La grande storia dimenticata del tatuaggio in Italia

Il 29 marzo al Museo medievale di Bologna si è aperta la mostra STIGMĂTA – La tradizione del tatuaggio in Italia, e io per l’occasione ho contattato curatrice e organizzatrice per farmi spiegare meglio di cosa si parla quando si parla di tatuaggio in Italia, al di là di tutti i luoghi comuni su appropriazione irriflessa di culture altre e del mito dei tatuaggi nati per stare addosso a “puttane, criminali e marinai”.

Ho quindi raggiunto al Museo del tatuaggio Fercioni di Milano Luisa Gnecchi—curatrice e autrice non tatuata del libro Tattoo: tecniche strumenti artistie Jurate Piacenti, fondatrici dell’associazione Stigmăta e responsabili dell’esposizione. Ho scoperto che prima di essere quello che è oggi, il tatuaggio in Italia è stato diffuso ovunque, rappresentando soprattutto una tradizione degli artigiani, un simbolo religioso e un codice criminale. E purtroppo ho anche scoperto che non solo queste tradizioni sono andate perdute, ma che la loro memoria è messa alla prova dal fatto che i musei, che pure possiedono materiale sulla storia del tatuaggio, per pruderie lo tengono segregato in archivio.

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VICE: Il sottotitolo della mostra è “La tradizione del tatuaggio in Italia”, dunque volevo partire proprio da qui, dalla necessità di analizzare un fenomeno che molto spesso viene tacciato di essere “d’importazione”. Come vi è venuta l’idea?
Luisa Gnecchi: Sono vent’anni che tentiamo di uscire dalle piccole esposizioni nelle tattoo convention e fare una mostra antropologica per tutti. Noi siamo esterofili e sempre pronti a idolatrare gli altri, ma dimentichiamo che abbiamo una tradizione molto importante di cui nessuno sa niente, a partire dai tatuati e dai tatuatori.

Un tradizione che va molto indietro nel tempo, se anche la prima mummia ritrovata in Italia, Ötzi, che risale a 3000 anni avanti Cristo, porta sul corpo 61 tatuaggi. A cosa servivano allora i tatuaggi?
L.G.: Quelli di Ötzi sono considerati tatuaggi terapeutici, perché sono sulla spina dorsale e sulle giunture delle caviglie—si pensa servissero per per i dolori reumatici, tant’è vero che quelli sulla spina dorsale sono negli stessi punti usati oggi nell’agopuntura. Nel corso della storia—fino a tutto l’Ottocento—il tatuaggio ha avuto varie funzioni, oltre a quella magica-curativa e quella estetica, che è sempre esistita.
Jurate Piacenti: Pensa al protagonista del Gladiatore che aveva SPQR tatuato. A un certo punto nell’Antica Roma si faceva perché se diventavi irriconoscibile e morivi in battaglia, sapevano a che esercito appartenevi.
L.G.: [A questi nel corso della storia d’Europa si aggiungono in generale] il tatuaggio punitivo o marchio d’infamia—come il famoso giglio di Francia delle prostitute e delle ladre—che è perdurato fino alla fine del Settecento, all’abolizione della schiavitù e delle pene corporali. Poi ci sono le ragioni religiose, i tatuaggi in omaggio alla divinità. E per l’amore.

Uno dei temi della vostra esposizione è proprio il tatuaggio religioso, e infatti immagino che in Italia, per cultura, abbia sempre rivestito un ruolo importante… Anche se questo contrasta un po’ con l’idea del tatuaggio che abbiamo ora.
L.G.: Be’, in realtà nella Bibbia il tatuaggio non ha una funzione negativa: Dio cacciò Caino e gli pose un tao in fronte, perché venisse riconosciuto e non ucciso. Caino poi divenne il primo degli artigiani e da allora… Non si sa bene da quando, ovviamente, ma diciamo che di sicuro nel 1500 in tutta Europa e in Italia in particolare gli artigiani si tatuavano i simboli del proprio mestiere, e infatti il tatuaggio si chiamava anche segno di Caino. Da noi nello specifico si sono sempre tatuati i pellegrini, come prova dell’avvenuto pellegrinaggio, come sacrificio a dio.
J.P.: E ai tempi delle crociate chi non aveva simboli religiosi addosso non poteva essere sepolto in terra consacrata—le cose d’oro o preziose potevano essere rubate, da qui l’esigenza dei tatuaggi.

Disegni tratti dagli stampini di legno per il tatuaggio dei pellegrini, dal libro La Scrittura del Corpo di Luisa Gnecchi Fercioni, Mursia, 1994. Tutte le immagini per gentile concessione delle intervistate.

