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Uno dei migliori stoccafissi d’Italia si mangia davanti la stazione di Ancona

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“Tutti fanno lo stoccafisso in Ancona, ma il mio è il migliore. Basta prestare attenzione ad ogni dettaglio e non lo fa quasi nessuno. Per prima cosa il pesce: dev’essere bagnato a regola d’arte e di primissima qualità”

Questa è una storia d’amore. Un amore nato tra un popolo affamatissimo, gli anconetani, e un cibo abbondantissimo, lo stoccafisso. L’amore e la fame. Un amore che si collettivizza tramandando e scambiando ricette tra le generazioni, tra mezzadri e pescatori, tra osti e mercanti. Non è cosa individuale questo amore, è fatto sociale.

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E, come ben sapete, è impossibile parlare d’amore senza un poeta che ne abbia cantato le passioni, senza un animo che sappia riconoscere e tramandare: ecco, questo è Umberto Polverini del ristorante Gino, scorbutico ottantaduenne di stirpe dorica; custode dello stoccafisso all’anconitana di sua nonna, o come lo chiamano qui, dello stoccafisso con le patate. Arrivo ad Ancona di tardo pomeriggio. Un temporale ha appena finito di sfogare e le ultime leggerissime gocce mi danno il benvenuto in città.

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Il ristorante di Umberto si trova esattamente nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria. Tutti i fronte-stazione italiani si assomigliano, e Ancona non fa differenza: bar traboccanti slot machine, kebabbari e alberghi a due stelle circondano il ristorante, un qualsiasi tra i diavoli. Eppure un’amica mi ha detto che qua si mangia il migliore stoccafisso d’Ancona. Vedremo.

Una lavagna su di un piedistallo ingombra l’ingresso, annunciando lo stoccafisso che sono venuto a provare. Passando sotto un’enorme insegna azzurra luminosa entro in punta di piedi. Il primo sforzo che si fa entrando nel locale è ricollocarsi nel tempo: sembra di tornare indietro di quasi trent’anni.

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Le coordinate temporali si sgretolano mentre vengo risucchiato dalle pareti in perlinato piene di cornici e da file di tavoli con tovaglie bianche e un pavimento con motivi a quadri. Enorme e alieno, sopra lo scaffale delle grappe, un monolite nero domina la sala: un grosso schermo piattissimo, unica quanto gigantesca crepa nel sortilegio temporale.

“Quanto stoccafisso cucini in una settimana?”. Umberto alza lo sguardo dal piatto e inizia a far di conto. Venti porzioni al giorno per sei giorni, trenta pesci circa a settimana, più di mille all’anno.

Un cameriere mi si fa incontro indicando un tavolo e dice di accomodarmi. Gli spiego che avevo telefonato il giorno prima, che desideravo parlare con il signor Umberto e fargli qualche domanda sul suo stoccafisso. Mi indica un signore anziano seduto al primo tavolo, “Eccolo là”, e ridacchiando torna ai suoi affari. Umberto è davanti alla televisione, e proprio in quel momento un piatto fumante di spaghetti lo raggiunge dalla cucina.

Gino Ancona
Io con Umberto al tavolo durante l’intervista

Capelli bianchi, una polo giallissima e due lenti rettangolari a coprire uno sguardo di ferro circondato da occhiaie profonde. Avanzo. Il volto arcigno mi punta appena muovo passo nella sua direzione; Umberto sta girando la prima forchettata di spaghetti e con sospetto mi squadra da testa a piedi. Mi paro davanti a lui mentre sta masticando questo primo boccone di pasta; allungo la mano e mi presento. Umberto mi fissa un istante, posa la forchetta e, svogliatamente, mi allunga una mano anche lui. Lo sguardo è inconfondibile, pare dire: “Ecco, il rompicoglioni è arrivato”.

