La parte più difficile del lavoro in carcere non sono certo i detenuti, ma la routine: non puoi lasciare le chiavi del magazzino in giro, devi contare tutti gli attrezzi e i coltelli a fine turno, non puoi avere il telefono con te e perdi il contatto con il mondo
Appena laureata ho avuto la fortuna di lavorare con la casa circondariale di Trento a un progetto didattico per il Mart -Museo d’arte moderna e contemporanea; qui il cibo era un linguaggio per comunicare e mettere in contatto il mondo fuori con quello dentro. E se oggi mi occupo di cibo, molto probabilmente lo devo a quell’iniziativa.
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D’altronde sono molti i progetti che mettono in comunicazione industria alimentare e carcere: si pensi alla Pasticceria Giotto di Padova, che impiega i detenuti ed è anche una delle migliori pasticcerie in circolazione. Oggi invece sono a Roma, di fronte a Cookery Rebibbia, una tavola calda apparentemente come tante altre.
La struttura si trova nelle cinta murarie della terza casa circondariale, dove già nel 2017 era stato aperto Fine pena mai, un panificio-bar che impiegava i detenuti a custodia attenuata. Era un’idea nata proprio da un ex detenuto, che convinse la direttrice di allora, riuscendo a raccogliere i finanziamenti necessari per l’apertura. Negli anni successivi, purtroppo, si perse la rotta e il progetto si arenò.
Dalle ceneri del progetto ecco Ricomincio da 3, locale nato grazie alla collaborazione tra l’attuale direttrice Annamaria Trapazzo e l’imprenditore Edoardo Ribecca, del Gruppo CR Spa che opera nella GDO da più di 30 anni, anche con la catena di bistrot Cookery.
Nonostante il periodo complesso, in piena pandemia, cinque detenuti e due uomini semiliberi, hanno riacceso i forni, a pellet, dentro il carcere, riattivando il precedente laboratorio di pasticceria e quello di panificazione, e portandoli all’eccellenza. Il pane qui è a lievitazione naturale -almeno 24 ore-, fatto con pasta madre (in vita da 30 anni) e si utilizzano farine umbre macinate a pietra: dall’integrale fino alla quinoa, farro e castagne. Le materie prime sono fornite da Farchioni Oli, che fin dall’inizio ha sostenuto il progetto fornendo alcuni macchinari.
I detenuti, che spesso non hanno mai lavorato nella panificazione o ristorazione, sono guidati da Walter De Marin Pinter, maestro panificatore che li costringe a darsi il cambio ogni 4-5 ore per controllare le lievitazioni. Walter mi racconta: “Mi sono iscritto all’alberghiero e mi sono imbarcato come cuoco della marina militare”. Per caso, in una gita a Dublino, grazie a suo figlio, incontra il proprietario del Gruppo Cr e iniziano a collaborare.
Il laboratorio che deve gestire è diviso in 400mq per i lievitati e dolci, 100 mq di cucina con anche un caseificio, dove lavorano detenuti, tutti giovani, tra i 20 e i 40 anni con zero esperienza. La produttività dev’essere alta perché oltre al punto vendita di Rebibbia qui si riforniscono nove punti vendita Cookery e undici supermercati Conad: non è solo un progetto sociale, ma un’azienda vera e propria con veri e propri obiettivi.
“I ragazzi che lavorano qui sono orgogliosi e hanno voglia di lavorare, si sentono utili e lo raccontano alle famiglie; spesso mi chiedono di poter portare il pane ai figli durante la visita settimanale” mi dice Walter.
Per alcuni dei detenuti che partecipano all’attività del laboratorio le difficoltà in carcere non sono mancate proprio a causa del coinvolgimento nel progetto gastronomico; così la direzione ha pensato di raggrupparli tutti nello stesso ambiente. A queste difficoltà dovute alla convivenza, bisogna aggiungere anche imprevisti non programmabili che bloccano la produzione, come i giorni di permesso che arrivano dopo anni o lo scoppio di un focolare Covid-19.
