Música

Storie dell’orrore dai tour delle band italiane, parte seconda

Tutte le illustrazioni sono di Roberta Scomparsa.

Quando, l’estate passata, abbiamo pubblicato un articolo che raccoglieva alcuni aneddoti di situazioni estreme vissute da musicisti italiani in tour, siamo stati sommersi dalle richieste di farne un seguito. Non poteva andare altrimenti: la comunità musicale è simile a quella degli Alcolisti Anonimi, tutti vogliono raccontare la propria storia, e quanto più tragica, violenta e schifosa viene fuori, meglio è; perché se ciò che non ti uccide ti rende più forte allora alcuni sono proprio fortissimi.

Così abbiamo ceduto, anche perché è davvero un peccato lasciare certe storie confinate allo sgabello di un bar. E poi contengono importanti lezioni di vita: come affrontare un neonazista arrabbiato dentro al suo stesso locale? Come ci si comporta se il proprio concerto viene interrotto dalla polizia paramilitare di un paese ex-sovietico? Si può rispondere a un attacco omofobico a colpi di pene? Ma soprattutto, quanto sono permalose le signore anziane ungheresi? Tutti questi interrogativi troveranno risposta nelle seguenti storie dell’orrore, parte seconda.

Soltanto un altro concerto a Minsk

Minsk, Bielorussia. 11 gennaio, grande evento punk a Minsk. Suoneranno i Kalashnikov dall’Italia, cioè noi, e per l’occasione la locale comunità punk affitta la discoteca più in della città. Nella Bielorussia di Lukashenko (una dittatura nel bel mezzo dell’Europa), il punk però è più o meno vietato perché è considerato la musica dei “fascisti anarchici” (?). Quindi nel bel mezzo del concerto fa irruzione un plotone di OMON, la polizia speciale anti-terrorismo, un corpo paramilitare il cui motto è: “Noi non conosciamo pietà e non ne chiediamo”. Energumeni con passamontagna, mimetica e mitra spianato. 

Seguono due ore di terrore con perquisizione e interrogatorio, braccia alzate e faccia al muro. Due arresti tra i ragazzi presenti al concerto per “detenzione di materiale anarchico”. Quando se ne vanno, il proprietario del locale non vede l’ora di buttarci tutti fuori. Il concerto si sposta quindi in un garage nei sobborghi della città: è l’inizio di gennaio, nevica fortissimo, fa un freddo assurdo, il garage esplode di gente… il concerto più bello che abbiamo fatto! 
STIOPA, KALASHNIKOV COLLECTIVE / CERIMONIA SECRETA

Videos by VICE

Einstein non è morto, è solo ubriaco

Eravamo in tour in Ungheria, mi pare fosse il 2008, ma il problema è che non mi ricordo mai un cazzo perché in tour sono perennemente sbronzo. Il motivo è ovvio: quando ti metti on the road per un mese, dopo il quarto giorno ti tramuti in una specie di bestia, senza casa, senza orari, senza una minima concezione del tempo. Diventi la strada, la tua casa è la tua pelle e il tuo tetto son le stelle come recitava Baglioni: in qualche modo ti devi pure tirare su e cercare di stare sul pezzo. 

Ero in tour con gli Hiroshima Rocks Around e coi Maximillian I, due gruppi che quando si mettono sulle rotaie del rock diventano veramente impegnativi. Uno peggio dell’altro. Potrei scrivere un libro sulle assurdità e gli eccessi nella nostra condotta: gli altri dicono lo stesso di me anche se non ci credo (mi dicono sempre che una volta a Sheffield cercai di scoparmi un televisore, ma non ricordo nulla). Voglio raccontarvi uno dei tanti episodi che abbiamo collezionato: eravamo a Miskolc, sai una di quelle città operaie ungheresi, in provincia, tutte fabbriche e comunismo, che improvvisamente, alla caduta del regime, si sono viste togliere tutto e sono cadute in una sorta di depressione caspica perenne, violenza introiettata e automatica scarsezza di mezzi di sussistenza? Ecco. 

