Il 23 febbraio del 2017 ho deciso di sfidare Facebook. Mi sono quindi messo nei suoi panni per cercare di capire come l’algoritmo interpreta ogni mia attività sul social network. Per più di anno ho quindi monitorato ogni singolo bit apparso sulla mia bacheca sfruttando l’estensione Data Selfie, sviluppata dalle designer e programmatrici Regina Flores Mir e Hang Do Thi Duc.
Il risultato è una descrizione di come il mio io digitale potrebbe essere visto dagli occhi di Facebook:
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Secondo la mia attività sul social network sono “un maschio rilassato, di sinistra, che mangia spesso fuori, che non bada allo stile quando compra vestiti e che nella vita è meno soddisfatto della maggior parte delle altre persone.”
Può sembrare un profilo generico — una specie di oroscopo — ma racchiude in sé valutazioni relative alle mie preferenze politiche e religiose, al tipo di stile di vita che conduco e tiene traccia persino delle mie relazioni con gli amici online.
Data Selfie, infatti, registra le interazioni che stabilisco con la piattaforma Facebook: i like che ho messo ai post, i link che ho cliccato, il tempo che ho trascorso ed il contenuto di ogni singolo post, tutto quello che ho scritto dalla mia tastiera e persino gli oggetti presenti nelle immagini. Tutti questi dati sono stati salvati sul mio computer e analizzati dall’estensione.
È in questo modo che Data Selfie riesce a indicarmi gli amici con cui interagisco più spesso, le pagine a cui sono più interessato sulla base del tempo trascorso su di esse e persino segnalare, in ordine di like, le pagine o i profili che più preferisco.
Quando utilizziamo Facebook, contribuiamo a produrre una versione digitale di noi stessi che diventa il soggetto di riferimento per un’intera costellazione di terze parti che fanno a gara per raggiungere la nostra attenzione attraverso il sistema delle pubblicità.
Ed è proprio in questa frase che sono racchiusi i due temi centrali del dibattito esploso nuovamente con il caso di Cambridge Analytica: la nostra relazione con i dati digitali e il capitalismo basato sulla sorveglianza.
“Ci sono dei danni nascosti quando non sappiamo chi ha accesso e chi usa i nostri dati.”
Secondo Hang Do Thi Duc — co-fondatrice di Data Selfie e responsabile della gestione e manutenzione del progetto — in una certa misura abbiamo effettivamente perso il controllo sui nostri dati, e le conseguenze non sono facili da valutare: “a volte ci troviamo di fronte degli annunci pubblicitari specifici e non sappiamo nemmeno cosa gli altri vedono riguardo lo stesso argomento, come nel caso di Cambridge Analytica.”
Ma i problemi vanno oltre le pubblicità, aggiunge Do Thi Duc, dal momento che “potresti non superare un colloquio di lavoro perché l’azienda usa un qualche tipo di algoritmo per la selezione dei curriculum o si rivolge ai data broker per acquistare dei dati che rivelano dettagli su di te che non gli piacciono: ci sono dei danni nascosti quando non sappiamo chi ha accesso e chi usa i nostri dati.”
Data Selfie si spinge fino a offrire delle predizioni sulla mia personalità, sottolineando i tratti della mia indole, soffermandosi sulla mia sfera emotiva e sul mio livello di cooperazione con gli altri.
Queste previsioni sono effettuate sfruttando degli algoritmi di machine learning come Apply Magic Sauce e IBM Watson. Il primo viene sfruttato per i tratti psico-demografici, mentre il secondo per quanto riguarda l’analisi della personalità e la comprensione del linguaggio naturale.
L’estensione affonda le sue unghie anche nelle sfere intime, come l’orientamento religioso e politico, sottolineando il mio assolutamente inaspettato equilibrio fra cristianesimo e altri sistemi — che possono includere ateismo, agnosticismo, pastafarianesimo e jedi — o la mia completamente inesistente vicinanza a istanze conservatrici.
Questo tipo di errori e imprecisioni sono, secondo Do Thi Duc, elementi importanti poiché “utilizzando algoritmi pubblicamente disponibili è possibile mostrare alle persone cosa è possibile fare, e se a volte non sono corretti è anche quello un elemento rappresentativo dell’attuale stato dell’arte.”
