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Tutto quello che ho visto lavorando in un ristorante di sushi All You Can Eat

All you can eat lavoratori

I nomi sono stati cambiati per garantire l’anonimato, e le interviste sono state editate per chiarezza.

Non è difficile, per una persona della mia generazione, immaginare un ristorante di sushi all you can eat. Prevalenza di colori scuri e/o sanguigni nell’arredamento e nella mise en place, all’ingresso un bancone dove si preparano i piatti freddi, una cucina nascosta da una tenda da cui escono le pietanze calde e un menu di cui conosci buona parte del contenuto anche prima di aprirlo. Un luogo sicuro, in buona parte prevedibile – ma piacevole esattamente per questo.

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Lo stesso vale per un’hamburgheria gourmet, una pizzeria hip, una caffetteria-con-pasticceria all’americana (le bakery per intederci): tutte idee di ristoranti più che singoli locali, concetti ripetuti e dispersi con piccole variazioni nel tessuto delle grandi città. Alla base dell’etica degli AYCE c’è una promessa: “Mangia questo cibo esotico a base di pesce che non sai prepararti e non potresti permetterti altrimenti, e mangiane quanto ne vuoi.” A farla sono stati principalmente imprenditori di origine cinese che, da circa dieci anni, propongono cucina fusion mischiando piatti della tradizione giapponese, storture nordamericane alla California Roll e piatti cinesi europeizzati. Una formula così efficace che mangiare giapponese, nella sua versione “italiana” è diventato un gesto, a tutti gli effetti, intergenerazionale: mia nonna mangia sushi, i miei genitori mangiano sushi, io mangio sushi. Magari loro chiedono la forchetta e io no, ma la differenza è solo lì.

A Milano, certi quartieri sono autentici ricettacoli di All You Can Eat.

Io frequento quelli di Porta Genova, tra i Navigli e Corso di Porta Ticinese; e quelli che costellano la cerchia interna dei viali che, da Piazza XXIV Maggio, prosegue fino alla Stazione Centrale. Da mezzogiorno alle tre, e dalle otto alle undici, gli interni scuri di quegli AYCE brulicano di ragazzini, universitari, giovani lavoratori, cinquantenni in giacca e cravatta, gruppi di mamme: tutti uniti da quei dieci, venti euro popolari che dovranno mettere, a testa, alla fine del pasto.

Ma com’è vivere un All You Can Eat dall’altro lato della barricata? Cosa pensa di noi il ragazzo inguantato che prepara i nostri roll e parla solo per salutare chi entra e chi esce? E la cameriera che in dieci minuti ci ha riempito il tavolo con i trentaquattro piatti che abbiamo chiesto e che palesemente non riusciremo a finire? E la padrona che, alla cassa, osserva tutto quello che succede nel suo territorio? Sono andato a bussare alla porta di una trentina di AYCE di Milano per scoprirlo.

La prima cosa di cui mi sono reso conto è che i ragazzi e le ragazze che lavorano negli AYCE sono piuttosto restii a parlare di quello che gli succede. O ti rimandano immediatamente al loro superiore, che non ha certo tempo da perdere con delle frivolezze tipo “Ciao, scrivo per MUNCHIES, il nuovo sito di cucina di VICE“, o sostengono che non ci sia niente di particolare in quello che fanno, o farfugliano qualcosa di inintelligibile il cui senso è “Mi dispiace ma, per favore, vattene”. Dopo essere stato rimbalzato da una ventina di ristoranti, ho quindi pensato di garantire l’anonimato a chi avesse avuto il buon cuore di parlarmi.

WEI, 25 anni, Cina

Chi ordina nigiri, futomaki, uramaki, cirashi appena arrivato al tavolo, sai già che non li finirà tutti.

La strategia ha funzionato: il primo ragazzo con cui sono riuscito a parlare si chiama Wei, ha 25 anni e fa il cameriere in un All You Can Eat nella media: circa tredici euro il prezzo per il pranzo, ventidue la sera. Gli chiedo quali sono, secondo lui, i clienti più problematici. Lui ci pensa un attimo, e poi fa: “Quelli che ordinano troppo”. A quanto mi dice, i camerieri sanno riconoscere benissimo i poveri cristi che, di fronte alla smisurata offerta del menu, hanno sopravvalutato la loro capacità di ingerire riso: “C’è chi ordina nigiri, futomaki, uramaki, maki e cirashi appena arrivato al tavolo”, mi dice Wei, “e sai già che non li finirà”.

Io sono il primo ad aver dovuto impiegare tattiche di cui non vado particolarmente orgoglioso, tipo ogni volta che il cervello mi ha manda in cortocircuito il senso della misura dopo aver letto le parole “Tiger Roll”. Mordo gli uramaki a metà prendendo solo il ripieno e lascio sul piatto piccoli mucchietti di chicchi di riso. Scorporo nigiri spezzettandoli in giro per i piatti rimasti sul tavolo. Nascondo gli avanzi del chirashi sotto al tovagliolo e mi alzo dal tavolo con la vergogna nel cuore, convinto ogni volta di averla fatta franca. Wei infrange le mie speranze: “Noi vediamo tutto, siamo abituati a gente che non riesce a finire i piatti. Ma di solito lasciamo sempre andare, non è un problema.”