In questa città facemmo un concerto per i nostri amici punks ungheresi, gente davvero massiccia, tanto che erano tutti ubriachi prima ancora che noi suonassimo una nota. Noi ci dicevamo: “Cazzo, come facciamo a stargli dietro? Se continua così riusciremo a suonare soltanto il citofono”. Ma alla fine facemmo questo concerto: gente a culo nudo, ubriachi molesti con in crisi psicologica e gente che piangeva in preda a esaurimento nervoso. Fortunatamente avevamo il nostro booker, un grandissimo personaggio, un punk surreale e roccioso di scuola Laibach, un misto fra Danzig e un metalmeccanico incazzato, con tutte quelle ambiguità che si possono facilmente immaginare in un contesto che fino a poco tempo fa era immerso nella repressione più totale. Arriviamo a casa di costui dopo il concerto e passiamo una notte tranquilla in vista della ripartenza del mattino dopo. 

Ci svegliamo relativamente presto e andiamo a caricare il furgone e, proprio quando stiamo per andare via, noto che dalla finestra di fronte fa capolino una vecchia cicciona con sguardo arcigno. Ci fissa come se fossimo degli alieni da distruggere con un raggio fotonico, al che io faccio ai miei compagni: “Ehi ragazzi, avete visto ‘sta buzzicona che ci spizza? Forse vuole scopare!” Grasse risate di tutti. Ovviamente pronuncio queste parole in italiano, ma alla vecchiazza, anche se digiuna del mio idioma, salta la mosca al naso, così decide di scendere giù dal suo appartamento (che cade a pezzi, dovete pensare che il contesto è una periferia di quelle che Torbella al confronto fa ridere i polli), con una mezza calza blu infilata di traverso, l’altra gamba nuda e due pantofole  zozze, minacciandoci con il bastone da passeggio. Il nostro booker, fermo come una roccia, spiega alla signora che noi siamo italiani e che è impossibile che l’abbiamo insultata, lei ha capito proprio male. 

Ma mentre il tavolo dei negoziati va avanti, ecco che dalla medesima finestra di prima si affaccia il marito. Costui sembrava lo spettro di Einstein. Anzi non proprio Einstein, ma Einstein on the beach—cioè dopo un’esplosione nucleare. Capelli bianchi e baffi sparati al vento, occhiali come due fondi di bottiglia, secco come un chiodo e con una canotta che manco nel profondo Sud Italia. Chiama la moglie a gran voce, forse le dice di risalire, e ovviamente ci spizza. Mentre succede questo Toni Cutrone, il nostro alacre batterista, si avvicina alla finestra per guardare meglio cosa succede. A quel punto il nostro vecchino tira fuori una bella pistola luccicante. Al che il nostro alacre batterista fa dietro front come un gambero esclamando a mezza voce: “Oh regà, questo c’ha er pezzo!” In quel momento, l’anziano stronzone spara un colpo, non mi ricordo se per aria o ad altezza d’uomo, fatto sta che non esce nulla dalla canna della pistola. Era talmente ubriaco che si era dimenticato di caricare l’arma, tanto che guarda direttamente nella canna per capire come mai non ha sparato un cazzo. 

Approfittando di questo momento di défaillance, la truppa di musici si sparpaglia e si da alla fuga nascondendosi in maniera più che codarda dietro qualsiasi oggetto, anche un segnale stradale. Ed è proprio in questo momento che una voce profonda e intensa si spande per l’aere. È forse la voce di Dio? No, è Andrea Marziano, il nostro prode chitarrista, che si pone un interrogativo fondamentale: “A TO’, NDO CAZZO STANNO LE CHIAVI DEL FURGONE?!” Ovviamente lui era ignaro di tutta questa situazione immonda, trovandosi al decimo piano del palazzone popolare in cui albergava il booker. Invano gli facciamo segno col dito di starsi zitto, ma a un certo punto proprio quando Andrea sembra capire che qualcosa non va, il nostro anziano amico sparisce dalla vista, forse—si spera—colpito da un coccolone. Corriamo tutti ai posti di fuga più che di combattimento e con una mossa strategica saliamo sul furgone e via. Siamo salvi: il nostro booker sempre sobrissimo ci porta a festeggiare in un bar  con un giro di palinka alle dieci del mattino, un orario decisamente giusto per sfondarsi di distillati. 

