Cameron Stallones è un personaggio davvero sorprendente. Per capirlo bisogna cercare di guardare un po’ oltre la sua apparenza da kid californiano multicolore e imparare a riconoscere il mistico acido che ci si nasconde dietro. Un’indole che coincide esattamente con la sua musica: un gioco psichedelico di esplorazione pop e spaziale, caotico e divertito ma determinato a raggiungere qualche forma di consapevolezza ulteriore. Solare nel senso di energico e positivo ma anche un po’ accecante. Cameron fa musica col nome di Sun Araw dal 2008, inizialmente legato al giro Not Not Fun e a quell’estetica tutta acidi in cameretta e allucinazione televisive che abbiamo poi chiamato ipnagogica, usando chitarra voce organetti scassati e qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Quasi da subito, però, nei suoi dischi emerge un amore sincero per il reggae, il dub e tutto quello che fiorisce in Giamaica da quando l’uomo inventò l’eco e il reverbero. Questa passione lo ha portato nel 2012 a mettere davvero piede nell’isola, per registrare prima una collaborazione con gli storici Congos—accompagnato dall’astronauta sintetico ex-Robedoor M. Geddes Gendras—e poi con una serie di semisconosciuti vocalist dì lì. In questa intervista parliamo un po’ di cosa ha imparato dai suoi viaggi e del suo ultimo album da solo, Inner Treaty, forse il più radicale e spaesato di tutta la sua carriera.
VICE: Nel tuo ultimo album sembra quasi che tu abbia deciso di “abusare” delle tipiche tecniche di produzione dub, arrivando a livelli di astrazione assoluta… Come è nato questo suono?
Cameron Stallones: Il processo creativo per me è sempre questione di sapere come soddisfare certi istinti che ho, e nasce sempre così. Quello che descrivi come “abuso” forse nasce dal fatto che spesso, quando hai lavorato per molto tempo in un certo modo ti può capitare di sentire il bisogno di sovvertirlo e cambiare approccio per far sì che funzionino di nuovo. La creatività è una cosa un po’ capricciosa, ed è sempre un po’ difficile spiegare da dove è nato tutto. Semplicemente dalla necessità di trovare una prospettiva nuova, credo.
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Ho sempre pensato che il tuo sound fosse molto rispettoso della tradizione musicale giamaicana, anche se ne fai una versione molto personale.
Be’, ho sempre ascoltato tantissima musica giamaicana, ed è diventato tutto ancora più importante per me quando ci sono effettivamente stato. Quello che ho notato subito è che quel modo di fare musica in maniera “impropria” che ha tanta gente da quelle parti era molto interessante, e anche molto simile al modo in cui io e miei amici abbiamo sempre fatto musica, cercando di tirare fuori bei suoni da una strumentazione molto limitata. Lo stesso spirito DIY che c’è nella scena underground che conosco io.
È un parallelo importante perché in comune c’è questo atteggiamento molto naturale. Non è frutto di decisioni prese a tavolino, sono solo delle direzioni che ti viene più facile seguire.
Come se si potesse usare qualsiasi cosa per creare?
Assolutamente, per me è proprio questo il punto: cercare il principio universale di tutte le cose, ed è in questo modo che si possono trovare livelli ulteriori di realtà. Non è qualcosa di percepibile con esattezza, anche se si manifesta fisicamente nella musica. È un interesse molto profondo per me, e credo che la musica serva a esplorarlo, o quantomeno a ricavare qualcosa di diverso da quello che ci viene dalle esperienze di tutti i giorni come, boh.. mangiare un hamburger.
In che modo lavori alla tua musica, di solito? Improvvisando?
Sì, praticamente tutto quello che registro nasce da improvvisazioni. Cerco di liberarmi la mente da qualsiasi intenzione precisa e di suonare concentrandomi sul momento, reagendo direttamente a quello che succede. Mi piace pensare che creo un ambiente intorno a me in cui posso muovermi in un certo modo e sentirmi a mio agio, tipo mescolando certi suoni tra loro, creando dinamiche particolari o un certo tipo di tensione, magari. Un suono con cui poter vibrare all’unisono, o qualcosa del genere.
E cosa succede quando fai entrare altri in questi spazi, considerato che di tanto in tanto lavori con altra gente?
È semplicemente come aggiungere un altro strumento. Uno dotato di una propria volontà, però, il che è piuttosto figo. Però di solito la composizione principale è tutta roba mia, e aggiungo le parti suonate da altri musicisti in un secondo momento. Cioè magari penso “qua ci starebbe un sassofono” e ce lo aggiungo. Ci sono state delle eccezioni, ma di solito va così. Comunque mi piace molto collaborare con altri artisti, specialmente dal vivo, e gran parte dei miei live nascono proprio come collaborazioni, perché è un contesto in cui sento il bisogno di avere a fianco un’altra forza motrice con cui passarti la palla a vicenda. Anche lì ho bisogno che sia un’esperienza sempre nuova, in cui scopro cose nuove, e deve essere sempre differente per cui cerco anche di suonare sempre con gente diversa. Mi trovo molto più a mio agio così, mi sentirei davvero insicuro se avessi l’impressione di ripetermi.
A questo proposito, parlami un po’ della tua collaborazione coi Congos, come è nata?