“Dobbiamo renderci conto,” aggiunge Do Thi Duc, che “accurata o meno, la profilazione è ugualmente pericolosa: non si tratta di come vieni profilato, ma è il fatto stesso che tu lo sia. Così inizi a immaginare quali implicazioni potrebbe avere sia in positivo che negativo.”
Il capitalismo basato sulla sorveglianza — surveillance capitalism — è quindi riuscito a scavalcare ogni tipo di discussione riguardo la profilazione, aggirando e nascondendo domande fondamentali che sono rimaste senza risposta, e riuscendo a sedimentarsi, di fatto, come una struttura del mondo digitale apparentemente non revocabile.
L’attuale modello economico e infrastrutturale di internet, infatti, si basa sulla costante raccolta, rifinitura e sfruttamento della nostra copia digitale.
Dobbiamo ricordarci che il problema non riguarda solamente Facebook, è l’intero ecosistema e modello di business che si basa sui dati.
Secondo Do Thi Duc, il surveillance capitalism modella ogni parte della nostra vita: “ogni app gratuita sul tuo smartphone e ogni sito web che visiti ti traccia per estrarre valore dai tuoi dati.”
Nel caso di Data Selfie, i dati vengono conservati localmente nel computer; solo informazioni prive di dati personali identificabili vengono mandate ai server e non vi è alcun database dei dati relativi agli utenti che hanno installato l’applicazione, come sottolineato nella sezione privacy del sito del progetto. I dati raccolti, inoltre, possono essere esportati e importati comodamente in formato JSON, permettendo così a chiunque di analizzare ciò che Facebook ci mostra in bacheca.
È importante sottolineare, però, che l’analisi effettuata da Data Selfie non è assolutamente comparabile a quella che può essere effettuata direttamente da Facebook stessa — non ha accesso ai nostri numeri in rubrica, alla posizione GPS, al nostro grafo delle relazioni, e ai dati che negli anni abbiamo fornito a Facebook mettendo i like alle singole pagine. Con Data Selfie, quindi, possiamo avere un assaggio limitato delle potenzialità del social network.
Ma si tratta pur sempre di un occhio indiscreto sulla nostra attività personale: vedere scritto che secondo i modelli predittivi non sono iscritto in palestra, che non mi piacciono le attività all’aperto, che sono interessato ai temi ambientali e che cado vittima degli acquisti impulsivi mi fa venire i brividi.
Si tratta di informazioni personali sulle quali voglio avere pieno controllo e non voglio che siano facilmente ottenibili semplicemente effettuando una banale richiesta tramite le API di Facebook o sfruttando il sistema delle inserzioni online.
Il caso di Cambridge Analytica sembra aver profondamente scosso l’opinione pubblica — non senza creare dubbi sui modi in cui il tema viene trattato — ma allo stesso tempo, sottolinea Do Thi Duc, “dobbiamo ricordarci che il problema non riguarda solamente Facebook, è l’intero ecosistema e modello di business che si basa sui dati. Abbiamo bisogno di maggiori regolamentazioni ma allo stesso tempo dobbiamo ottenere una maggiore alfabetizzazione riguardo il web e i dati, e anche un certo grado di igiene digitale.”
A maggio entrerà in vigore il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali che sembra promettere strumenti efficaci per contrastare l’abuso dei nostri dati ma, allo stesso tempo, secondo Do Thi Duc, “è interessante vedere aziende che, pur facendo parte di questo sistema e contribuendo economicamente ad esso, possono fare pressione sulla base di doveri morali” — come nel caso di Mozilla, che ha affermato di smettere di utilizzare le pubblicità su Facebook.
Il progetto Data Selfie si concluderà a giugno, poiché i costi per utilizzare le API degli algoritmi di machine learning sono significativi, ma Do Thi Duc vuole lasciare online una versione a disposizione di chiunque voglia mettere in piedi un proprio esperimento.
Ogni volta che aprirò Facebook mi mancherà il timer dell’estensione in basso a sinistra che, cercando di monitorare il tempo dedicato ai singoli post, ha svolto anche la funzione di memento mori digitale, ricordandomi che sono costantemente sorvegliato dal social network.