Ci sediamo e vediamo un televisore appeso al muro sparato a un volume micidiale. Al che Toni fa: “Porcama****a sto televisore ha rotto il cazzo, cadesse per terra!” E come per magia, il televisore cade e si frantuma. Tutti muti, ci guardiamo in faccia e decidiamo che forse dobbiamo ordinare altri due giri di palinka. Ma ragazzi, ce ne sono di storie… Sulla merda la ciliegina non è ancora stata posata. Aspettiamo ancora il racconto definitivo dal prossimo tour, impavidi operai della musica.
DEMENTED BURROCACAO, SYSTEM HARDWARE ABNORMAL

Anarchy in Switzerland

Ottobre 2014, sono in tour con O Lendário Chucrobillyman. Questa sera siamo ospitit di uno “spazio sociale” in una città di media grandezza in Svizzera. Mentre suoniamo, un ciccione di circa 50 anni ubriaco e molesto sposta a caso i volumi del mixer (un vecchissimo sei canali di marca infima con cui per miracolo abbiamo amplificato voce e grancassa). I suoi amici dicono che è un grande sassofonista e che vuole alzare i volumi perché gli piace molto la nostra musica.

Durante il concerto di O Lendário Chucrobillyman mi metto a presidiare il mixer da eventuali attacchi; riesco a respingerne diversi, ma verso la fine dello show il ciccione riesce a gabbarmi con astuzia e con un movimento super rapido alza tutti i canali con un colpo solo, creando un feedback infernale. Lo spingo via, il tipo barcolla, i suoi amici si mettono in mezzo: ma cosa fai, non è cattivo, è solo ubriaco, è un grande sassofonista ecc. Facciamo “pace” e la cosa finisce là. 

Post-concerto, beviamo una birra fuori dal locale e girandomi vedo a poca distanza il ciccione che sta pisciando sulla nostra macchina. Scatto verso di lui scaraventandolo via con un calcio volante. Parapiglia. Ok, scusate, non dovevo, ma lui pisciava sulla macchina! Finisce là, andiamo a bere una birra, viene anche il ciccione (che si tiene a distanza e barcolla farfugliando), ma durante il tragitto c’è una discussione con uno che sembra uno squatter (cappellino, tuta e piercing). Mi mette al muro tenendomi per il collo, mentre tento di dirgli che con il ciccione è tutto a posto e che stavamo appunto andando a prendere una birra insieme. Ma il tipo non molla, io resisto alla morsa del fanatico attaccabrighe per un po’, ma per liberarmi devo tirargli un diretto in faccia, non per vantarmi ma ben assestato, perché il tipo crolla a terra. Altro parapiglia ma questa volta gli svizzeri che erano presenti mi danno ragione. 

O Lendário Chucrobillyman vorrebbe andare a casa, è tardi e non ne può più di tutta questa violenza gratuita, io sono d’accordo, ma in quel momento vediamo dalle finestre i lampeggianti della polizia che parcheggia davanti al locale. Il nostro amico che ha organizzato il concerto va nel panico perché, anche se è svizzero, non ha i documenti svizzeri (cose da svizzeri) e se la polizia lo trova sono problemi. Nel frattempo spio da dietro le tendine del locale la scena illuminata dalle luci blu intermittenti: un altro nostro amico (lo chiameremo Mr. B), completamente ubriaco, è seduto sul portabagagli aperto della sua macchina, la testa fra le mani, davanti a due poliziotti che stanno compilando delle carte appoggiati sulla loro volante. I poliziotti sembra non vogliano più andarsene. Mr. B li ha tamponati. 

Passano così circa due ore in cui beviamo birra e riflettiamo sulla vita, chiusi nel locale senza possibilità di uscire, assieme al ciccione e lo squatter, finché decidiamo di andarcene di nascosto. Con uno stratagemma usciamo senza farci notare e raggiungiamo la macchina. Mi rendo subito conto di non avere un’idea molto chiara di dove sia la vecchia casa occupata vicino alle rotaie dove dobbiamo dormire. Non abbiamo un navigatore né un cellulare con Google Maps. Giriamo a caso per almeno un’ora, finché l’ispirazione mi porta nella strada giusta. 