Gino
Umberto

A questo punto va fatto un chiarimento sul temperamento anconetano. Gente ruvida e salata, sguardi torvi e apparente disinteresse le loro armi, è possibile che ad un primo contatto non ispirino grande simpatia; per essere presi in amicizia, o quantomeno in considerazione, bisogna saper incassare un paio di questi ganci, solo così mostreranno la loro tipica gentilezza. Sono gente di mare e sanno trattare il forestiero, ma la loro ospitalità non è quella da località turistica, apparente. Il loro essere uomini di mare passa per il grande porto con le sue lunghe banchine: arrivi e partenze, uomini scomparsi in mare, voci greche e albanesi mischiate al dialetto. Conoscono bene la confidenza, solo gli danno il giusto valore.

Umberto mi fa cenno di accomodarmi e io mi siedo davanti a lui. Maldestramente inizio a chiedergli qualcosa sul suo stocco. Non faccio in tempo a finire la prima domanda che, senza dire una parola, si alza e scompare in cucina. Torna in sala dopo pochi interminabili attimi con un libricino dal titolo “Stoccafissando. Storia d’amore anconitana” e sempre senza fornirmi alcuna spiegazione inizia silente a sfogliare questo volumetto davanti a me che lo fisso. Mi passa il libretto aperto a pagina 99. Venti righe parlano del suo ristorante e sempre con un tono che oscilla tra il distaccato e l’infastidito mi fa: “Tieni pure il libro. Li c’è scritto tutto.” Cerco di nascondere un sorriso. In pratica mi sta dicendo: “Cerca le tue risposte qui e lasciami mangiare in pace i miei spaghetti con i moscioli (le cozze in anconetano n.d.r.)”. Ecco i ganci di cui parlavo.

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Ciavattoni con stoccafisso

Stordito cerco di ricompormi e provo un secondo assalto, questa volta più pragmatico: “Quanto stoccafisso cucini in una settimana?” Umberto alza lo sguardo dal piatto e inizia a far di conto. Venti porzioni al giorno per sei giorni, trenta pesci circa a settimana, più di mille all’anno. Abbatto il muro, l’oste inizia a parlare senza che io gli debba chiedere altro: “Tutti fanno lo stoccafisso in Ancona, ma il mio è il migliore. Basta prestare attenzione ad ogni dettaglio e non lo fa quasi nessuno. Per prima cosa il pesce: dev’essere bagnato a regola d’arte e di primissima qualità, io lo prendo da Gioacchini, stoccafissari anconetani da più di un secolo. Non so quanti carichi siano passati tra le loro mani, è un arte e un mestiere tanto quanto cucinarlo: basta pochissimo per comprometterne la qualità, non ci si improvvisa bagnatori.

La qualità che scelgo si chiama Western Ancona, ce l’hanno dedicata i norvegesi: è la migliore, sia per pezzatura che per sapore. La ricetta per il resto è molto semplice: tanto olio buono, il vino solo verdicchio, e gli odori, sedano, carota e cipolla; rosmarino, pepe e peperoncino vanno messi con parsimonia, è il sapore dello stoccafisso che deve dominare, è lui il protagonista. Si cuoce per almeno due ore; alla fine si aggiungono le patate, tante patate, fino a riempire il tegame.

Gli chiedo da dove provenga questa ricetta e sottovoce Umberto mi risponde: “La ricetta è di mia nonna paterna, Benilde. Lei l’insegnò così alla nuora, mia madre Pierina, che insieme a mio padre aprì una trattoria. È li che sono cresciuto e da lei ho imparato a cucinarlo. Io poi l’ho insegnato a mia figlia ed ora lei, insieme a suo marito, ha aperto un locale in centro, Stockfish.” Chissà prima di Benilde chi c’era? Un lignaggio davvero esemplare!

