muro di Berlino. Lo skateboard era americano, quindi sovversivo e pericoloso, e la Stasi aveva cominciato a monitorare la comunità degli skater per tenere conto di ogni potenziale pericolo. Il pericolo percepito si era velocemente esteso ai media nazionali: un filmato del telegiornale dell’epoca istruiva il pubblico che è “nostro dovere proteggere i nostri bambini e giovani dallo skateboard.”
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Il regista tedesco Marten Persile ha ultimato un “documentario ibrido” sulla storia dello skateboard nella Repubblica Democratica Tedesca, This Ain’t California, uscito l’anno scorso in Germania e a breve anche in altri paesi europei. All’uscita il lungometraggio era stato criticato per il suo uso delle ricostruzioni e perché il personaggio principale non è mai esistito, ma come mi ha detto Marten, “tutte le cose che succedono nel film sono storie vere”; lui le ha semplicemente amalgamate per creare un personaggio su cui costruire una narrazione. E in un “documentario ibrido”, quello non sembra essere un problema molto rilevante.
Ho parlato con Marte del film, del contrabbando di skateboard e di band punk composte interamente da agenti dei servizi segreti.
VICE: Ciao Marten. Perché hai voluto raccontare questa storia?
Marten Persiel: Ho vissuto all’estero per molto tempo e mi sono distaccato dalla parte tedesca che c’è in me. Così ho pensato di realizzare qualcosa su tutti gli aspetti più strambi dei tedeschi—tipo la mancanza di stile e l’incapacità a ballare—e ovviamente più le persone sono della Germania dell’est, più strambe diventano. Lo skateboard è stato l’unico vero interesse della mia vita, quindi l’idea era di fare un film sui tedeschi e lo skateboard. Pensavo che fosse un’idea originale, ma dopo aver fatto delle ricerche mi sono reso conto che c’era davvero una scena di skater nella Germania dell’Est.
C’erano un po’ di controversie dopo l’uscita del film e l’uso delle ricostruzioni, per il modo in cui hai unito le storie di persone diverse dalla creazione di nuovi personaggi? Come rispondi a questo?
Penso che la controversia fosse concentrata soprattutto intorno al fatto che, se sei un regista—o se hai un film che non va ai festival—devi necessariamente posizionarlo o nella sezione documentari, o in quella per storie di fantasia. Sono praticamente le uniche due strade, e mi piace equipararlo ad un bagno pubblico in una stazione ferroviaria. Devi pisciare, e o vai al bagno delle donne o a quello degli uomini. Se sei un’ermafrodita sei bloccato. E non importa cosa fai, qualcuno si arrabbierà con te. Con il nostro progetto è andata più o meno così.
Foto di Harald Schmidt
Il tuo documentario è un’ermafrodita?
Praticamente sì. Perché è una storia vera raccontata con dei personaggi leggermente inventati. È più un documentario perché è una storia vera e ci sono interviste, foto e tutto il resto. Ma contiene anche aspetti di una storia inventata, perché anche se tutto ciò che succede è una storia vera, io lo assemblo usando strumenti di finzione, ricostruendo i personaggi e tutto il resto. Sul serio, il nostro problema era che i registi di documentari avevano l’impressione che la purezza della loro arte fosse sminuita dal nostro film.
La cosa che mi ha affascinato di più nel film era che l’opposizione allo skateboard da parte dello stato. Da dove arriva?
È una storia che va raccontata in tre parti. Prima era considerata una cosa americana, e quindi sovversiva e non desiderata. Poi era considerato un nuovo sport che, se doveva entrare nei giochi olimpici, avrebbe necessitato di esercizio. Poi si resero conto che gli skater sono molto difficili da organizzare e non collaborano, quindi sono tornati all’atteggiamento iniziale di non accettazione. C’è una parte nel film dove un presentatore del telegiornale diche che lo skateboard crea amoralità e individualismo egocentrico. E quello è veramente lo skateboard, no? È egoistico nel senso che fai esattamente ciò che vuoi.
E quello non andava a braccetto con la Repubblica Democratica Tedesca.
Esattamente. Non va d’accordo con nessun regime totalitario. Nessun regime totalitario appoggerà cose che promuovono l’individualismo.
Quindi hanno cercato di trasformare gli skater in una squadra olimpica? Restringerli con sponsor e orari di allenamenti e simili?
Sì e no. Quella era più una reazione al fatto che non potevano arrestare la loro fama. Era troppo tardi, quindi si sono dovuti inserire in questo mondo ed essere visti come i vincitori all’interno di questa nuova moda. Hanno fatto lo stesso con la musica; una delle band punk più popolari era composta solamente da agenti segreti.
Wow, ti ricordi come si chiamavano?