Entriamo nella casa e troviamo dei letti a castello al primo piano. Ci infiliamo nei sacchi a pelo, al buio, sui materassi in basso. Pochi minuti dopo si accende la luce delle scale e vedo la sagoma barcollante di Mr. B entrare nella nostra stanza e salire al piano superiore del letto a castello. Silenzio. Piano piano inizio a sentire delle gocce cadere sul mio materasso, sempre più forte, fino a diventare un torrente in piena: è Mr. B che si sta pisciando addosso proprio sopra le nostre teste. Ci spostiamo al limite del letto, increduli e schifati, e cerchiamo di dormire rannicchiati in un angolo. Alle prime luci del giorno apro gli occhi e vedo O Lendário Chucrobillyman in mutande, seduto sul bordo del letto, che si gratta le gambe infestate dagli animaletti: “Per favore, ce ne possiamo andare?”
PIDO, WASTED PIDO / DESTROY ALL GONDOLAS

Io li odio i nazisti del Veneto

Primavera del 2001. Durante un pomeriggio alcolico, tra le stradine strette del centro di di Vicenza, troviamo la Cantinota. Solo una porta da cui parte una scala curva che scompare verso il basso. Mezzi ubriachi ci fiondiamo giù e scopriamo che si tratta di un posto fighissimo. Un pub sotterraneo con musica punk e rock’n’roll gestito da una tipa con i capelli viola che subito ci chiede: “Ma voi siete una band?”. Gli Hormonas esistevano da un paio d’anni, ma era da poco entrato in formazione Pido. In un attimo fissiamo la data per suonare, molto in là nel tempo, in autunno. Poi tutto viene ricoperto da un mare di alcool.

Qualche mese dopo ricevo una telefonata, è il nuovo gestore della Cantinota, mi dice che la tipa non c’è più, che lui ha “ereditato” una serie di date fissate e di numeri di telefono. Mi chiede se vogliamo ancora suonare lì. La domanda mi risulta strana, ma ovviamente rispondo di sì.

La sera del concerto, quando arriviamo al posto, veniamo accolti da una serie di tipi grandi e grossi, imbrillantinati e con giubbotti di pelle da motociclista, che ci squadrano. Sono interdetti, non capiscono bene chi siamo e soprattutto quello che non gli torna pare sia il nostro schieramento politico. Vestiti neri e teschi pare gli vadano bene, ma ci sono alcune cose che non gli tornano. Mentre scarico gli strumenti uno di loro, che chiamerò T., mi chiede: “Ma voi cosa siete? Rockabilly oppure siete quelli che frequentano il Jack the Ripper?”. Dato che al tempo il Jack the Ripper era praticamente la nostra seconda casa, un posto dove passavamo quasi tutti i weekend, un punto di riferimento per la nostra scena garage-punk/rock’n’roll, la mia risposta è stata ovvia. Meno prevedibile è stata la sua reazione: “A noi quel posto non ci piace, non ci piacciono i rockers che si mischiano con i mods”. Provate ad immaginare la mia espressione a quella frase. E provate ad immaginare il cazzo che ne fregava di tenere separati rockers e mods.

Ad ogni modo qualche battuta che ora non ricordo stempera la situazione e cominciamo a preparare il palco. Non vedo asta e microfono e T. mi dice che “ogni cantante rockabilly dovrebbe avere la sua asta e microfono”. Ricordo ancora oggi la mia risposta: “…” 

A quel punto T. mi fa: “Ok, andiamo in sede a recuperarli” e appena saliti in macchina continua: “Quando arriviamo aspettami fuori e non parlare con nessuno”. I lampioni arancioni della strada illuminano le croci celtiche disegnate sul muro del posto davanti al quale ci fermiamo. Sul muro c’è scritto “Venerdì 13” e escono alcuni bonehead davvero grossi ad accoglierci. T. li saluta, entra e mi lascia lì fuori con ‘sti tipi. In pratica la situazione è questa: sono davanti all’unico centro sociale occupato di destra in Italia e i simpatici gestori del luogo mi stanno annusando il culo. Come dire che sono nella cazzo di piscina degli squali e la gabbia non mi pare così solida. 

Uno di loro passa in rassegna ogni singola spilletta che ho. “Bella quella col teschio”, “Cramps è la tua band?”, “Potreste suonare qui”. Per fortuna T. esce velocemente con la fottuta asta e microfono e ci leviamo dal cazzo. Concludo la prima parte del racconto facendo un breve recap: siamo una band punk/rock’n’roll, abbiamo fissato una data in uno posto punk e —sorpresa!—il posto ha cambiato gestione e quindi adesso abbiamo a che fare con i nazisti dell’Illinois di Vicenza. 

