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Il 3 febbraio in Svizzera sono scattate le sirene d’emergenza. Un suono modulato e regolare, iniziato alle 13.30 e andato avanti ininterrottamente per oltre un minuto. Poco dopo, dodici suoni continui e gravi, in sequenze di 20 secondi e a intervalli di 10.
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Nessuna guerra in vista, solo una specie di gigantesco test antincendio: è l’annuale esercitazione sul funzionamento delle sirene e sulla capacità di mobilitazione del popolo in caso di emergenza, una pratica che ricorre ogni primo mercoledì di febbraio, a ricordare come in Svizzera la sicurezza pubblica sia tutt’altro che un dettaglio.
Tanto le città quanto le valli svizzere, infatti, sono presidiate da un totale di 5mila sirene fisse e 2800 sirene mobili, gestite dall’Ufficio Federale della Protezione della Popolazione (UFPP).
Un dispiegamento che è comunque solo una piccolissima parte dell’enorme apparato di difesa civile del paese. Ponti ricoperti di dinamite, così da poter essere abbattuti nell’eventualità dovesse verificarsi un’invasione armata straniera; autostrade concepite in modo tale da potersi trasformare all’occorrenza in piste di atterraggio e decollo per i jet da guerra; locali blindati al di sotto degli ospedali per consentire una prosecuzione delle attività sanitarie in qualunque situazione di crisi. E bunker antiatomici.
Ce ne sono a migliaia in Svizzera: solo la circoscrizione di Lugano ne ha 13, gestiti dalla Protezione Civile e dalle autorità federali. Un mosaico di cittadelle sotterranee, progettate per ospitare centinaia di persone e strutturate in modo tale da poter essere autosufficienti per lunghi periodi, sotto ogni punto di vista — alimentare, energetico e idrico.
Oltre a questi punti di raccoglimento pubblici, ne esistono poi molti altri di carattere privato. Più di preciso, uno per ogni edificio. Sono i cosiddetti rifugi domestici, dei caveaux sotterranei dove scappare in caso di bombardamento, attacco chimico, terremoto o altri disastri apocalittici.
Una legge svizzera, approvata negli anni sessanta e rivista nel corso dei decenni, rende obbligatoria la costruzione di un bunker all’interno di ogni palazzina. Come afferma l’articolo 46 della Legge Federale sui Sistemi di Protezione Civile, “il proprietario che costruisce un edificio abitativo deve realizzarvi un rifugio ed equipaggiarlo” e “i Comuni provvedono affinché le zone in cui il numero di posti protetti è insufficiente dispongano di sufficienti rifugi pubblici equipaggiati.”
Nel 2006, in Svizzera erano presenti 300mila rifugi in case, istituti e ospedali e oltre 5mila rifugi pubblici per un totale complessivo di 8,6 milioni di posti protetti, pari a un grado di copertura del 114 per cento. In pratica, 1,4 posti protetti per abitante.
VICE News ha visitato alcuni bunker del cantone ticinese, tanto pubblici quanto privati.
La cosa che più stupisce, dei bunker pubblici, è il modo in cui si mimetizzano nell’ambiente urbano. Una banale rampa a pochi metri dallo stadio del Lugano, facilmente confondibile con un semplice accesso a un garage, introduce a una struttura sotterranea di centinaia di metri quadrati, tra dormitori, sale comuni, cucine e uffici di comando.
Il tutto, rigorosamente protetto da svariati strati di porte blindate, con tanto di condotte dell’aria protette da mascherine anti-detriti e pareti segnate da vernici fosforescenti, così da potersi muovere in caso di blackout totale.
Ad accompagnarci è Matteo Belloni, responsabile dei centri del luganese e da anni nella Protezione Civile locale. Come racconta a VICE News, ognuna di queste strutture può ospitare circa un centinaio di persone, con punte che arrivano anche a duecento in caso di emergenze più estreme.
“Negli anni Ottanta era diffusa l’idea che in Svizzera ci potessero essere degli attacchi, dunque sono stati creati questi posti protetti. Se capita qualcosa, la popolazione viene presa e messa dentro.”
Decenni di inutilizzo hanno portato ad una riconversione di questi spazi, che in alcuni casi vengono affittati a scolaresche ed addirittura turisti. Ma la vera novità è stata introdotta pochi mesi fa: per rispondere al flusso di migranti in corso, che sta interessando anche la Svizzera, si è proceduto alla trasformazione dei bunker in centri d’accoglienza.
È il caso di alcune strutture pubbliche, sparse tra le città e i vari passi di montagna, dove sono attualmente ospitati circa 3mila profughi.
“Grazie ai nostri bunker possiamo accoglierne fino a 50mila,” ha dichiarato di recente il ministro della Difesa svizzero, scatenando la reazione tanto delle organizzazioni dei diritti umani, quanto dei migranti stessi.
Quello che lamentano sono condizioni di vita deprecabili, rinchiusi in sotterranei privi di finestre e senza alcuna forma di privacy. Ma sopratutto, si sentono tagliati fuori dal mondo esterno, in uno status di integrazione impossibile.
Un esempio è il bunker sul Passo del Lucomagno, a oltre duemila metri di altitudine, dove si trovano una cinquantina di migranti.
“Siamo chiusi in stanze che sembrano celle, siamo in sedici in pochi metri quadrati, in quattro file di letti a castello. Manca l’aria, sembra di soffocare” ha raccontato uno di loro. Dalle 9 alle 16 possono uscire — anche se non si sa bene a far cosa essendo circondati da montagne e baite. Poi, il coprifuoco.
Alcune associazioni svizzere si sono mobilitate: è il caso del collettivo Stop Bunkers e di quello Bleiberecht, che da mesi organizzano presidi e manifestazioni affinché si metta fine a questa forma di accoglienza definita disumana.
