Lap Loreto

È un pomeriggio freddo a Milano, nel retro di un locale vicino Loreto.
“Sono piccole.”
“Lo so.”
Un uomo in tuta mi sta palpeggiando.
“Ma hai un bel culo.”
“Grazie.”
Sento l’odore del suo Hugo Boss.
“Puoi iniziare da questo fine settimana.”
“Non devo prima ballare per te?”
“Perché dovresti?”
“E se faccio schifo?”
“Oh, non ti preoccupare.”
“Ma,”
“A nessuno frega di come balli.”
Il mio nuovo capo mi da una pacca sul culo e dice che posso vestirmi.

Poi mi compro delle scarpe.

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Le vedo a Chinatown. Sono zeppe di vernice nera, alte, pesanti e col cinturino. Costano più delle classiche scarpe con la zeppa di plastica, ma quelle non mi danno l’aspetto di una “Classy Goth”—che è proprio quello che voglio sembrare. “Sono un investimento,” dico a me stessa mentre le provo. “Sarò la Posh Spice delle Spogliarelliste.” Sulla via del ritorno mi fermo da H&M e compro una vestaglia di seta nera. Ha un che di MiuMiu e mi pare adatta a completare il mio total look. A casa, in camera, provo i miei acquisti insieme alle mutande di pizzo nero e accenno qualche passo davanti allo specchio, sperando che l’outfit possa compensare la mia totale incapacità di ballare.

“Ma come cazzo ti sei conciata?”
Il buttafuori mi ride in faccia.
“Qui vogliamo delle ragazze, non delle nonne.”

Nel corso della mia prima ora allo strip club capisco che in Italia quello delle spogliarelliste è tutto un altro mondo. In America c’è dietro un insieme di performance, ruoli, lustrini e strabilianti mosse a testa in giù. Qui, tutto si riduce a una sola cosa. Guardami la fica. Che, per come sono io, immagino possa anche andare bene.

“Volevo avere un aspetto retrò.”
“Non farlo mai più.”

La mia prima ora di lavoro è tremendamente imbarazzante, di quel tipo di imbarazzo talmente spiacevole da non essere tollerabile neppure se visto in televisione.

“Cosa fai?” mi urlano contro.
Giro intorno al palo scivoloso per il sudore e mi trovo davanti la donna che sta al bancone del bar—grassa, riccioluta e con la voce di una che ha passato gli ultimi cent’anni a fumare un pacchetto di Marlboro Rosse al giorno.
“In che senso?”
“Non tocca a te, adesso!”
“Scusa, ho sentito Lady Gaga e non sono riuscita a trattenermi,” le rispondo sorridendo.
I suoi occhi mi fissano in cagnesco. “Devi ballare solo quando ti chiama il DJ.”
“Sa il mio nome?”
“Quello di lavoro.”
“Il mio cosa?”
“Qui non si usa il proprio nome!”
“Ma se non usiamo il nostro vero nome, come fanno i clienti a trovarci su Facebook?” faccio con una risatina.
“Vai a vestirti.”

Quando mi immaginavo i camerini avevo in testa una cosa alla Showgirls, dove ognuna ha il suo specchio con le luci, una sedia comoda e un enorme guardaroba. In realtà sembra più lo spogliatoio della palestra del liceo, solo più sudato, puzzolente e piccolo. Se non c’è posto non puoi sederti—e se ci riesci, ti ritrovi culo contro culo con la ragazza accanto (ma non in modo sexy).

“Vuoi?” La bionda apre una fiaschetta.
“Cos’è?”
Me la spinge tra le mani.
“Somigli a Lady Gaga,” dice.
“Grazie!” Tossisco sentendomi quasi soffocare. Quella roba sembra un beverone preparato da un adolescente coi superalcolici trovati nella stanza dei genitori.
“Anche a me una volta chiamavano così.”

Imparo che ogni ragazza balla solo due volte per notte, un quarto d’ora a volta; il resto del tempo viene impegnato a sedersi in braccio ai clienti, cercare di farli bere e rinvigorire il loro ego finché non si decidono a pagare per un’esibizione nel privé. 

“Cosa possiamo fare qui?” chiedono ogni volta.
“Tutto, tranne sesso,” imparo a dire.

Pensavo che le esibizioni nel privé sarebbero state un’esperienza da Natalie Portman in Closer, dove lei stuzzica il cliente con quel sedere perfetto che lui non può toccare. Immaginate quindi lo shock che ho sperimentato nello scoprire che non solo i clienti possono toccarti, ma anche infilare le loro dita dentro di te.

“Ti piace?” chiedono ogni volta.
“Tantissimo.” Conto il tempo che manca.

Nel taxi verso casa, mentre conto i soldi e prendo atto di averli guadagnati manipolando degli uomini, mi sento improvvisamente molto fiera di me. “Sono una buona femminista,” penso. 

Ma non una brava spogliarellista. I messi passano, come ballerina sono sempre un disastro (immagiatevi Lindsay Lohan ne Il nome del mio assassino), le altre mi ignorano, la barista pensa che sia ritardata e il buttafuori continua a odiare i miei outfit. Ma sto imparando tanto. 

Imparo che non bisogna uscire coi clienti, perché si aspetteranno automaticamente che tu sia la loro pornostar personale (irritante) o cercheranno di salvarti (triste). Imparo a usare le salviettine anti-batteriche. Imparo a tenere bloccata con una mano la porta del bagno mentre faccio la cacca, perché non c’è la chiave. Imparo a tagliar via il cordino dell’assorbente interno e, più di tutto, imparo a non provarci col marito della rumena, anche se non era colpa mia e sono convinta che i mariti non dovrebbero comunque essere ammessi nel locale. Ma sul serio.

È l’alba nello strip club vicino Loreto, e sono seduta in grembo al mio cliente preferito.
“Cosa vuoi bere?” chiedo con la vocina suadente che ho preso a fare.
“Stasera niente.”
“Qualcosa non va?”
“Che ci fai qui?”
“Parlo con te!”
“No, che ci fai ancora qui.”
“In che senso?”
“Non sei a tuo agio.”
“Ma fammi il piacere,” dico ridendo nervosamente. “Non sono una gran ballerina.”
“A nessuno frega di come balli.”
 

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