Poi finalmente arriva il concerto e va tutto benissimo: ci sono molti amici e si fa festa assieme, gli sguardi arcigni dei motociclisti si stemperano perché la serata sta andando bene. E a quel punto… Nel backstage pieno di amici la festa si alza di grado alcolico. Il terribile segreto che tenevo nascosto si scioglie come il ghiaccio del gin tonic al sole. Succede allora che Pido, sdegnato, comincia a bestemmiare e dare di matto. La lotta contro i fasci non conosce tregua: quindi scrive “nazi di merda” dietro ad una porta in un angolo e piscia dentro un boccale. Seguo la faccenda con un bel sopracciglio alzato, ma al tempo avevo già capito che Pido in quelle condizioni è una macchina da guerra inarrestabile. Arriva finalmente il momento di andar via. Smontiamo tutto, prendiamo i soldi e scappiamo. 

Appena esco dal locale pare cominciare una scena al rallentatore. Lì attorno schiamazzano alcuni simpatici amici dei gestori, con bomber e i capelli molto corti. Apro la portiera dell’auto e c’è Pido che rantola ubriaco, salgo e metto in moto. In quel momento arriva di corsa il gestore, apre di colpo la porta dell’auto: “C’è un problema, devi venire giù”. Ok. Ed alla fine ecco la scena dove io vengo croccato di botte dai nazi. Ok. Mi alzo e vado incontro al fato crudele a testa alta. 

Scendiamo, io, Pido e il gestore, che ci porta diretti nel backstage e si mette lì, davanti alla porta, ora spostata. Con le luci accese la scritta “nazi di merda” adesso è enorme e in bella vista. Con la più grande faccia da culo che possiedo abbozzo una miserabile balla: “Ma sai… durante tutta la serata c’è stato un andirivieni continuo qui dentro…”. Inaspettatamente la cosa pare minare la sicumera del destromane nell’attribuirci il gesto. “Non è neanche tanto la scritta” fa il gestore “Ma è questo schifo qua”, indicando il boccale col piscio di Pido. 

E a quel punto succede che Pido, rimasto in disparte fino a quel momento, entra in scena per interpretare quella parte che a ognuno di noi è destinata, dagli dèi o dal fato, almeno una volta nella vita. Quando l’insensatezza prende senso e l’universo storto delle nostre vite per un attimo ritrova l’equilibrio. Senza esitare, Pido prende in mano il boccale e fa: “In che senso ‘questo schifo qua’? Cosa c’è di strano in questa birra?” Appoggia le labbra al boccale e beve un sorso. Immediatamente sputa tutto a terra e bestemmia: “Ma che cazzo è sta roba? È piscio! Ma che cazzo mi fai bere!”. Ovviamente il gestore è a bocca aperta (pure io a dir la verità), in quel momento vedo l’imbarazzo nei suoi occhi, si sente in colpa, balbetta, mentre Pido continua a urlare: “MA CHE CAZZO, SEI SCEMO!? QUESTO È PISCIO, CHE SCHIFO!” scatarrando per terra. Quello è il momento buono, prima che il gestore si riprenda, saluto, prendo Pido e lo trascino di sopra. Salgo in macchina e parto velocemente mentre i bomberisti schiamazzano ancora, Pido sonnecchia e forse non sa che è diventato il mio mito. 
SAMUELE, SECOND H. SAMHORMONAS

Cazzi amari

Prima di raccontare la mia storia devo premettere che i ricordi dei tour sono sempre un affare spinoso, perché gli avvenimenti più interessanti si verificano sempre nel mezzo di scorpacciate di alcol a buon mercato. Tuttavia, credo di aver ottenuto abbastanza informazioni da terzi per offrire una soddisfacente ricostruzione di quanto è successo nel novembre 2008, durante il tour della mia band Ackees nei Paesi Bassi.

Si tratta di un breve tour di circa dieci giorni. Come da copione il giorno della partenza non ci viene consegnato il furgone che avevamo noleggiato, ma il circo non si può fermare; riesco a farmi prestare un relitto di van a tre posti da un imbianchino e partiamo con quello e un’utilitaria. Una volta arrivati al primo locale viene dissipato ogni dubbio sul fatto che il personaggio che ha organizzato questo tour è un coglione di professione. Il posto è una piccola birreria che offre show acustici ad un pubblico di brave persone di mezza età, a cui è stato rifilato un gruppo hardcore dall’estetica omoerotica e i cui gestori non hanno preso alcun accordo con il promoter (il cui telefono risulta, guarda un po’, permanentemente defunto) per offrirci un giaciglio. Ma i soldi ci servono e la birra ci piace, quindi improvvisiamo uno show di compromesso, ci ubriachiamo e andiamo a riposare nel comfort dei nostri veicoli. Novembre. Olanda. Un bel calduccio. Si ripetono altre due situazioni più o meno simili finché non approdiamo a Elburg, nel classico locale “Rock Generico” con il video juke-box che suona “November Rain”, ma almeno sembra che avremo occasione di fare il nostro concerto in condizioni normali e a volumi a noi più consoni.