“È un lavoro duro, mi è capitato di dover licenziare dei dipendenti perché non erano in grado di lavorare in gruppo, ma sono dinamiche che avvengono ovunque non solo in carcere. È un rapporto lavorativo con le stesse regole del mondo professionale” conclude Walter.
Insieme a lui c’è Francesca Tegazio, responsabile del punto vendita, che mi accoglie con un sorriso enorme: “Non ho mai avuto nessun dubbio nell’accettare questo lavoro, era più la mia famiglia che aveva qualche preoccupazione, io non vedevo l’ora di conoscere i miei colleghi. Ci sono solo delle nuove abitudini da metabolizzare”. Turni, permessi e regole da far rispettare. “La parte più difficile del lavoro in carcere non sono certo i detenuti, ma la routine, le piccole consuetudini: non puoi lasciare le chiavi del magazzino in giro, devi contare tutti gli attrezzi e i coltelli a fine turno, non puoi avere il telefono con te e perdi il contatto con il mondo”. Francesca non mi sembra così dispiaciuta di quest’ultimo aspetto.
Anche il trasporto dei prodotti dal laboratorio al negozio funziona in modo abbastanza rocambolesco, ma tutto, mi spiegano, viene fatto per garantire la sicurezza: un caveau blindato viene riempito di pane e cibo di ogni genere con un muletto guidato da un detenuto, che lo chiude ermeticamente e che verrà svuotato successivamente da un collega semilibero.
Mi dice ancora Francesca che la squadra funziona perché il team lavora basandosi sull’equità e sulla fiducia. “Si sono aperti quasi subito con me, mi hanno raccontato le loro storie e ho imparato a capirli. È una categoria abituata ad essere criticata e mai incoraggiata”. Walter e Francescano aggiungono: “Appena sorpassi il muro c’è un silenzio tombale e diventi uno di loro: ti concentri sul lavoro e basta”.
Insieme a loro lavorano al banco due detenuti semiliberi, dal lunedì al sabato, con turni di 7 ore. Li osservo mentre chiacchiero con Francesca e Walter – non possono rilasciare dichiarazioni se non dopo un permesso speciale del direttore del carcere – e noto una sensibilità incredibile mentre lavorano.
I clienti continuano ad arrivare: famiglie intere e giovanissimi che vivono nel quartiere, “ciao, Se’… ciao, Edoà…” Mentre bevo il mio caffè accompagnato da un’ottima sfogliatella, parlo con una coppia che vive qui da tempo e che aspettava la riapertura “ricordavamo una birra ottima che abbiamo ricercato subito nello scaffale, il pane lo compriamo qui quasi tutti i giorni e con questo spazio esterno veniamo volentieri anche con nostro figlio”, che nel frattempo ha fame e vuole provare una mozzarella di bufala, anche questa prodotta in carcere. Vengono qui perché cercano prodotti più artigianali e appena hanno saputo dell’ultima novità della tavola calda -che partirà a pieno regime anche per tutti i punti vendita da Ottobre- si sono fiondati. In attesa c’è anche una poliziotta penitenziaria che sta scegliendo il suo pranzo al sacco da portarsi dentro.
Dopo aver osservato Se’ ed Edoà al lavoro mi avvicinano due donne, forse incuriosite da me che faccio domande in giro; ci tengono a chiarire che “se vivi qui non puoi avere alcun pregiudizio”. Vicino a loro una coppia si divide un maritozzo strabordante di panna che inizia una discussione infinita, tipo critici gastronomici.
A fine giornata il laboratorio Rebibbia se ha qualcosa di invenduto si coordina con la Croce Rossa Italiana, che ritira il cibo per ridistribuirlo a persone e famiglie in difficoltà. Inoltre, l’1% del ricavato dalle vendite di tutti i punti vendita Cookery viene devoluto ad attività a favore dei detenuti.
Ho sempre pensato che la ‘prigione’ (e non a caso uso questo termine, che significa prendere-privare) manchi di una visione a lungo termine di reinserimento, finalizzata all’inclusione sociale. Quando però mi imbatto in progetti di questo genere mi si riaccende la speranza. E il cibo si conferma come sempre uno strumento capace di grandi imprese.