L’origine dell’aperitivo si fa risalire a secoli, anzi millenni, fa, all’epoca dell’Impero Romano, quando prima dei banchetti si faceva una gustatio con vino e stuzzichini. C’è invece chi scomoda Ippocrate
Se c’è una cosa che noi italiani siamo bravi a fare è arrogarci la nascita di qualsivoglia piatto e prodotto, ricamarci intorno una storia lunga e gloriosa, e renderlo un vanto nazionale (con un afflato nazionalista). Ma anche per i più scettici di noi è chiaro che l’aperitivo sia una faccenda eminentemente italiana — come bevanda e come rito. Che in questo caso nascono più o meno nello stesso posto e nella stessa epoca.
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L’etimologia della parola è aperitivus, ciò che apre, che dà subito l’idea di qualcosa che stimola, e non che soddisfa, l’appetito. Come quasi tutte le tradizioni nostrane — a tale proposito vi consiglio di leggere Denominazione di Origine Inventata — l’origine dell’aperitivo si fa risalire a secoli, anzi millenni, fa, all’epoca dell’Impero Romano, quando prima dei banchetti si faceva una gustatio con vino e stuzzichini. C’è invece chi scomoda Ippocrate con il suo vinum hippocraticum, vino bianco dolce in cui venivano macerati fiori di dittamo, assenzio e ruta, per stimolare la digestione, oppure i vini aromatizzati del Medioevo.
La storia dell’aperitivo
“La nascita di un concetto di aperitivo la faccio coincidere con la merenda sinoira, letteralmente ‘la merenda che fa cena’, un’abitudine piemontese della domenica”
Ma per parlare di aperitivo quale lo conosciamo, dobbiamo guardare molto più avanti. La nascita dell’aperitivo inteso come rito avviene a Torino nell’Ottocento. Era il periodo di massima fama dei café-chantant: la gente ci passava tutto il pomeriggio e finiva per cenare lì. Fulvio Piccinino, uno dei massimi esperti di mixology del nostro paese, sostiene che l’origine dell’aperitivo sia in Piemonte per un motivo preciso. “Io la nascita di un concetto di aperitivo la faccio coincidere con la merenda sinoira, letteralmente ‘la merenda che fa cena’,” racconta Piccinino. “Era un’abitudine soprattutto domenicale. Ricordo i miei zii: smettevano di lavorare in vigna verso le sei e mezza-sette, tornavano a casa presto e consumavano cibi freschi e leggeri, come il tonno di coniglio, una fetta di salame, un pezzo di formaggio, insieme a vini ‘facili’ come un moscatino. In alcuni ristoranti c’è ancora questa tradizione di iniziare la cena con venti-venticinque antipasti… e poi nient’altro.”
Il consolidarsi dell’aperitivo come momento va di pari passo con l’aperitivo come bevanda. Il vermouth venne inventato da Antonio Benedetto Carpano nel 1786 aggiungendo erbe e spezie al vino bianco. Qualche anno dopo, nel 1815, il farmacista Ausano Ramazzotti iniziò a studiare una bevanda simile, un amaro con erbe macerate, a Milano. Nel 1862 in città arrivò il signor Gaspare Campari con la ricetta di una bevanda, che aveva creato a Novara, sempre a base di amari ed erbe aromatiche. E nel 1864 a Torino nacque la prima bottiglia del vermouth Martini.
Marco Budano, brand homes general manager di Martini, racconta che: “Possiamo dire che Martini & Rossi porta l’aperitivo italiano nel mondo dal 1863, combinando le persone e l’esperienza necessarie per creare un marchio di fama mondiale, che ha mantenuto il vermouth al centro della cultura attraverso i decenni. Io ho la fortuna di seguire due location d’eccellenza, uniche nel loro genere, che richiamano il parallelismo Torino-Milano ma unite dal rito dell’aperitivo e non solo: Casa Martini a Pessione e Terrazza Martini a Milano.”
L’aperitivo inventato
Ma il drink che più di ogni altra ha legato a sé l’immagine dell’aperitivo è l’Aperol Spritz. Quando la ricetta del “bitter più leggero e meno bitter che ci sia” venne scritta, negli anni Cinquanta, il marketing puntava tutto sulle donne proprio per la sua “leggerezza”. Ma sono gli anni 2000 che lo consacrano a simbolo dell’aperitivo senza impegno: Campari acquista il brand Barbero 1891 S.p.A, proprietaria di Aperol. Da quel momento la bottiglia arancione —adesso simbolo dello spritz, prima in Italia e poi nel mondo—, diventa oggetto di una massiccia campagna (eventi, marketing e posizionamento in locale e GDO), che porta all’assunto “inventato” che l’aperitivo per eccellenza non sia tanto lo Spritz, ma l’Aperol Spritz.
A Torino si consolidò l’abitudine di consumare, insieme agli alcolici, piccoli stuzzichini — soprattutto le donne, perché per loro non era appropriato bere a stomaco vuoto.