No, ma ricordo che gli facevano un sacco di pubblicità, e li sfruttavano per infiltrarsi e controllare la scena alternativa. Ci sono molte storie fighe su quelle robe che, ovviamente, ero tentato di inserire nella pellicola. Ma ho deciso di non farlo per rimanere sul filo della storia principale.
Figo, le puoi dire a me allora.
Una storia riguarda i Rammstein. Negli anni Novanta si presentavano secondo un’estetica neofascista e neonazista. Da giovane odiavo quell’immaginario perché ero anti-fascista e punk, quindi loro erano i miei nemici. Ma quando ho fatto delle ricerche, ho scoperto che nella Germania dell’Est erano una band punk senza tutto quel retaggio fascista. Imitavano i punk inglesi. Ma quando cade il muro, e quando passi dal socialismo e vuoi essere un ribelle, l’ultima cosa che vuoi è essere di sinistra. Quindi si sono completamente reinventati perché si sono resi conto che l’unico modo di far incazzare la gente era di vestirsi da neonazisti.
Quanto erano soggetti alla musica occidentale i ragazzi della Germania dell’Est a quei tempi?
Lo stesso di adesso, hai la Germania e hai Berlino, e sono veramente due universi distinti. Se vivevi all’Est o a Dresda o in campagna, eri tagliato fuori da tutta la musica pop occidentale. Mentre se vivevi in Berlino Est, come i ragazzi di cui parlo nel film, prendevi la televisione occidentale e potevi ricevere visite dai berlinesi dell’ovest. C’era una sorta di mercato nero, e le persone dell’ovest impacchettavano nastri e li nascondevano e li portavano a Est per venderli per un sacco di soldi. Tagliando corto: se eri a Berlino Est, riuscivi a procurarti la roba. Ma in qualsiasi altra parte ad est, te lo potevi scordare.
E la gente contrabbandava anche le tavole, giusto? Nel tuo film i due contrabbandieri sono Titus e John Haak.
Sì, Tito è il ragazzo dell’Ovest. È ancora vivo ed è praticamente il padrino dello skateboard tedesco nell’Ovest. E John Haak poteva spostarsi perché suo padre era finlandese e la Finlandia aveva un accordo diplomatico speciale con entrambe le parti. Quindi poteva andare avanti e indietro quando voleva. Per farlo metteva delle riviste porno sopra la borsa, così la polizia si interessava e prendeva le riviste, senza controllanre altro.
E questo succedeva anche dopo che la Germania dell’Est ha iniziato a produrre skateboard?
Sì, ma gli skateboard dell’Est erano terribili. Avevano il fermo alle rotelle davanti. Era un design brutto.
Pensi che avesse qualcosa a che fare col non volere prodotti americani in circolazione? C’è una parte del film che parla di come gli skater si disegnassero sui vestiti i nomi delle marche americane.
Sì. Nel film ho provato a ritrarlo come parte di una guerra a colori, come i simboli tribali dei nativi indiani.
Immagino che il fenomeno abbia colpito la Germania dell’Est un po’ più tardi.
Oh sì. Io vengo da quella generazione—sono cresciuto nella parte occidentale—e quando loro hanno iniziato a fare ollie e trick noi avevamo già raggiunto un buon livello.
Erano heel flip da una parte e handstand dall’altra?
Sì, possiamo metterla così. Erano due attitudini diverse, gli heel flip erano il nuovo stile di skateboarding, e gli handstand avevano molto più a che fare con lo skate freestyle degli anni Settanta.
Sì. Non voglio rivelare niente, ma il tuo film culmina con la polizia segreta che controlla i Campionati di Skateboard di tutta la Germania. Per documentari hai parlato anche con un ex agente dei servizi segreti, ti ha detto esattamente perché controllavano gli skater?
Sì, stavano cercando di raccogliere dati per il gusto di farlo. È come lo scandalo della NSA; se avessero veramente avuto un caso da risolvere e avessero già avuto tutti in archivio, sarebbe stato molto più facile. Era come il Mossad in Israele, un piccolo paese con un immenso servizio segreto. Raccoglievano dati, e quando identificavano i leader e i sottoposti, provavano a infiltrarsi nella scena. Non erano interessati ad arrestare persone della scena—erano più interessati a tener conto di tutto ciò che succedeva.
Per concludere, come sono cambiate le cose dopo la caduta del muro? Gli skater si sono integrati o si sono semplicemente spostati verso qualcosa di nuovo?
Alcuni di loro si sono integrati e hanno continuato a skatare, perché erano giovani, appena ventenni, quindi si sono semplicemente adottati. Ma molto di quello è andato perso. Molte persone hanno del tutto smesso di skatare a Est: era difficile e ti creavi un sacco di nemici. Aveva riempito le vite dei giovani con energia e stravaganza. Per molti, quando questo finì, anche l’eccitazione se ne andò.
Perché non c’era più niente a cui aggrapparsi.
Già. È molto più divertente se è illegale.
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