Felice di non aver inflitto troppi danni al sistema degli All You Can Eat con i miei avanzi, chiedo a Wei se ci sono casi in cui, invece, non la lascia passare franca ai clienti: “Sì,” mi risponde, “quando fanno finta che il piatto non è loro. Io vedo sempre cosa hanno ordinato, cosa è arrivato e cosa no”. Nel suo ristorante, infatti, ci sono quelle macchinette con lo schermo a LED e il pennino. Sappiate, quindi, che potete fare gli gnorri quanto vi pare, ma se avete ordinato troppa roba forse otterrete un risultato migliore ad ammettere la vostra resa invece che questionare sull’origine del piatto di udon che vi è appena arrivato sulla tavola.

SHI, 20 anni, Cina

Ho visto dei nigiri nel vaso della pianta davanti al ristorante,a volte anche nascosti in bagno, nel cestino. Una volta un uomo ubriaco mi ha lanciato le sue bacchette per chiamarmi.

Shi, invece, è arrivata in Italia da poco: ha vent’anni e ha raggiunto la sua famiglia, che gestisce un ristorante a Milano. La sala in cui lavora è molto grande rispetto alla media: è un ex capannone/magazzino/superspazio ora diventato uno di quegli enormi AYCE a buffet che offrono un po’ di tutto, la pasta allo scoglio come la carnazza. Shi non deve gestire le ordinazioni: i clienti si servono da soli, ma lei deve comunque stare attenta a eventuali sprechi. “Tanti cercano di nascondere il riso”, mi dice: probabilmente una conseguenza dell’ambiente, perché se non hai paura che il cameriere possa arrivare da un momento all’altro ovviamente ti senti abbastanza al sicuro da fare la mossa e uscirtene con otto nigiri avvolti in un fazzoletto che ti gonfiano i pantaloni.

A Shi capitano anche clienti creativi – “Ho visto dei nigiri nel vaso della pianta davanti al ristorante”, mi dice, “a volte anche nascosti in bagno, nel cestino” – e molesti: “So l’italiano piuttosto bene, ma a volte mi parlano come se non capissi niente, ed è brutto. Poi c’è chi ti urla perché un piatto è finito, e se stesse calmo potresti spiegargli che sta arrivando un vassoio nuovo. Una volta un uomo ubriaco mi ha lanciato le sue bacchette per chiamarmi”. Sfortunatamente, non c’è ancora modo di capire se la persona che sta entrando nel tuo ristorante è socialmente inetta o meno.

HIROSHI, 40 anni, Giappone

Molti vogliono usare solo le bacchette e non riescono a metterlo in bocca. Quindi lo infilzano, lo rompono… portiamo anche l’asciugamano a inizio pasto, apposta per le mani…

Hiroshi è un’eccezione: è nato in Giappone e la sua famiglia si è trasferita in Europa quando lui era ancora bambino. Il ristorante che gestisce non è il tipico All You Can Eat: a dominare sono il marrone del legno, le sfumature verde di teli e decorazioni, il bianco sporco delle stampe tradizionali appese ai muri. Le sue bacchette sono di ceramica e il suo staff interamente giapponese. Il mangia-quanto-vuoi è un’opzione che ha deciso di inserire a fianco di una tradizionale proposta à-la-carte da qualche anno a questa parte: “Gli affari vanno meglio da quando abbiamo fatto l’All You Can Eat”, mi dice, “Ma da noi costa un po’ di più del normale per tenere alta la qualità”.

Chiedo a Hiroshi quali sono le cose più strane che gli sono capitate nel gestire il ristorante. Lui mi parla di una tipologia umana che definirei “i coraggiosi”: “Nel menu abbiamo piatti che non trovi da altre parti,” spiega, “ad esempio il nattō“. Parentesi: il nattō si fa lasciando fermentare dei germogli di soia fino a fargli acquisire una texture collosa e filante, oltre che un sapore che non consiglierei proprio a tutti. “È nel menu All You Can Eat, molti lo provano e quando lo portiamo ci rimangono”. Hiroshi si diverte molto a guardare quello che succede sul tavolo: “lo annusano, lo provano e si sforzano di finirlo anche se per loro è terribile.”

Da bravo giapponese, a Hiroshi piace anche guardarci maltrattare il sushi: “È ok prendere i roll con le mani,” mi dice, “Ma molti vogliono usare solo le bacchette e non riescono a metterlo in bocca. Quindi lo infilzano, lo rompono… portiamo anche l’asciugamano a inizio pasto, apposta per le mani”. Se fate parte di quella categoria di persone che lordano la loro tovaglia e hanno un etto di riso nella scodellina della salsa di soia a fine pasto, avete appena imparato qualcosa. “Lo zenzero non si mangia con il sushi”, continua Hiroshi, “ma tra i piatti per pulire la bocca”: sfortunatamente molti clienti non lo sanno, e più volte gli è capitato di dover tranquillizzare persone che si erano scofanate in un morso tutto lo zenzero e/o il wasabi (e non il rafano che vi sparano un po’ ovunque) sul loro piatto ottenendo, come unico risultato, di auto-causarsi crisi di lacrime e tosse.

Quello che mi resta, dalle conversazioni che sono riuscito a fare, è un certo sollievo: finalmente ho la certezza che posso evitare di passare per un idiota semplicemente dicendo “Hey, non ce la facciamo più a mangiare, è ok”? Non sono riuscito a farmi confidare niente di davvero strano, ma in fondo è meglio avere la conferma che lavorare in un AYCE non è poi così diverso da farlo, boh, in una pizzeria: c’è solo molto più riso in giro a fine servizio, e molte più risate sotto i baffi a guardare i tuoi clienti mettersi in imbarazzo. Me lo ha detto chiaramente uno dei tanti gestori che mi hanno rimbalzato: “Non so davvero cosa dirti se cerchi racconti strani: il mio è un lavoro normale. Adesso scusa, devo lavorare”.