Il tour più inquietante di Chernobyl non è quello che fai andando lì di persona

ruota panoramica pripyat tour chernobyl

Dopo aver visto le prime due puntate di Chernobyl—la mini-serie prodotta da HBO e Sky che ricostruisce l’incidente nucleare più grave della storia, avvenuto nella centrale nucleare omonima il 26 aprile del 1986—ho sentito l’impulso di vedere con i miei occhi che aspetto hanno oggi gli oltre 3.000 chilometri quadrati della zona di esclusione.

Ovviamente, non sono l’unica: il successo della serie sta portando una nuova ondata di curiosi e influencer a migrare in massa verso una meta che, già da qualche anno, era relativamente gettonata da documentaristi e amanti del turismo macabro. Ora, il picco di afflusso è tale da aver spinto, la settimana scorsa, l’autore stesso di Chernobyl a pregare le persone di essere “rispettose” del sito—e della tragedia umana che ancora rappresenta—e piantarla di andare lì per farsi selfie.

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È possibile, in realtà, visitare Chernobyl senza invadere i suoi spazi fisicamente: percorrerli tramite le immagini satellitari e via Google Street View, anzi, è un modo di farlo molto più coerente con ciò che Chernobyl rappresenterà ancora a lungo—una zona intoccabile, congelata nel tempo.

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Un palazzo evacuato, lungo la strada che collega Pripyat e il paesino di Chernobyl. Tutte le immagini via: Google Street View

Aprendo Google Maps e cercando ‘Chernobyl’, appaiono subito due punti di interesse sulla mappa: uno è la vera e propria centrale V.I. Lenin, situata a tre chilometri dalla cittadina fantasma di Pripyat—da cui sono stati evacuati quasi 50.000 abitanti nei giorni successivi all’esplosione del reattore n. 4—, l’altro è l’effettiva cittadina di Chernobyl, a 15 chilometri a sud della centrale, dove sono tornate a vivere alcune centinaia di persone. Per qualche ragione, in questo secondo punto della mappa è segnalata una “Cernobiljska Nuklearna Elektrana” a cui, in correlato, compaiono le immagini dell’NSC (o New Safe Confinement)—la seconda struttura di contenimento del nucleo radioattivo che è stata completata nel 2016, progettata per durare 100 anni. Il problema è che né la centrale nucleare, né l’NSC si trovano davvero lì. Sono perfettamente visibili dal satellite, ma qualche chilometro più a nord, in corrispondenza del primo punto.

È il primo “glitch” che infesta il viaggio virtuale per la zona di alienazione e che lo rende, se possibile, più inquietante del visitare quelle zone di persona: è una specie di arcano da risolvere scivolando lentamente in Street View tra boschi, case abbandonate e cartelli in cirillico, come in un videogioco punta e clicca in prima persona.

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La stazione di Yaniv, in prossimità di Pripyat, in disuso.

Le immagini non sono tutte aggiornate allo stesso periodo—la maggior parte è stata scattata nel 2015, qualcuna negli anni successivi—, anche in uno stesso perimetro ristretto: nella vicinanza della famosa ruota panoramica, per esempio, le immagini del 2015 appaiono vuote, se non per un soldato immortalato con uno smartphone in mano, possibilmente intento a fotografare l’auto di Google come se fosse—ironicamente—l’oggetto di interesse più anomalo in quel contesto.

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Un’immagine del 2015 del parco giochi di Pripyat, deserto se non per un soldato.

Ma basta fare uno scatto verso sinistra, per trovarsi in mezzo a un gruppo di turisti immobili e con il volto oscurato dalla censura di Google. L’immagine è del 2017. Appaiono e scompaiono, a seconda di dove si sposta la visuale, aggiungendo uno strato all’esplorazione virtuale che potrebbe essere definito narrativo: se è vero che la loro identità reale è censurata e protetta dal software, nulla impedisce a chi osserva di inventare e attribuire una storia a quei corpi fantasmagorici.