Il locale si riempie e il live viene ravvivato dalla presenza di una cinquantina di giovanotti ubriachi e strafatti che ballano e cantano. Evviva, abbiamo trovato i nostri fans, dei cerebrolesi come noi. Siamo a casa. Ultimo pezzo e faccio il solito annuncio dal microfono “se qualche persona nel pubblico è così gentile da offrirci un pavimento per stasera ricambieremo in merch, bevande, baci e abbracci”. Una ragazza coi capelli rosa si invaghisce del nostro batterista e ci promette ospitalità ottenendo in cambio il vomito del suo amato sul tappeto di casa. Quale migliore souvenir da parte di una rockstar.

Una volta sceso dal palco mi accorgo però che uno dei nostri “fan” è seduto al banchetto e sta mettendo le mani dove non deve; essendo la mia presenza fisica poco intimidatoria mi rivolgo al batterista (che è di qualche centimetro più alto rispetto alla media del gruppo) chiedendogli se può aiutarmi ad allontanare l’ospite indesiderato.

Con ammirevole zelo, Emanuele si fa subito carico di risolvere la perniciosa situazione personalmente e si avvia verso il banchetto. Il dialogo tra i due si svolge come segue.
Emanuele: “Per favore, puoi levarti dal banchetto?”
Fan: “Fottiti, siete dei froci di merda, le vostre grafiche sono piene di cazzi e vi toccate il cazzo sul palco, froci di merda!”
Emanuele: “Hai ragione.”
Poi, senza scomporsi, con grande slancio atletico salta sul tavolo che sta tra lui e il giovane piantagrane, estrae il pene dai pantaloni e cerca di schiaffeggiarlo in volto con lo stesso.

Il piantagrane reagisce con un pugno e da lì l’intero locale, popolato quasi totalmente da bifolchi, senza nemmeno sapere che sta accadendo, dà vita ad una rissa generale tipo film Western nel giro di pochi istanti. Il proprietario del locale ci fa rifugiare nel backstage “prima che questi vi ammazzino”, mentre dall’altro lato della barricata i nostri fans sbuffano rumorosamente dalle froge, sputano e prendono a calci la porta all’urlo unanime di “ammazza i finocchi”. Dopo nemmeno un anno di attività questa è la quarta volta che un membro del nostro gruppo viene malmenato da uno del pubblico e ne seguiranno numerose altre durante il secondo e ultimo anno di esistenza degli Ackees. Mi manca quella band.
MATTIA BRUNDO, BLEAK SEVEN / GRID

Amore libero

Con la Agatha, in questi 13 anni di attività, abbiamo visto talmente tanto disagio che quando ci hanno proposto di scrivere questo articolo ci siamo guardate e abbiamo detto: ok, e adesso quale raccontiamo? Parliamo di quella volta in Polonia con i Death Before Work? Dormimmo ammassati in nove in un soggiorno di tre metri quadrati con il padrone di casa, Fakir (sì, Fakir), e un suo amico; scelsero Doner come vittima sacrificale in quanto più giovane e più carico, bevvero vodka fino alle 7 del mattino straparlando finché Doner disperato non si mise a versare vodka nelle piante. O quella volta in Slovenia quando l’organizzatrice, che di nome faceva SATANIA, ci disse: sì sì, tranquille, potete dormire qui. E poi a fine serata (alle tre) ci mostrò il posto dove dovevamo dormire, e tutti i letti erano occupati da super crustoni o cani o non sappiamo bene cosa che ascoltavano i Tragedy a tuono e facevano festa tipo discoteca? O quando in Inghilterra finimmo divisi in due case, altrettanto disagiate, da persone conosciute a caso dopo lo show in un karaoke (perché l’alternativa era dormire non si sa bene dove) in cui in una stanza avvenivano misteriosi traffici (armi ci parve di vedere) e vi era un tappeto di merde di cane?