Ecco, soffermiamoci un attimo sui tatuaggi religiosi. Loreto era un centro molto importante per questa tradizione, in quanto anche luogo di pellegrinaggio di massa.
L.G.: Sì, i centri maggiori per i tatuaggi religiosi cristiani erano Gerusalemme e Loreto. Quelli che ti tatuavano si chiamavano marcatori, erano degli ambulanti che segnalavano la propria presenza sbattendo gli stampi che tenevano inanellati per attirare i clienti. I vari ordini si tatuavano i loro simboli, poi andavano per la maggiore il sacro cuore in tutte le sue varianti, i crocifissi e i simboli della passione di Gesù, il gallo, INRI, le madonne infilzate, l’arco simbolo di Loreto. Questo è andato avanti fino al secolo scorso.

Il motivo per cui non è facile trovare informazioni su questi argomenti è che tra fine Ottocento e inizio Novecento si è creato un distacco netto con il passato, e da allora in poi quando si fa riferimento al tatuaggio tradizionale si parla di culture esotiche. E ci si dimentica che prima dell’importazione del tatuaggio esotico, i tatuaggi, dal religioso in avanti, erano tutti tribali.

Quindi possiamo dire che dopo essere stato autoctono per molto tempo, il tatuaggio “moderno” come “prodotto di importazione” ha cominciato a essere diffuso in Europa con le scoperte geografiche?
L.G.: Sì, Capitan Cook ha portato dalle Isole Marchesi il primo indigeno completamente tatuato, e l’ha presentato alla corte inglese come un regnante straniero. A corte sono impazziti, e così gli esploratori ne hanno portati altri, da esporre nei circhi. I re allora hanno cominciato a tatuarsi come simbolo di potere: i primi sono stati gli aristocratici inglesi, poi gli olandesi, e a ruota tutti gli altri. Lo zar Nicola II era tatuato, Giorgio V era tatuato, etc. E anche abbondantemente: Federico IX di Danimarca aveva un drago su tutta la schiena. Elena di Savoia aveva una farfalla sul polpaccio, e la sua dinastia continua l’opera.

Poi c’è stata una serie bellissima di falsi, cioè disertori che rimanevano sulle isole fino a quando non si stufavano, si facevano tatuare e tornavano in Europa raccontando tutti la stessa storia: che erano stati rapiti, costretti a sposare la figlia del capo, tatuati forzatamente ed erano scappati. Questa è stata la fase intermedia, poi tanto nei porti che appunto nei circhi hanno cominciato a tatuarsi anche gli europei. Cook ha inventato anche la parola tattoo, dal tac tac onomatopeico del rumore del martelletto che aiuta l’ago a bucare la pelle.

Disegni tratti dagli stampini di legno, dal libro La Scrittura del Corpo di Luisa Gnecchi Fercioni, Mursia, 1994.

Ma poi cosa è successo? Come mai in Europa il tatuaggio ha cominciato a essere visto come un simbolo di marginalità sociale?
L.G.: È colpa di una concatenazione di fattori. In parte sono stati i testi di Lombroso, che sostenevano che la predisposizione al tatuaggio fosse la dimostrazione di un inselvatichimento dell’uomo che portava a criminalità e violenza. In parte è stata la Prima guerra mondiale: molti che erano andati al fronte sono tornati e la moglie di cui avevano il nome tatuato stava con un altro, e ci sono state talmente tante menomazioni che i difetti fisici sono stati banditi e hanno cominciato a simboleggiare crimine e marginalità.
J.P.: Per quanto riguarda l’Italia, però, ha influito molto anche la religione, che se ha avuto dei momenti di accettazione del tatuaggio ha anche avuto dei momenti in cui remava pesantemente contro—considera solo che ovunque i missionari cristiani sono arrivati, hanno messo fuori legge il tatuaggio come qualcosa di selvaggio.

Però oggi il tatuaggio, pur con ancora addosso lo stigma del “brutto”, inaccettabile socialmente, è tornato. Dopo la frattura con la tradizione della prima guerra mondiale, cosa è successo?
L.G.: Be’, è tornato ma non aveva nulla a che fare con la sua tradizione. Rinasce in Italia sull’ondata degli anni degli hippy in America, ma molto, molto lentamente. Intorno agli anni Settanta l’unica tradizione rimasta in Italia era quella dei marinai, e in tutta Italia al di fuori dei porti c’erano cinque tatuatori, che ti tatuavano nel retrobottega.
J.P.: Ancora negli anni Ottanta dovevi avere una motivazione forte per fare un tatuaggio, qualcosa di tuo che volevi comunicare all’esterno. Oggi invece si fanno un sacco di tatuaggi perfetti ma senz’anima, al meglio, che al peggio possono denunciare l’ignoranza di tatuatore e tatuato—e in Italia la situazione è davvero peggiore che in tutto il resto del mondo.

