Gli universitari italiani fanno schifo

Una serata universitaria non italiana, forse rimandata anche lei.

Quando sono entrato all’interno del sistema universitario italiano ero pieno di speranze: pensavo che il mio stile di vita avrebbe finalmente subito una svolta positiva, e che in generale sarei stato molto più soddisfatto e libero.

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Mi è bastato qualche mese di corsi per sperimentare tutto lo spettro dello sconforto e delle delusioni che l’apparato burocratico e strutturale dell’istruzione italiana può offrire: la sede della mia facoltà, composta da vecchi magazzini ingrigiti, era più simile a una raffineria abusiva di speed in cui i bagni erano accessibili un giorno sì e uno no. Il quarto d’ora accademico era talmente istituzionalizzato che nella pratica le lezioni duravano la metà (con prevedibili ricadute sulla mia voglia di alzarmi dal letto), e buona parte dei miei fondi—nonostante le visite periodiche all’Ersu—veniva succhiata dal costo dell’alloggio universitario. Il resto lo spendevo in uscite e al supermercato, perché in mensa non ci andava nessuno.

Alla fine, l’unico contatto con il mondo universitario che mi ero immaginato consisteva nelle serate organizzate nella varie facoltà, in cui si buttavano giù cocktail a pochi euro e i fuorisede ci provavano tra loro per poi finire a scopare al buio in una tripla. Dopo quei tre anni mi sono laureato, e anche se in generale non conservo un cattivo ricordo di quei tempi, posso dire senza il minimo dubbio che la vita universitaria ha ingigantito a dismisura tutte le parti della mia personalità che avevano a che fare con il lassismo.

A quanto pare però è una tendenza comune: leggendo qua e là mi sono imbattuto in una recente indagine promossa dall’Università Cattolica e dall’Istituto Superiore di Sanità, e ho scoperto che il mio stile di vita ricalcava perfettamente quello degli universitari italiani. Dal quadro redatto dallo studio, che ha coinvolto 8516 studenti di dieci università italiane, viene fuori un’immagine dello studente universitario italiano impegnato in un baccanale a base di vita sedentaria, bevute, tabagismo e smartphone.

In effetti, non è una ricerca che suscita grande scalpore: chiunque sia mai entrato in un ateneo o sia stato giovane può immaginare com’è la vita di un 20enne che mette per la prima volta davvero il naso fuori casa e quando ci rientra non è più in quella dei propri genitori. L’ANSA, nel riportare i dettagli della ricerca, titola però che gli studenti italiani sono “rimandati in stili di vita.”

Questo, spiega, perché “ben tre [studenti] su dieci non svolgono attività fisica, mentre un numero consistente cede alle lusinghe di Bacco e Tabacco. Il 24 percento degli studenti universitari fuma, il 42,2 percento beve birra, vino o liquori almeno settimanalmente, mentre circa 40 percento degli studenti ha fumato almeno uno spinello e il due percento utilizza altre droghe.” Poco più avanti si accenna invece al “rischio di abuso e dipendenza” dalle nuove tecnologie, dal momento che “tutti gli studenti hanno almeno un telefono cellulare e sette su dieci usano smartphone per essere sempre connessi.”

Non so quale sia la situazione dei giovani italiani che non fanno l’università o degli studenti universitari degli altri paesi, ma l’ultima volta che ho controllato eravamo nel 2015. E buona parte di queste cose le facevo anche prima di avere un libretto universitario con sopra un 27 in Storia sociale dello spettacolo, anche se magari da quando ho iniziato a guadagnare sono un po’ più preoccupato di quello che spendo.

“Nonostante uno stile di vita ‘non del tutto salutare’ e i comportamenti a rischio,” aggiunge sempre l’ANSA riferendosi allo studio, “ben otto studenti su dieci si sentono in buona o ottima salute.” O, probabilmente, sentono di avere meno di 85 anni.

In attesa di prendere visione di tutto lo studio e capire la portata della nostra insufficienza alla vita, la notizia si chiude con una dichiarazione dei responsabili della ricerca, che sostengono che “basterebbero pochi interventi per migliorare la situazione: dall’offerta di porzioni di frutta e verdura al posto di calorici snack nei distributori automatici, all’incremento della disponibilità di strutture sportive nei campus universitari, all’organizzazione di corsi che educhino all’uso consapevole delle nuove tecnologie, agli sportelli di counseling dentro gli atenei.”

Solo dopo aver letto questa frase mi sono reso conto della grande beffa del destino universitario: per anni ho addossato la colpa della mia vita studentesca al di sotto delle aspettative—”rimandata”, per dire come sopra—alla mancanza di organizzazione, ai corsi che si sovrapponevano o che venivano sospesi, o molto semplicemente al fatto che ero un po’ stupido anche io. Quando in realtà sarebbero bastate delle carrube nel distributore automatico e un corso di spinning gratuito nella palestra convenzionata della facoltà. A saperlo prima.