La mia preferita comunque è tutta italica. È stata la prima data dopo la nascita di Leo, il bimbo di Claudia, conosciuto in tutta Europa per aver fatto già tre tour prima di iniziare le elementari (bisogna abituarli fin da piccoli al disagio). Leo comunque era a casa, non era ancora il momento per lui di passare le vacanze in squat con cani giganti e bambini che giocano a mangiare zuppe di sassi e fango. Ma questa è un’altra storia. 

Partiamo noi due da sole, carichissime. Tre date, Firenze, Bologna, Pisa. Ponte dei morti. La prima data è a Firenze, arriviamo che è già buio, il posto è molto bello, una casa occupata in campagna appena fuori dalla città. Ci presentiamo, facciamo un giro e ci dicono che si suona su. Peccato che per andare su ci sia una scala a chiocciola minuscola da cui passa a malapena una persona. Come facciamo con le casse, chiediamo noi? Facile, ci rispondono: le imbraghiamo e le facciamo salire dalla finestra. E quindi le mie due casse vengono avvolte in funi da alpinista ed issate tramite carrucola, con un drappello di persone (tra cui noi due che amiamo queste situazioni e ci troviamo nel nostro naturale habitat) che tirano la corda a furia di “ohh issaaaa”. 

Primo ostacolo superato, si suona, ci si diverte, scoppia una rissa in bagno, cani che si azzuffano, tutto nella norma. Arriva il momento dell’after party e si presenta il secondo ostacolo, cioè, non a noi ma agli organizzatori: non c’è il cavo per il DJ set! Ma il tutto viene risolto in maniera geniale: microfono sulla cassa del computer e via che si balla tutta la notte! Come tutta la notte? Ma noi dove dormiamo? Ovviamente proprio lì.

I posti per dormire sono delle specie di soppalchi intorno alla stanza dove si suona. Aperti, divisi da tende, con delle scalette per muoversi da uno all’altro. Divisi da tende, ricordiamocelo quando parleremo dell’ultimo momento di disagio di questa serata indimenticabile. E quindi via di 883 tutta la notte, ovviamente con fumi di sigarette e altre sostanze non ben identificate che salgono verso il nostro materasso. Noi come al solito ridiamo come matte, perché in realtà ci piace tutto questo, e un po’ stordite dai fumi, un po’ dalla stanchezza, ci appisoliamo, svegliandoci comunque ogni cinque minuti. 

Finalmente all’alba la festa volge al termine, sentiamo i rumori degli ultimi rimasti che salgono anche loro a dormire, un po’ ubriachi inciampano, un po’ ridono, un po’ parlano piano piano, un po’… cominciano a fare sesso. Sì. A fare sesso. Rumoroso. Con una tenda come divisione (tengo a questo punto a dire a tutti voi che leggete, che nella storia delle Agatha la promiscuità con coppie in fase di accoppiamento è avvenuta più e più volte, di cui una memorabile a Jesi, ma anche qui, è tutta un’altra storia). E quindi vai di amplesso in compagnia, con noi che a questo punto moriamo dalle risate. Nel corso della nottata mi alzo per andare in bagno, scendo la scala ma mi blocco perché due occhi iniettati di sangue mi fissano da davanti alla porta del bagno. Il piccolo Birra, un pit bull di 50 chili, non ha molto piacere che io passi di li. Forse è meglio tornare a letto. Mi appisolo e sento qualcuno che mi tocca: è Claudia che cerca di mettermi il ciuccio, pensando che chi dorme accanto a lei sia il suo frugoletto. 

Arriva l’ora di alzarci. Scendiamo in punta di piedi perché Birra pare essere andato altrove e non vorremmo disturbarlo, carichiamo piano piano (le casse erano ovviamente scese sempre nello stesso modo, smolla smolla sì sì, piano, ok vai) e ce ne andiamo ridendo, sempre più convinte che, tutto sommato, le notti così spaccano, perché sono l’espressione più alta di tutto questo mondo che amiamo cosi tanto. Per la noia e i letti comodi c’è tutto il resto dell’anno. 
PAMELA, AGATHA / THE SMUDJAS

Roberta Scomparsa è un’illustratrice e fumettista di Bologna. Il suo primo fumetto si intitola La Medusa, edito da Canicola.

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