Per esempio?
J.P.: Per esempio le rondinelle: quelle che si vedono adesso sono bellissime, tecnicamente, ma in realtà la rondinella non è un bel simbolo, sono carnivore, predatrici. Inoltre bisogna distinguere rondine maschio e femmina, due rondini maschi tatuate in teoria significano che sei omosessuale. Il tatuaggio è un linguaggio, non bisogna dimenticarlo.
L.G.: Così come il neo sopra il labbro, quello che poi è diventato noto come “beauty mark”. Lo sappiamo attraverso Lombroso, ai suoi tempi a Torino c’erano i bordelli, e per differenziarsi dalle prostitute di strada le prostitute di bordello si facevano un neo, quelle etero sopra il labbro e quelle lesbiche sotto. Quindi le bambine con il neo disegnato a Carnevale mi inquietano un po’.

Tavola lombrosiana.

Rimanendo su Lombroso, nella mostra sono esposte molte tavole di carcerati con la raffigurazione dei loro tatuaggi. Lombroso è riuscito a decodificare le loro simbologie?
J.P.: Considera che Lombroso era un medico e non sempre i carcerati avevano voglia di raccontargli cosa volevano dire davvero i loro tatuaggi. Tantomeno quando erano tatuaggi per iniziati—e questo vale per tutte le organizzazioni, anche la massoneria, la camorra etc.
L.G.: Esistono due tipi di tatuaggi criminali, quelli segreti e quelli pubblici. Quelli segreti o sono in posizione segreta del corpo, o hanno un significato che conoscono solo gli affiliati. Poi ci sono i tatuaggi che magari ti fai in carcere ma hanno i significati del mondo normale: la mamma morta, l’amore, etc. La cosa interessante è che alcuni dei simboli segreti ritratti da Lombroso sono ancora oggi simboli che si tatuano gli affiliati alla camorra.

A proposito di tatuaggi criminali, l’apertura della mostra sarà tenuta da Danilo Rossi Lajolo di Cossano e Nicolai Lilin, che a suo tempo è stato aspramente criticato da una parte per aver “romanzato”, ma anche per aver svelato alcuni codici della criminalità russa. I tatuaggi criminali russi sono simili a quelli della camorra?
L.G.: Sembra che il tatuaggio criminale russo così come è oggi arrivi da quello della camorra italiana, che gli affiliati se lo siano scambiati durante la guerra di Crimea. E in effetti le simbologie sono molto simili, per esempio il gatto. Nel tatuaggio russo il gatto indica il furto, a seconda di che cappello ha, il farfallino, indica a che età uno ha cominciato a delinquere oppure che cosa ruba. La cosa curiosa è che anche nella cultura tribale birmana i ladri si tatuano il gatto convinti di acquisire la capacità del gatto di muoversi felpatamente e vedere di notte.

In fin dei conti, se è una cosa che ha una poligenesi geografica, chiamiamola così, la domanda è: perché l’uomo ha cominciato a tatuarsi, e perché continua a farlo?
L.G.: Alcuni antropologi sostengono che il tatuaggio sia uno dei gesti con cui l’uomo si è differenziato dalla scimmia, un gesto di consapevolezza di sé. Alcuni sostengono che il graffito non sia che la trasposizione sulla roccia del segno fatto sul corpo, mentre per altri è viceversa. Sono stati ritrovati strumenti paleolitici che gli archeologi sostengono con buona certezza essere per i tatuaggi. Ed è proprio un gesto che hanno fatto in tutti i continenti fino da tempi antichissimi senza copiarsi uno dall’altro, il tatuarsi è un comportamento quasi istintivo che appartiene al mondo molto selvaggio dell’uomo, anche perché c’è sangue etc.

Ma esiste ancora qualcuno che porti avanti una tradizione di tatuaggio tribale in Italia?
J.P.: No.
L.G.: Forse la camorra.

La mostra STIGMĂTA – La tradizione del tatuaggio in Italia è stata realizzata in collaborazione con la Tattoo Expo di Bologna e sarà aperta dal 29 marzo al 30 aprile 2017.

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