“Ogni contatto si trasforma in un bacio dato a se stessi: incredibile. Continuo alternando ogni forchettata ad un morso di pane imbevuto nel sugo, è solo questione di attimi e il piatto è di nuovo pulito”

Umberto sembra più tranquillo e con fare più gentile, ma sempre distaccato, mi fa: “Vói magnà o continuamo a discore?”. Rido e rispondo di si. Il cameriere mi porta subito un menu, ordino ciavattoni con stoccafisso (formato di pasta marchigiano simile ai paccheri) e stoccafisso all’anconitana. Umberto mi spiega che la pasta sarà condita con lo stesso stoccafisso che mangerò per secondo, “questo era il classico modo di gestire l’avanzo del tegame nelle case degli anconetani i giorni successivi,” racconta. E così, pronunciando un leggero “Buon appetito”, Umberto si alza e claudicante raggiunge il suo trono dietro la “cassa”. Rimango solo, unici miei compagni: un grande appetito; il cestino del pane, demone tentatore; la puntata di CSI che lo schermo sopra la mia testa offre alle venti e trenta. Intorno i tavoli iniziano a riempirsi e due anziani signori entrano, salutano e ordinano due porzioni di stoccafisso da asporto. Un piatto simile arriva in un tavolo vicino. L’attesa diventa tortura.

Dopo qualche minuto un cameriere viene verso di me portando un piatto fumante e rapido me lo posa davanti: ecco i ciavattoni. Che meraviglia: una ricca porzione di pasta con sopra, intorno e dentro, una generosa quantità di pesce. Impugno la forchetta, comincio. Buonissimi, sono unti al punto giusto e leggermente piccanti, ad ogni boccone piccoli pezzetti di patata si sfarinano nella bocca trasformando la salsa in velluto. Li mangio vorace e, aiutandomi con del pane, lustro il piatto alla perfezione. Aspetto la seconda portata.

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Il celebre stoccafisso
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Questa arriva felpata mentre trasognato penso ancora ai ciavattoni e, cogliendomi di sorpresa, mi viene messa davanti. La porzione è affettuosa, un colle di patate occupa il centro del piatto (sempre caro mi sarà!); dalla sua base, unto e rosato, l’intingolo forma un laghetto; sopra, monumentali, due grossi tocchi di stoccafisso.

“Gli dico che era tutto buonissimo, lui rapido risponde: “Lo so!”, e così, scambiandoci il primo, unico e verissimo sorriso di tutta la serata, ci salutiamo stringendoci la mano”

Il sapore è lo stesso dei ciavattoni, ma ora l’assenza dell’amido della pasta mostra distintamente una caratteristica fondamentale di questa ricetta: la sua delicata collosità. Ogni volta che le labbra si sfiorano, durante la masticazione, sembra quasi che non si vogliano più separare. Ogni contatto si trasforma in un bacio dato a se stessi: incredibile. Continuo alternando ogni forchettata a un morso di pane imbevuto nel sugo, è solo questione di attimi e il piatto è di nuovo pulito. Finisco il mio mezzo di verdicchio, ordino un caffè corretto al Varnelli(liquore all’anice marchigiano), lo bevo e mi alzo.

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Mentre raggiungo la cassa un altro cliente mi precede. Non parla italiano, e Umberto mi stupisce ancora: ha ottantadue anni e chiude il conto parlando inglese, “It’s twenty-three euros”. Pago quanto devo e ringraziandolo gli dico che era tutto buonissimo, lui rapido risponde: “Lo so!” e così, scambiandoci il primo, unico e verissimo sorriso di tutta la serata, ci salutiamo stringendoci la mano. Esco dal ristorante. Guardo la stazione e torno nel 2019. Mi accendo una sigaretta. Di fianco a me due uomini fumano, parlano ad alta voce con forte accento veneto. Penso ai loro bacalà alla vicentina e ai loro bacalà mantecati, stoccafissi anche questi, nonostante li chiamino bacalà. Fu un veneto il casuale scopritore di questo cibo, Pietro Querini, naufrago patrizio salvato dai pescatori delle isole Lofoten in Norvegia nel 1431 e tornato in patria con il primo carico di questo pesce.

Migliaia di chilometri a separare gli italiani e lo stoccafisso, secolo dopo secolo, fino ad oggi. Quando un pesce che non ha neppure mai nuotato nelle acque del Mediterraneo è diventato la bandiera delle tavole anconetane.

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