In effetti, camminando nei cunicoli di uno dei bunker di Lugano, la sensazione è quella di un posto tenuto alla perfezione, ma comunque alienante. Mancano le finestre – ovviamente -, e si è perennemente investiti dalle fredde luci dei led. Le camerate poi, divise tra uomini e donne, accolgono un minimo di 20 persone ciascuna per arrivare in alcuni casi anche a cinquanta.
Per il resto, le strutture si presentano come vere e proprie cittadelle sotterranee autonome, e l’organizzazione ricorda effettivamente quella di un albergo. Ci sono enormi cucine, larghi soggiorni con tanto di mobile per i quotidiani, ampi locali bagno — tutti muniti di acqua calda grazie ai boiler interni. C’è poi la saletta delle provviste, con pentole di ogni tipo e macchine per il caffè sparse qua e là. Si intravede anche un foglio con su scritto ‘menù del giorno’. Insomma, tutto sembra essere pronto per l’apocalisse.
Nonostante questa organizzazione, però, i bunker non sono mai stati utilizzati nel senso originario della loro costruzione. Piuttosto, hanno ospitato qualche famiglia in situazioni di piccole emergenze, come incendi domestici o frane nei dintorni. Se però domani gli svizzeri dovessero risvegliarsi sotto una pioggia di bombe, non ci sarebbe di cui preoccuparsi.
Come racconta a VICE News Belloni, “può succedere di tutto lì fuori, ma qui dentro sei al sicuro qualunque sia l’emergenza. È un posto totalmente ermetico.” E non solo per le porte blindate spesse svariate decine di centimetri: per fare fronte a ogni evenienza, i bunker sono stati infatti dotati di generatori interni, così come di sistemi di filtraggio dell’aria esterna.
Per farci spiegare il loro funzionamento, entriamo nella stanza di ventilazione. “In caso di guerra, i filtri vengono attivati e non passa più aria pura” racconta Belloni, indicando il macchinario che fa da filtro attraverso una sostanza creata appositamente per i bombardamenti e altre eventualità simili — “una sorta di carbone attivo”.
“In caso di bombardamento chimico, come può essere quello di un qualche terrorista, tutta l’aria proveniente dall’esterno viene filtrata attraverso questi dispositivi, che la puliscono e la immettono nella struttura.”
Anche a livello idrico ed elettrico ce la si può cavare da soli. Nel primo caso, l’esistenza di un serbatoio da migliaia di litri permette di poter sopperire ad un’eventuale assenza di approvvigionamento di acqua dall’esterno. Per quanto riguarda l’elettricità invece, il generatore diesel che ci viene mostrato nella sala elettrogena permette di poter sopravvivere per alcune settimane in una situazione di blackout esterno. Se poi la luce dovesse venire a mancare anche all’interno del rifugio, i muri si trasformerebbero in quadri di vernice fosforescente verde, intervallati da alcune torce dinamo.
Un’altra sezione importante dei diversi bunker svizzeri è l’area comando. Una zona inaccessibile per la popolazione rinchiusa nel rifugio, dove si riuniscono le élite della gestione delle emergenze.
“Qui si siedono tenenti e capitani, che discutono di quello che sta succedendo fuori” spiega Belloni, mentre mostra un’ampia sala con tavolo circolare, proiettore, schermi e lavagnette. “È qui che si affronta davvero la crisi.”
Oltre alla sala riunione, la sezione si compone di altre due salette. La prima, è il centro trasmissioni: un locale zeppo di radio, telefoni, schermi e computer — utilizzati per comunicare con l’esterno. Accanto, la stanza del comandante, l’unica camera singola del bunker essendo composta da una scrivania, alcune cartine della Svizzera, pc e un letto.
L’organizzazione dei bunker privati è invece totalmente diversa. Non ci sono cucine né posti di comando, e anche da un punto di vista elettrico, idrico e di ventilazione non sono previsti tutti i dispositivi che caratterizzano i bunker pubblici. I cosiddetti rifugi privati assomigliano piuttosto a delle cantine e spesso sono utilizzati in quanto tali, ma dotati di grandi portoni blindati, pareti spessissime e scorte di viveri a lunga conservazione.
Esistono poi situazioni in cui, per ragioni di spazio o di pianificazione strutturale, non è stato possibile per un edificio dotarsi di un rifugio privato obbligatorio. In questi casi la legge svizzera non prevede né il carcere né multe, quanto piuttosto una tassa annuale di 676 euro che garantisce un posto nelle strutture di emergenza pubbliche.
Abbiamo chiesto al responsabile della Protezione Civile quanto pesa tutto ciò sui bilanci federali. “Non posso dirti delle cifre precise, ma tra manutenzione e costruzione di nuovi siti si parla di alcuni milioni di euro all’anno.” Il ministero riserva un importo annuale fisso alla gestione di questi rifugi, e più in generale le spese di difesa arrivano a pesare per il 20 per cento sul bilancio federale.
La società civile svizzera non è comunque turbata da queste spese, anzi. “In Svizzera siamo abbastanza fortunati” conclude Belloni. “Certo, conoscendo il nostro paese, e i rapporti che ha con il resto del mondo, verrebbe da pensare che abbiamo meno bisogno di queste misure rispetto ad altri. Il buon svizzero, però, ha una filosofia molto differente rispetto alle altre nazioni, sopratutto l’Italia.”
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[Una versione precedente di questo articolo conteneva un’informazione errata riguardante la tassa annuale per le strutture di emergenza pubbliche: la cifra esatta è di 800 franchi a persona, pari a 676 euro. In passato l’importo era di 1.500 franchi.]
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Foto di Luigi Mastrodonato/VICE News.