Ah, quello è stato tutto merito di una persona splendida e incredibile come Matt Werth di RVNG Intl. Con la label ha sempre fatto un lavoro stupendo, ha pubblicato delle ristampe veramente fenomenali, così come dei dischi nuovi altrettanto fighi. Qualche tempo fa ha iniziato a fare uscire una serie di dischi intitolata FRKWS (Freeakways), in cui invita musicisti più giovani a collaborare con altri da cui si considerano influenzati. È lui che ha avuto l’idea, ma io sulle prime ero davvero scettico. Non credevo sarebbe stato possibile, e invece due settimane dopo averne parlato per la prima volta eravamo già in volo verso la Giamaica. A posteriori è stata un’esperienza davvero folle, profonda e incasinata per cui gli sarò sempre enormemente grato.
È stato difficile rapportarsi con loro inizialmente?
Per forza. C’è davvero un bel divario culturale, e la prima volta che ci siamo incontrati c’è stato un certo imbarazzo. Sicuramente anche il mio modo di comporre è molto diverso da quello a cui erano abituati loro. Ma eravamo molto determinati a mantenere il nostro stile personale a tutti i costi. Per tornare a quella cosa del principio naturale di cui parlavamo prima, credo che la cosa più interessante dell’intero progetto sia stato che dopo solo un giorno che osservavano il nostro modo di lavorare hanno subito capito come ci si potevano rapportare, capendo che c’era in fondo qualcosa in comune con il loro mondo. Io ero molto preoccupato di poter dire qualcosa di inappropriato, che magari poteva offenderli, e rendermi conto che non eravamo in grado di trovare un territorio comune su cui lavorare. Poi ho capito che la cosa migliore era semplicemente stare zitto e fare le mie cose al solito modo, e così è emerso quello che avevamo in comune. Questa è la cosa veramente eccitante del tutto, il modo in cui qualcosa di apparentemente impossibile alla fine è andato perfettamente liscio. Capito? Due tizi a caso di Los Angeles che se ne vanno in Giamaica a registrare con dei mistici rastafariani sessantenni!
Dalle session è nato materiale per più di quell’unico album?
No, c’è anche molto materiale di artisti locali che abbiamo registrato io e Ged [Gendras] durante quel primo viaggio, e che è appena uscito per una label esclusivamente dancehall che abbiamo fondato. Si chiama Duppy Gun. Ma abbiamo fatto anche un secondo e, ultimamente, un terzo viaggio da quelle parti, e abbiamo altre registrazioni che pubblicheremo il mese prossimo. La Stones Throw di Los Angeles ci sta dando una mano a produrre e distribuire questi dischi. È un progetto che speriamo di portare avanti per un po’: praticamente finora si tratta di basi e beat che abbiamo creato noi, ma speriamo di coinvolgere anche altri musicisti “sperimentali”, a cui vari cantanti giamaicani hanno aggiunto le loro parti vocali. Tutto questo è davvero molto eccitante… Matt ci ha aperto un portale verso quel mondo, adesso cerco di puntellarlo col gomito in modo che non si chiuda. La Giamaica è un paese splendido e c’è davvero musica dappertutto.
Ma loro avevano mai sentito la tua musica? E cosa ne pensano ora?
Ora ne sanno qualcosa, sì, ma ai tempi non avevano la minima idea di chi fossi. Matt gli aveva mandato un cd, ma non so nemmeno se l’hanno mai davvero ascoltato. Non è stato davvero un problema, anzi, meglio così. Sul serio, non erano davvero tenuti a conoscere la mia roba.
Parlando ancora di dub, mi sembra che come influenza oggi sia praticamente ovunque. Non solo la parola, ma proprio quella nozione di suono “spaziale” che viene da lì. La musica elettronica in generale ha preso parecchio da quel modo di intendere la produzione, e vale anche per altri generi.
Credo che in realtà questo modo di intendere il suono venga anche da altre parti. Dalla primissima musica elettronica tipo Stockhausen o Xenakis. Ma c’è qualcosa di davvero magico e potente in quell’isola, e non so se dipende da quanto è grande e quanta gente c’è, ma la loro cultura musicale è diventata praticamente quella più diffusa al mondo. È eccezionale, ne sono contentissimo. Sicuramente è stata sfruttata troppo, e come ogni altra idea in circolazione così tanto ci sono casi in cui è stata trasformata in qualcosa di veramente poco interessante, è molto facile che succede. Però credo che chiunque si rapporti a quelle idee con onestà si renda conto che è una forza espansiva. È questo che penso del dub in generale: espansione pura. Tu hai parlato di “spazio” e, appunto, è un approccio che porta una gran libertà di movimento, il che è sempre una buona cosa per la musica.
Un’ultima curiosità: mi sono sempre chiesto da dove venga il nome Sun Araw.
Araw viene dalla lingua tagalog delle Filippine, significa luce, sole, e anche giorno. Per cui può significare “giorno di sole”, “domenica”, o anche “sole” ripetuto due volte. Un significato così vago ti permette di stare in tante dimensioni diverse allo stesso tempo. L’ho scelto in maniera intuitiva e col tempo si è caricato di significati differenti. Credo vada sempre così: scegli una roba perché ti da una vaga sensazione positiva, poi diventa col tempo più profondo, probabilmente perché hai permesso alla parte di te che sa come mai ti ci ritrovi di emergere. Tutte le cose in realtà sono così, stratificate e complesse, quindi i giochi di parole e gli scherzi sono importanti perché contengono sempre una verità e svelano i diversi significati di uno stesso oggetto, tutti i paradossi… L’universo intero è un gigantesco paradosso.
Se l’intervista vi è piaciuta, vi consigliamo di andare a vedere Sun Araw stasera, mercoledì 24 aprile, allo spazio concept di Milano con Gatekeeper e Dracula Lewis.
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