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Un’immagine del 2017 dell’ex parco giochi di Pripyat, dove si vedono turisti camminare.

Per lo stesso principio, vagando tra le stradine abbandonate esterne alla città e alla sua periferia, capita che le immagini virino improvvisamente da nuvolose e verdeggianti, ad assolate e quasi aride. È come entrare per un attimo in un mondo parallelo. Le abitazioni che emergono mezze fagocitate dalla vegetazione ai bordi delle strade restano sempre abbandonate, ma, guardando bene, qualche dettaglio varia: un riflesso, una tegola, un cancello chiuso o aperto. Con un passo avanti e uno indietro, guardiamo e riguardiamo i due punti estremi di qualcosa che è successo mentre non c’era nessuno a osservare, un vuoto raccontato tramite i pieni che lo precedono e seguono—un altro glitch ripetuto all’infinito, o almeno finché la mappa non sarà nuovamente aggiornata.

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Lo stesso angolo di una strada di periferia di Chernobyl, a sx in uno scatto del 2015, a dx in uno del 2019, realizzato dall’utente Nickolay Omelchenko, autore di molte delle immagini in Street View per le vie più interne nella zona.

Ovviamente, alcune zone restano interdette anche virtualmente. Oltre al sito vero e proprio dell’esplosione—che è possibile guardare da lontano, in scatti del 2015 che mostrano l’NSC ancora in costruzione—, è impossibile addentrarsi anche nella Foresta Rossa, la pineta di circa quattro chilometri quadrati i cui alberi si sono tinti di rosso prima di morire per le alte radiazioni. Si intravedono rami e tronchi secchi e cupi dalla strada asfaltata che la costeggia e delimita; ogni centinaio di metri o più, un cartello giallo con il simbolo del pericolo radioattivo fornisce al panorama il suo significato ultimo.

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La Foresta Rossa, vista dalla strada che la costeggia.

Su Timelapse—un tool di Google Earth che permette di visualizzare gli ultimi 35 anni di immagini satellitari—la devastazione immediatamente successiva all’incidente è congelata per sempre nelle immagini satellitari del 1987. Paradossalmente, la risoluzione sgranata dovuta alla tecnologia meno accurata di allora rende i segni dell’esplosione e degli interventi ancora più inequivocabili: sono lì, macchie bianche visibili a decine di chilometri dal suolo.

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L’NSC, la struttura ultima nel 2016 che va a coprire il nucleo ancora radioattivo e il sarcofago, la prima struttura di contenimento costruita nei mesi successivi all’incidente.

Il tour virtuale di Chernobyl e della sua zona di esclusione è una stratificazione di memoria interrotta e incostante di un luogo a cui non abbiamo più accesso. Ma è proprio su questo limite che dovrebbe concentrarsi la nostra riflessione e relazione con quei luoghi. “Le radiazioni nucleari sono una minaccia per l’umanità, un disastro,” ha detto l’artista Ai Wei Wei parlando della mostra impossibile realizzata nel 2015 insieme ad altri artisti nella zona di alienazione di Fukushima, in Giappone (colpita nel 2011 da un incidente nucleare paragonabile, per entità del danno, a Chernobyl). “Il modo in cui ci esprimiamo [come artisti] davanti a questo disastro deve essere proporzionato—non essere osservabili direttamente è una condizione essenziale per queste opere.”

A Chernobyl gli alberi non si decompongono e gli animali che hanno ripopolato l’area non possono essere toccati; per quanto visitare occasionalmente quelle zone oggi sia considerato relativamente sicuro per la salute, non sarà possibile ripopolarle davvero prima di 20.000 anni. Chernobyl litiga con la nostra percezione, perché rappresenta uno spazio non colmabile, quindi, per estremo, vuoto. E andarci in vacanza in massa non ci permetterà di riempire quel vuoto. Ma vagare tra i suoi strati di memoria virtualizzata, se non altro, ci ricorda che esiste una soglia oltre la quale non possiamo andare. E questo sì che fa paura.