Il termine happy hour, che viene invece dagli Stati Uniti e dai paesi anglosassoni, è diventata una pratica di promozione dei pub (ora in disuso): consumazioni a prezzo ridotto per un orario, di solito compreso tra le 18 e le 20, puntando alle persone nel tragitto lavoro-casa. Ma è stata l’Italia —senza l’utilizzo di sconti— a rendere l’aperitivo un momento della giornata ben preciso, in cui ci si rilassa, si beve un cocktail o un bicchiere di vino e si spizzica qualcosa aspettando la cena che solitamente, nel nostro paese, non arriva prima delle 20 o delle 21.
Perché si mangia durante l’aperitivo
A Torino si consolidò l’abitudine di consumare, insieme agli alcolici, piccoli stuzzichini sempre pensando alle donne — perché per loro non era appropriato bere a stomaco vuoto. A Torino si beveva appunto vermut, molto vermut: a fine Ottocento Edmondo De Amicis scrisse che a Torino c’era una vera e proprio ora del vermut. Un’origine altolocata che secondo Piccinino divenne più nazional-popolare verso gli anni Settanta: “Ricordo quando ero piccolo. Il sabato quando si giocava la schedina al bar si faceva un aperitivo semplice, tipo un Aperol e le uova sale e pepe, qualche patatina, arachidi, olive conciate.”
Ogni città ha dato il suo contributo. “A mio avviso è più corretto parlare di aperitivo come momento: il termine è diventato un sinonimo di convivialità, di trascorrere del tempo insieme. Un vero e proprio rito sociale,” racconta Nicola Piazza, Martini Brand Home Ambassador. Aggiunge Budano: “È vero che il vermouth e l’aperitivo nascono a Torino ma fin da subito Milano è coprotagonista di questa storia italiana.”
L’aperitivo dagli anni 90 ad oggi
Tra gli anni Settanta e Ottanta l’aperitivo abbraccia le fasce più giovani e diventa nazional-popolare
Negli anni Novanta fu un tale Vinicio Valdo ad accoppiare il bere con il mangiare e la capitale dell’happy hour diventò ufficialmente Milano. L’apericena, o comunque l’idea di doversi abbuffare mentre si beve, in piedi davanti a tavoli colmi di vassoi a loro volta stracolmi di cibo, è qualcosa di cui saremmo tutti felici di sbarazzarci definitivamente, ma ha avuto indubbiamente il suo peso storico. Sempre da Milano viene un altro cocktail che ha contribuito a rendere l’aperitivo un rito, il Negroni Sbagliato, creato nel 1972 al Bar Basso per un errore di miscelazione.
Valeria Bassetti del collettivo di bartender donna ShakHer ci dà il suo punto di vista su quando l’aperitivo è diventato qualcosa di dominio pubblico: “Per me nasce con il desiderio e la possibilità di staccare il tempo dedicato al lavoro dal tempo libero. L’aperitivo è una piccola vacanza che ci prendiamo ogni giorno. Tutta la fuffa emozionale e dell’atmosfera intorno all’aperitivo, è proprio quella l’aperitivo. Tra gli anni Settanta e Ottanta l’aperitivo abbraccia le fasce più giovani e diventa nazional-popolare. Per noi bartender la giornata vera comincia a quell’ora: è come un orologio temporale allo specchio, la nostra giornata lavorativa comincia quando quella degli altri finisce. A meno che tu non sia veneto ecco [ride, Ndr].”
“La nuova sfida per i bartender è che la Generazione Z punta sempre di più a non bere e quindi bisogna creare aperitivi analcolici”
Ma qual è oggi la città dell’aperitivo? “Roma si è milanesizzata e Milano si è romanizzata. Qui si fanno sempre più spesso aperitivi di lavoro. Ora a Roma c’è la new wave degli hotel — anche se mezza Europa ci ride dietro perché siamo arrivati in ritardo — e Milano sta scoprendo il dolce far niente. Dichiaro la morte dell’aperitivo a buffet, mostra dalle cento testa e dalle mille mani zozze: si va sempre di più verso un aperitivo in cui sono io bartender ad abbinarti il cibo, o comunque ti do una granaglia tutta tua. E procediamo anche verso una personalizzazione del servizio. Per noi italiani è tabù bere senza mangiare e la ritengo un’abitudine sana: il liquid lunch degli inglesi produce parecchi danni all’organismo.
Per me aperitivo è Spritz Cynar punto. In abbinamento, se possibile, ad anacardi tostati o mandorle salate. Ognuno ha i suoi gusti e le sue preferenze perciò “si fa prima a dire cosa non è aperitivo,” dice Bassetti. “Regole auree per noi della mixology: no estrema dolcezza, no bolla rozza, no super fruttato. Si deve bere qualcosa di amaro, una bolla non grossolana, insomma non bisogna satollare completamente i sensi, anzi, bisogna risvegliarli e non assopirli.” E da mangiare? “In francese si chiede cosa vuoi da grignoter, da sgranocchiare, una parola onomatopeica che evoca qualcosa di croccante che dia piacere. Davanti a noccioline patatine olivette e nocciole ci trasformiamo tutti in marmottine. Se mi tolgo la fame mi do la zappa sui piedi.” La nuova sfida per i bartender, dice, è che la Generazione Z punta sempre di più a non bere e quindi bisogna creare aperitivi analcolici: “Resteremo solo noi a bere per loro. Ma va bene così.”
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